Ho iniziato a fare birra in casa relativamente pochi anni fa. Correva l’anno 2012, c’era già Internet in tutte le case, i corrieri consegnavano in tre-quattro di giorni (non ancora un giorno per l’altro, ma eravamo a buon punto), Amazon vendeva un po’ di tutto e per contare i siti di un certo livello da cui acquistare materie prime per fare birra in casa servivano già le dita di due mani. Devo ammetterlo: non è stato difficile reperire il materiale per la cotta inaugurale, sono bastati pochi click e qualche giorno di pazienza in attesa dei pacchi. Eppure, in questi otto anni di produzioni casalinghe, ho assistito a un costante aumento nella varietà e disponibilità delle materie prime, nonostante partissi da un contesto già piuttosto variegato. Se mi sembrava di avere a disposizione una vasta scelta di ingredienti otto anni fa, oggi c’è quasi da perdere la testa mentre si naviga sui siti che forniscono materiale per la produzione casalinga di birra. Dall’attrezzatura agli ingredienti, il catalogo a disposizione dell’homebrewer si è notevolmente ampliato. Oggi volevo focalizzarmi in particolare sull’evoluzione di uno dei quattro ingredienti, che in questi anni ha vissuto una enorme spinta verso la diversificazione dell’offerta: il lievito.
Fino a qualche anno fa, la maggior parte delle varietà erano distribuite tra due coppie di produttori, tra loro concorrenti: due per i lieviti secchi (Lallemand/Fermentis) e due per i liquidi (Wyeast/White Labs). Ce ne era sicuramente qualcun altro, ma se ne sentiva parlare molto poco e la disponibilità era decisamente limitata. Tra i lieviti secchi i ceppi a disposizione dell’homebrewer non erano molti, mentre per i liquidi il catalogo era più ampio ma fondamentalmente spaziava tra tre tipologie di fermentazioni: alta (lieviti inglesi, americani e belgi), bassa (tedeschi) e qualche sparuto ceppo per fermentazioni miste (principalmente Brettanomyces e – forse, non ricordo bene – un paio di ceppi di batteri lattici liquidi, poco diffusi). Per molti anni ho utilizzato praticamente solo US-05, il ceppo neutro americano per eccellenza, un paio di liquidi per le belghe e il W34/70 secco per le basse fermentazioni. C’era poco altro per produrre birre alternative, eclettiche o stili particolari. Gli homebrewer si dividevano tra i fan sfegatati dello “Smack Pack” della Wyeast, la bustina che si gonfia qualche ora prima di inoculare il lievito nel fermentatore, e le fiale modello “laboratorio segreto” della White Labs, trainate dal pupazzetto con il mantello chiamato “Yeastman”, mascotte di questo innovativo produttore con base a San Diego, in California.
Anche le condizioni di acquisto erano piuttosto fumose: nessuno ti diceva in anticipo quanto era vecchia la busta di lievito che stavi per ordinare. Per i lieviti secchi questo non fa grande differenza, visto che si conservano e funzionano bene anche a un anno dal confezionamento; per i liquidi, però, due o tre mesi di conservazione in più potevano fare la differenza. A volte ti spedivano una bustina con dentro due cellule di lievito che dovevi rivitalizzare con lunghi interventi di rianimazione: potevano durare giorni, starter dopo starter, se non addirittura settimane. Oggi quasi tutti i siti scrivono la data di produzione in chiaro sul sito e i lieviti vecchi vengono messi in offerta: puoi scegliere consapevolmente di intraprendere la strada della rianimazione cellulare spendendo meno, oppure no.
Chi ha iniziato a fare birra prima di me, ha passato momenti anche peggiori. La famosa storia del travaso intermedio, pratica ritenuta indispensabile per evitare che la birra prenda un sapore di carne in scatola o di gomma bruciata, deriva proprio dalla difficoltà di reperimento dei lieviti. Quindici o venti anni fa era molto difficile acquistare lieviti in condizioni decenti, spesso si ricorreva a confezioni di lievito vecchie o addirittura si usavano lieviti per la panificazione per produrre birra in casa. Non sempre si fermentava in condizioni di temperatura ottimale perché non era da tutti acquistare un secondo frigorifero da usare come camera di fermentazione. Questo rendeva le fermentazioni sbilenche, il lievito si affaticava e le cellule tendevano a rompersi per lo stress (autolisi). Le sostanze custodite al loro interno potevano facilmente finire nella birra rilasciando aromi sgradevoli (la carne in scatola di cui sopra). Per limitare i danni, l’homebrewer travasava la birra in un altro contenitore a metà fermentazione, cercando di lasciarsi dietro una buona parte delle cellule di lievito. Una pratica che oggi è inutile nella maggior parte dei casi grazie alle migliori condizioni di salute e di lavoro del lievito. C’è chi ancora va travasando in giro per casa a ogni cotta, ma per fortuna il numero di adepti alla setta del travaso cala di giorno in giorno. E questo grazie alla conoscenza diffusa, ma anche alle condizioni in cui si acquista il lievito che sono nettamente migliorate.
Chi si lancia oggi nel fantastico mondo della produzione casalinga di birra ha a disposizione un ventaglio di scelte molto vasto quando parliamo di lieviti. Negli ultimi anni diverse aziende si sono affacciate su questo mercato con prodotti molto interessanti. Inoltre, dopo una lunga ondata di entusiasmo verso il luppolo – in parte ancora in corso – il lievito e la fermentazione in generale hanno ripreso a dominare la scena nelle produzioni casalinghe e non solo. In questo senso ricordiamo il motto “Yeast is the new hops” del produttore italiano Ca’ Del Brado, che spesso convoca gli homebrewer in birrificio per regalare fialette con il blend di lieviti e batteri che utilizza nelle sue produzioni.
Un paio di produttori interessanti della nuova generazione sono per esempio gli americani Bootleg Biology e The Yeast Bay. Bootleg Biology è un progetto nato in America come banca dati “open” di ceppi di lievito, isolati dalle fonti più disparate. L’azienda mette addirittura a disposizione, a chi lo richiede, un kit chiamato “Backyard Yeast Wrangling Tool Kit”, pensato per catturare lieviti nel giardino di casa. Gli utenti spediscono il campione all’azienda che li isola propagandoli in laboratorio. Il ceppo viene analizzato e messo nella banca dati del produttore, con tanto di nome e cognome di chi ha inviato il campione. Il donatore riceve diversi benefici, tra cui – in alcuni casi, quando possibile – il ceppo isolato e pronto all’uso o comunque sconti o scambio con altri lieviti presenti nella banca dati. L’obiettivo è costruire un database pubblico con ceppi di lievito locali, catturati in giro per il mondo, facilmente propagabili e disponibili all’uso. In casi eccezionali, alcuni di questi lieviti possono entrare ufficialmente nel catalogo di vendita, come per il “Saison Blend” di The Mad Fermentationist, mix di diversi lieviti propagato con metodi casalinghi dal famoso homebrewer Michael Tonsmeire, ora disponibile in comode confezioni sul sito di Bootleg Biology.
The Yeast Bay, altro giovane produttore americano, è invece particolarmente attivo sul recupero di lieviti e mix di lieviti e batteri dai fondi di bottiglia di birre commerciali. Ha in catalogo diverse tipologie di lieviti selvaggi, i Brettanomyces, isolati da bottiglie di svariati produttori. Spesso non viene indicato il produttore specifico, ma le indicazioni sulla busta danno una vaga idea sull’origine del ceppo. Ad esempio il Brussels Brettanomyces Blend viene descritto così: “This blend combines Brettanomyces strains isolated from a unique Lambic produced in the Brussels region of Belgium”. Un po’ vago, certo, ma la zona di provenienza è chiara. The Yeast Bay produce anche alcuni blend “pre-assemblati”, come quello chiamato “Amalgamation”, un mix di sei ceppi diversi di Brettanomyces selezionati per formare un bouquet aromatico ampio, sfaccettato e unico. Ma ce ne sono molti altri, la scelta è veramente vasta.
Un’altra novità degli ultimi tempi, ormai diventata quasi blasonata, sono i batteri lattici della società Bioagro (sito web). Nati dal progetto Batteri lattici nella birra ideato dall’homebrewer, ora birraio e produttore di sakè, Nicola Coppe, sono ceppi in grado di acidificare velocemente il mosto (in un paio di giorni) senza produrre difetti evidenti. Si tratta inoltre di batteri “sicuri” da usare in birrificio, perché selezionati tra quelli non resistenti al luppolo. Questo rende altamente improbabile una contaminazione in birrificio o in casa, visto che raramente si producono birre con livello di amaro inferiore ai 10 IBU (il massimo che questi batteri riescono a tollerare). Grazie all’inoculo selettivo di queste comode confezioni prodotte sia in formato per homebrewer che per birrifici, si riesce a produrre una birra acida in pochissimi giorni. Questa pratica non è ben vista dagli appassionati più integralisti perché ha portato a una sorta di standardizzazione delle birre acide, soprattutto Gose e Berline Weisse, che ormai vengono prodotte quasi sempre con questo metodo, detto “sour kettle”, appiattendo un po’ lo spettro di aromi e sapori. A ogni modo si tratta di un’innovazione importante che permette di produrre birre acide, magari con aggiunta di frutta varia, in poco tempo e senza incorrere nel rischio di contaminazioni. Senza dubbio un caso di successo.
Andando su innovazioni più recenti (parliamo di due-tre anni) troviamo un’altra serie di ceppi che inizialmente ha coinvolto pochi homebrewer appassionati, ma che ormai sta entusiasmando una platea sempre più ampia di produttori casalinghi e birrai: i lieviti Kveik. Se ne sente parlare spesso, molte volte a dire la verità senza grande cognizione di causa. Vengono frequentemente definiti spesso lieviti farmhouse ed in effetti lo sono, perché la loro origine risale alla tradizione birraria delle fattorie Norvegesi. Molte persone però tendono ad associare il termine farmhouse al concetto di “wild”, ovvero a birre estreme, a volte acide, con sentori speziati. Tutt’altro. I lieviti Kveik (ne esistono moltissimi ceppi) sono accomunati dall’esprimere un profilo piuttosto neutro, a volte impalpabile. Non possono produrre fenoli (gli aromi speziati di cui parlavo prima) perché non hanno i geni per produrli. La loro caratteristica più interessante è che sono in grado di fermentare a temperature molto alte rispetto allo standard, parliamo di 30-35°C, producendo in pochi giorni birre estremamente pulite. Ideali quindi per chi è alle prime armi e non ha una camera di fermentazione (scaldare il fermentatore è molto più semplice che freddarlo, basta una stufetta o una cintura di calore), ma anche per produrre in birrificio birre dal turnaround veloce, pronte per la vendita nel giro di 15-20 giorni. Ne esistono diversi ceppi in forma liquida: la Omega Yeast ne ha isolati ben cinque dalle caratteristiche simili ma leggermente diversi, ma ne producono anche la White Labs e altre aziende del settore. Da poco la Lallemand ha rilasciato il ceppo Kveik Voss in formato secco, di cui si dice un gran bene. Avessi potuto averli io quando ho iniziato a fermentare birra nel mio armadio!
Altra innovazione, recentissima stavolta, sempre legata al mondo delle birre acide, ruota intorno ai ceppi cosiddetti “Lattacidi”. Si tratta di lieviti conosciuti da diversi anni (il birrificio Birra dell’Eremo li utilizza nella sua Madue) ma poco impiegati in birrificio o in casa perché non disponibili in formato commerciale. Da poco la Lallemand ha messo in commercio un ceppo di Lattacidi nel formato secco, il Philly Sour. Protagonista è il ceppo Lacanchea, in grado di fermentare gli zuccheri del mosto come un normale lievito e nel contempo produrre una quantità nettamente maggiore di acido lattico. Questo significa che è possibile produrre una birra acida in tempi brevi senza il doppio inoculo di batteri (per esempio i ceppi di Bioagro) seguito da un lievito che porti a termine la fermentazione una volta acidificata la birra. Il Philly Sour fa tutto da solo: acidifica e fermenta, portando nel bicchiere una birra con pH intorno a 3.3/3.2 (quello della birra “normale” non è mai inferiore a 4.0) completamente fermentata. Aggiungendo, dicono, ma non l’ho ancora provato, aromi leggermente fruttati (frutta tropicale). Una cosa del genere era impensabile da fare in casa fino a qualche anno fa.
Dove arriveremo? Non saprei dirlo, ma di ricerca in questo campo ce n’è tanta. Posso però immaginare cosa piacerebbe agli homebrewer: un ceppo da Altbier secco, per esempio; ma anche delle varianti di Brettanomyces in formato secco, simili a quelle Bioagro dei batteri lattici; un ceppo di lievito secco da birra belga che possa fare le veci dei cugini liquidi (come il Trappist High Gravity per esempio), per produrre ottime birre belghe con più facilità; confezioni di lieviti liquidi che durino molto di più (la White Labs con il suo PurePitch® ha già fatto un po’ di strada in questa direzione). Una cosa però è sicura: le novità continuano ad arrivare sul mercato a ritmi vertiginosi, la competizione tra i vari produttori è quanto mai accesa. Come homebrewer non posso che esserne entusiasta.