Qualche giorno fa leggevo un post molto interessante su La Cantina dei Cru, blog che parla spesso di vino, ma che non disdegna ogni tanto qualche considerazione birraria. L’articolo in questione riprendeva l’allarme lanciato da altri siti web circa l’esposizione dell’Italia e degli altri paesi appartenenti all’area mediterranea nei confronti di un’ondata neoprobizionista proveniente direttamente dall’Europa settentrionale.
Questo fenomeno nascerebbe dal diverso modo di rapportarsi con l’alcol: lì è da sempre vissuto come un vizio, come un male da combattere; qui come un elemento indissolubile della nostra cultura e delle nostre abitudini alimentari. Lì si beve per sballare e ci si abbandona al binge drinking, qui normalmente per piacere e per curiosità .
Il nostro paese sembrerebbe in balìa di questa corrente reazionaria, completamente indifeso contro le pressioni culturali provenienti dall’estero. Pur essendo un discorso che nasce nei riguardi del vino, non è difficile da estendere agli alcolici in generale. C’è tuttavia un elemento che non mi trova d’accordo con questa analisi: limitare l’analisi del problema a un fenomeno “regionale”, ponendo cioè l’Italia e la cultura mediterranea in una posizione centrale.
Il neoprobizionismo occulto sempre più presente nell’opinione pubblica europea, se esiste, non comporta conseguenze nefaste solo per noi. Un’istituzione storica come quella del pub sta in Inghilterra vivendo una delle sue peggiori crisi soprattutto per una trasformazione culturale, che ha portato i giovani a preferire quasi esclusivamente gli alcol-pops e il binge drinking alle tradizionali ale. Insomma, è riduttivo fare di tutta la questione un problema solo italiano, come se il vino rappresentasse per noi ciò che la birra non rappresenta per gli inglesi. Basta leggere ad esempio il blog di Pete Brown – che ha dedicato diversi post all’argomento – per capire che il problema è sentito con la stessa sensibilità anche altrove.
E’ giusto definirlo neocolonialismo culturale. E’ giusto chiamare in causa la storia di un popolo di fronte a certi fenomeni. Ma non è il caso di farlo solo per preservare il proprio orticello. Se il bere è cultura, bisogna analizzarlo in tutti i suoi aspetti, senza cadere nell’arido snobismo.
Chiudo con un passaggio ripreso dal post del blog che ho citato in apertura, che fortunatamente non si limita a una visione monodimensionale:
Stiamo criminalizzando l’alcol, che viene vissuto come vizio, quando invece è cultura. Noi non beviamo nel weekend per prendere una sonora sbornia, beviamo tutti i giorni perché sappiamo apprezzare il valore di un vino, di una birra, di un distillato.
La mia esperienza personale mi dice che il binge drinking è diffusissimo anche qui. Basta farsi un giro in una grande città dopo una certa ora per vedere ragazzini anche dai 15 anni in su barcollare per strada. L’alcol oltre un certo limite ubriaca, su questo non c’è da discutere. Se ci fossero dei maggiori controlli per cui le persone sarebbero obbligate a bere di meno, non ne gioverebbe però la qualità ? Il binge drinking secondo me favorisce qualsiasi tipo di alcolico: basta che costi poco. Se uno fosse obbligato a bere solo una birra una sera, non sarebbe più attento a sceglierne una buona? Volevo solo apportare questi due spunti di riflessione. Un saluto!
Invece la mia esperienza mi dice che la differenza con altri paesi è marcatissima. Mi è capitato qualche volta di partecipare a feste Erasmus dove americani o inglesi si devastavano letteralmente di superalcolici: quelli sono professionisti di binge drinking, altro che i nostri 15enni 😉 .
Non vorrei alcun controllo che regolasse la quantità di bicchieri che posso bere, ovviamente finché la mia libertà non lede la salute e la vita altrui. Se uno potesse bere solo una birra che farebbe? Si prenderebbe una bella Peroni che costa un terzo delle birre “buone”. Morale della favola: penso sia un problema esclusivamente culturale, non ci sono soluzioni diverse.