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Birre fatte in casa e assaggiatori improvvisati

Ricordo benissimo la prima bottiglia di una mia birra autoprodotta che stappai ormai qualche anno fa. Lo feci di nascosto dal mio compagno di cotta, che voleva lasciarla maturare ancora qualche settimana nell’armadio di casa prima di versarla nel bicchiere. Erano più o meno dieci anni fa, mi piaceva bere e adoravo la birra da pub, ma competenze di stili birrari ne avevo ben poche. La birra in questione era una Porter da circa 5 gradi alcolici. Ancora non sapevo nemmeno cosa fosse il BJCP (per chi non lo sapesse, qui un approfondimento), quali fossero le differenze tra Stout e Porter (qui una mia teoria, sviluppata anni dopo) e cosa mi dovessi aspettare di preciso da una ricetta che avevamo preso da un sito che vende materiale per homebrewer (ecco: non fatelo).

Stappare quella bottiglia fu emozionante, perché raccoglieva mesi di elucubrazioni, una giornata intera di lavoro dietro ai pentoloni (la mia prima cotta durò ben dieci ore), due settimane di fermentazione e altre due di rifermentazione. Fui stupito dalla bontà della birra, che sorseggiai con estrema soddisfazione.

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Era davvero così buona? Probabilmente no. Sicuramente era una birra priva di difetti evidenti, ma da qui a definirla un’ottima Porter, come si manifestava invece nella mia testa, ce ne passava. Era comunque una mia creatura, qualcosa che avevo pensato e prodotto partendo da zero (nessun kit, cotta all-grain). Ricordo l’ansia quando la facevo assaggiare in giro, l’attesa snervante mentre scrutavo il viso dell’assaggiatore per cogliere un’impercettibile deviazione delle labbra, una piccola smorfia, un leggero sospiro di piacere. L’attesa snervante dei messaggi degli amici a cui avevo dato una bottiglia da assaggiare con calma a casa. L’hai assaggiata? L’hai bevuta? Che mi dici?

I riscontri su quella prima birra furono poi tutto sommato mediamente positivi, ma non ero ancora parte del giro in cui mi trovo oggi, con tanti amici birrai, giudici esperti, homebrewer di tutti i livelli. Erano per lo più amici compagni di bevute, spesso in pub dove l’offerta più eccitante era la Heineken nel boccale da un litro preso direttamente dal freezer, accoppiata a una porzione da 200 grammi di cacio e pepe.

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Erano altri tempi. Ma il tema del discorso è un altro.

Non sono mai stato un campione nel gestire giudizi negativi sulle mie birre, lo ammetto. Credo nella sincerità e nel fatto che si possa migliorare solo se le persone di cui ti fidi ti danno pareri genuini, ma ciò non toglie che ricevere critiche mi risulti sempre un po’ indigesto. Poi ci ragiono su, elaboro e vado avanti, contento di averne ricevute; ma lì per lì, specialmente se non corrispondono alle mie aspettative, bruciano.

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Se poi, come capita a volte, le critiche sono fuori contesto o buttate lì solo per darsi un tono, mi innervosisco parecchio. Però servono anche quelle, perché giudicarsi le birre da solo, anche dopo aver maturato una certa esperienza, non è facile. L’amore per la creatura che abbiamo coccolato per tanti mesi (a volte anche anni) è troppo forte per permetterci di elaborare un giudizio calzante. È chiaro che ormai mi rendo abbastanza conto se una mia birra è in stile oppure no, se è difettata, se è buona o no, se è ben fatta o se è riuscita male. Ma le sfumature, i piccoli difetti, un bilanciamento leggermente zoppo, non sono elementi facili da cogliere.

Per questo continuo a far assaggiare le mie birre ad amici, esperti e non, ma anche a parenti e conoscenti. Ci sono tuttavia delle reazioni che ancora oggi mi fanno saltare sulla sedia, o delle situazioni in cui cerco con tutte le mie forze di non portare birre in assaggio. Ma non sempre ci riesco. E allora mi tocca abbozzare e farci una risata su. O almeno provarci, dissimulando.

Quelli che assaggiano le tue birre mentre fanno altro

Sei al tavolo con amici, o parenti, o entrambi. Hai portato le tue birre da assaggiare, tra l’altro su richiesta degli amici e parenti stessi, perché fosse stato per te le avresti lasciate volentieri a casa, non essendo il contesto che preferisci per far assaggiare le tue birre: troppa gente, scarsa concentrazione, odori vari di cibo a tavola, palato impastato da altre bevande (spesso vino, rosso per giunta) o da cibi vari.

Attendi il momento migliore per tirare fuori le bottiglie, ma sembra non arrivare mai. Prima spunta il prosecchino, poi il salame piccante, si apre il vino rosso, arrivano i primi, si beve altro vino rosso, partono i secondi, i palati ormai sono impastati, le menti offuscate. A questo punto speri che si siano dimenticati delle tue birre, te le riporteresti a casa volentieri.

Invece, all’improvviso, qualcuno si ricorda e ti chiede di portarle a tavola: “Così finalmente assaggiamo queste fantastiche creazioni di cui tutti ci parlano!”. Tu vai a prendere le bottiglie di Pils sfiduciato, già incazzato in partenza, con una certa agitazione in corpo. Le porti in tavola mentre tutti parlano d’altro, nemmeno si accorgono che sei arrivato. Osservi la condensa che si forma sull’esterno delle bottiglie, chiudi gli occhi e provi a sparire con il teletrasporto.

Arriva il cugino di quinto grado con l’apribottiglie, stappa e versa nei bicchieri. Ovviamente quelli in cui prima c’era il vino rosso. Versa lentamente, piegando il bicchiere, con delicatezza, come un artificiere maneggerebbe un ordigno inesploso. Guardi con disgusto la tua amata Pils scendere nel bicchiere senza formare il minimo cappello di schiuma, cercando di dimenticare la vena che pulsa sulla tempia destra. Nell’ultimo bicchiere viene gentilmente versato tutto il fondo, arrivando a capovolgere la bottiglia per lasciar scolare fino all’ultima goccia. Non sia mai che rimanga qualcosa in bottiglia.

Finito lo scempio, la gente inizia a sorseggiare mentre parla. Nessuno ti caga, i bicchieri si svuotano nella confusione generale come se stessero bevendo dell’acqua. Scruti i volti, cerchi di stimolare la discussione, ma niente. A un certo punto lo zio lontano ti guarda, con il bicchiere vuoto, e dice “Certo il vino è insuperabile con le salsicce!”. Tutti ridono, si riparte a bere vino mentre tu prometti a te stesso che mai, mai e poi mai porterai nuovamente le tue birre in assaggio alla tavolata con i parenti e gli amici.

Quelli che parlano di stili ma non li conoscono

Non vorrei sembrare il solito BJCP-nazi, di quelli che citano le sacre scritture sugli stili birrari ovunque vanno. Per quanto sia legato al programma BJCP e alle loro linee guida sugli stili, sono ben consapevole che tra leggere la descrizione e conoscere davvero uno stile può esserci un abisso. Dopo anni di viaggi e assaggi, posso dire di conoscere con un buon livello di confidenza solo una ridotta parte dei numerosi stili birrari esistenti, tra cui alcuni le cui caratteristiche stilistiche sono spesso discusse anche tra esperti. Quindi, no: non è questo il punto.

Però (c’è, ovviamente, un però). Quando porto le mie birre in assaggio, non sopporto quelli che si vogliono dare un tono analizzando l’aderenza della ricetta allo stile, non sapendo evidentemente una mazza sullo stile in questione. Quando partono i commenti a caso sugli stili, perdo la pazienza. Specialmente quando si tratta di birre fatte da me. Anche perché, se da un lato è vero che mantenere l’oggettività sulla qualità organolettica è dura quando si tratta di birre fatte da te, è meno difficile valutarne l’aderenza a un determinato stile, trattandosi di parametri meno legati all’emozione e maggiormente quantificabili: livello di amaro, corpo, presenza di aromi fruttati, fenolici, e via discorrendo.

Esempi? Quando mi si critica una Bitter o una Mild o una Scottish Ale perché troppo “watery”, una American Porter perché ha poco luppolo in aroma, una Irish Stout perchè non ha schiuma pannosa e bianca come la Guinness (spoiler, la schiuma della Guinness non è bianca!) o perché “monocorde e poco complessa”, una Belgian Dark Strong Ale perché troppo ambrata o quelli che “manca un leggero aroma di mela verde nella tua Kolsch”. Ve bene tutto, le critiche stilistiche ci stanno, ma quando sono fini a loro stesse e soprattutto quando come riferimento hanno una idea personale dello stile e non delle nozioni stilistiche ben precise, meglio non farle.

Quelli che sentono lievito ovunque

Credo che mi troverò a lottare contro l’aroma di lievito a vita. Tempo fa, esasperato dalle continue discussioni, scrissi sul tema un lungo articolo sul mio blog. È incredibile quante volte mi sia arrivata come critica a una mia birra (ma anche a quelle di altri) un certo indefinito “aroma di lievito”. Quando mi capita davanti qualcuno che dice questa cosa, impazzisco. Chi mi conosce bene lo sa, e si fa una risata. Spesso me la faccio anche io, ma con la solita vena sulla tempia destra che pulsa ininterrottamente.

La birra non sa di lievito. Non profuma di lievito. L’aroma di lievito (del panetto di lievito) non è particolarmente piacevole, se vi capita una birra con un aroma del genere ve ne accorgete. E non sarà certo una mia birra, perché me ne accorgerei anche io, per quanto le voglia bene come se ne vuole a una figlia, e non ve la porterei in assaggio. Garantito.

Di cosa odora il lievito? Basta provare ad annusare una bustina di lievito per birra appena aperto, di quelle che si usano in cucina, per rendersene conto. Non è piacevole, è un aroma che spazia dal glutammato spinto, allo zolfo, alla pasta cruda per il pane. Essendo il panetto di lievito un concentrato di cellule di lievito, è probabile che parte di questi aromi derivino da cellule andate in autolisi, ovvero morte, che lasciano uscire i composti che hanno al loro interno. I quali sono molteplici, ma nella maggior parte dei casi si presentano con aromi solforosi, di gomma bruciata, glutammato, soia. Ecco, se avvertite questi aromi nella birra, c’è un problema. L’autolisi delle cellule di lievito capita anche nella birra, ma è rara. E ce ne devono essere tantissime. Cosa che in genere non accade, anche nelle birre non filtrate.

Basti pensare alle birre belghe, che spesso si servono torbide con il fondo, o a una buona Weizen, frequentemente torbida per il lievito in sospensione (anche questa spesso servita con il fondo). Certo, nelle Weizen si ritrovano aromi di panificato e di impasto per pane, ma tendenzialmente vengono dal frumento e dai malti chiari in generale, non dal lievito in sospensione. Tant’è che si ritrovano anche in una Helles o in una Festbier, che frumento non ne hanno e sono in genere limpidissime.

Insomma, quando mi dicono che nella mia birra sentono aromi di lievito (a qualcuno so che fischieranno le orecchie, ora: non me ne voglia), riparte la vena sulla tempia destra. Per me, quando si sente il lievito si avverte l’espressione aromatica della fermentazione, quindi fenoli speziati, esteri fruttati, volendo anche composti solforosi come cerino appena acceso o uova marce, diacetile (burroso), acetaldeide (mela verde) e altro ancora. Ma comunque aromi derivanti dalla fermentazione, non dal lievito in sospensione nella birra.

Lo so che molti non sono d’accordo con questo mio punto di vista, resto sempre aperto al confronto (occhio alle vena però!). In realtà non lo è nemmeno il BJCP, che nella scheda per la valutazione delle birre, tra gli aromi, specifica “Yeasty – A bready, sulfury or yeast-like aroma or flavor”. È sul “bready” che non mi ritrovo, perché dallo stesso BJCP è un aroma tipicamente associato al malto, alle reazioni di Maillard.

Voi, da che parte siete?

Quelli che devono per forza sentire difetti

Altro contesto, altra vena che parte. Esistono degli stili in cui, per ragioni storiche di produzione, sono tollerati dei piccoli difetti in basse dosi. Le parole chiave in questo caso sono “tollerati” e “in basse dosi”. Esempio tipico: un leggero aroma o flavour di diacetile (burroso) nelle birre ceche, dovuto storicamente ai ceppi di lievito utilizzati per produrre queste birre. Oppure il DMS, che può fare capolino nelle basse fermentazioni chiare, dovuto all’uso massiccio di malti Pilsner, ricchi del precursore che riscaldandosi forma il DMS. Ancora, altro tema scottante (anche a questo dedicai un articolo sul mio blog): l’aroma di salamoia nelle birre scure, che non si sa nemmeno da dove venga e che non viene praticamente mai nominato in nessuna manuale di stili o di difetti.

Primo punto, importante: non è che se non c’è diacetile, allora non è una buona Pils ceca. Il difetto è tollerato, non ricercato. Può dare complessità (e davvero la dà in alcuni casi, in dosi minimali), ma generalmente è solo fastidioso. Quindi, non venite a dirmi che non è una Pils ceca se non c’è diacetile. Ma questa è solo una faccia della medaglia. Perché in molti casi questi difetti, diacetile e DMS in particolar modo, vengono buttati lì solo perché la birra è stata presentata come Pils ceca, o come Helles tedesca, o come bassa fermentazione in generale. L’associazione stile-difetto è immediata, al di là di quello che uno sente nel bicchiere. Segnalare il difetto contribuisce a dare un’aura di professionalità all’assaggiatore, ancor di più se lui lo sente e tu no. Eh, lui è esperto, tu sei condizionato perché la birra la hai prodotta tu.

Possibile, certo, a volte capita. Mi è capitato di aver oscurato dei sentori “scomodi” dalla mia Flanders Red, ad esempio. Per me era abbastanza pulita, per quanto possa esserlo una birra fermentata con batteri e lieviti selvaggi, ma qualcuno (non tutti) all’assaggio hanno trovato alcuni difetti. Per fortuna, in quel caso erano persone esperte che non hanno bisogno di elencare difetti per darsi un tono, quindi ho preso e ho portato a casa. E poi ho iniziato a percepirli anche io.

Ma in molti altri casi non è stato così, e la vena ha preso a pulsare.

Meglio quindi tenersi le birre a casa?

Con questa panoramica semiseria ho cercato di sdrammatizzare quello che provo quando faccio assaggiare le mie birre in giro. E le ragioni per cui, a volte, preferisco tenermele a casa, e non portarle in giro.

Questo non significa che non le faccia assaggiare, ci mancherebbe, ma semplicemente ho imparato a selezionare le persone e soprattutto i contesti che mi possono restituire feedback sinceri, anche negativi ma ben comunicati, spunti di miglioramento. Invidio (e stimo) molto quegli homebrewer che riescono a incassare giudizi negativi senza battere ciglio, o quelli che portano litri e litri di birra agli eventi, la versano a tutti in bicchieri unti, sporchi di chissà cosa, e se ne vanno sorridendo. Girano le spalle e salutano, mentre la gente spara giudizi a caso sulle loro birre. Senza vena che batte, senza sofferenza interiore. Vi invidio, maledetti.

Francesco Antonelli
Francesco Antonellihttp://www.brewingbad.com/
Ingegnere elettronico prestato al marketing, da sempre appassionato di pub e di birre (in questo ordine). Tra i fondatori del blog Brewing Bad, produce birra in casa a ciclo continuo. Insegna tecniche di degustazione e produzione casalinga. Divoratore di libri di storia e cultura birraria. È giudice certificato BJCP (Beer Judge Certification Program).

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2 Commenti

  1. Ahahah Frank è incredibile come mi ritrovi in ogni virgola di quello che hai scritto! Aggiungo una categoria: l’amico che ti chiede insistentemente una birra da assaggiare e poi aspetta “l’occasione speciale” per berla, che di solito arriva dopo un paio d’anni di attesa sullo scaffale in garage. E quando ti rivede (tu manco ricordi che gli avevi dato una birra), ovviamente ti rinfaccia che la tua IPA non era così profumata come quelle che lui beve nel brewpub.

    • Ah, ah verissimo! Ricordo, quando per il mio matrimonio avevo fatto in casa le “Beerboniere” da dare agli invitati. Tre batch consecutivi da 10 litri, fatti tutti in casa da solo. Poi scoprivi che molti non le aprivano perchè “sono troppo belle, poi le rovino”. ah ah

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