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Mild, Keller, Bitter e Bock: i birrifici italiani ora guardano alle tradizioni europee

A maggio del 2019 intervistammo Marco Valeriani, proprio qualche mese prima del suo debutto col il marchio Alder. Quando gli chiedemmo con quali birre sarebbe partito, lasciò intendere che avrebbe dato spazio a molte Lager e a stili della tradizione belga, oltre alle classiche APA e American IPA. Non era una risposta scontata, perché Marco aveva ottenuto l’attenzione del movimento italiano grazie a una Double IPA (La Verguenza di Menaresta), prima di raggiungere vette straordinarie come birraio di Hammer con le sue luppolate, forse le prime in Italia ad avvicinarsi realmente al livello di quelle americane. Sebbene già ai tempi di Hammer avesse cominciato a muoversi nel mondo della bassa fermentazione, in pochi avrebbero immaginato che questa “deformazione” sarebbe diventata centrale nella gamma di Alder. Oggi Valeriani produce ancora molte luppolate, ma è evidente la sua voglia di riproporre stili molto tradizionali, con una certa predilezione per la Germania (Pils, Bock, Landbier, Schwarz, ecc.). Questa sua predisposizione non è un caso unico in Italia, bensì uno dei tanti esempi della nuova filosofia produttiva che si sta diffondendo tra i nostri birrai, fortemente orientata a riprodurre stili “popolari” europei.

Per tanti anni la scena birraria italiana è stata quella del “famolo strano”. L’assenza di una vera e propria tradizione brassicola ha permesso ai birrai di muoversi in sala cotte con estrema libertà, senza sentire il peso di precisi dettami su come fare la birra. È stato un aspetto importante, con ripercussioni sia positive, sia negative. Da un lato l’assenza di vincoli ha reso la birra artigianale molto interessante per il grande pubblico, incuriosito da prodotti lontani dal concetto classico di birra. La possibilità di usare ingredienti locali ha favorito il legame con altri settori in ascesa, in particolare quelli del chilometro zero e dell’enogastronomia di qualità. Di contro questa grande libertà ha favorito lo sviluppo di un’idea spesso sbagliata di creatività, concretizzatasi in birre senza capo né coda, dove tutto era concesso in nome dell’inossidabile inventiva italiana. Era comune imbattersi in ricette basate sull’aggiunta di ingredienti improbabili, speziature mal gestite e controsensi stilistici.

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Il periodo più acuto del “famolo strano” durò alcuni anni, poi il movimento rientrò entro confini più ragionevoli. Tuttavia, anche quando quella concezione di birra artigianale scemò, rimase sovente l’idea che qualsiasi ricetta necessitasse di un certo grado di personalizzazione. Chi produceva una Bitter magari partiva pure dal tradizionale modello britannico, ma poi introduceva una sfumatura moderna con il ricorso a uno o due luppoli americani. Chi aveva intenzione di creare una classica Doppelbock, alla fine sentiva l’esigenza di tradire il Reinheitsgebot e aggiungere miele o frutta per incuriosire il mercato. Probabilmente questa tendenza era da una parte giustificata dall’idea che gli stili “antichi” funzionassero poco a livello commerciale, dall’altra che senza un tocco personale il prodotto fosse poco riconoscibile dai consumatori.

Da circa un paio d’anni la situazione è cambiata radicalmente. Ciò che stiamo vivendo in Italia al momento è una sorta di ritorno alle origini, un nuovo interesse per gli stili tradizionali del continente. Sia chiaro, di per sé questo elemento non è mai mancato in Italia, ma ora viene applicato con una dedizione e un’adesione stilistica che non ha precedenti nel nostro paese. Dopo anni vissuti circondati da luppolate di tutti i tipi, ora l’offerta dei birrifici italiani è molto più varia e abbraccia, con una forza mai sperimentata prima, stili che in passato era quasi impossibile trovare sul mercato. Il primo segnale è arrivato con le basse fermentazioni di stampo tedesco, sulle quali i birrifici italiani si sono lanciati forti della crescente fama ottenuta sia dalle birre della Franconia, sia dalle cosiddette Italian Pils. Poi il fenomeno si è allargato alle tipologie quotidiane della cultura britannica, come Bitter, Porter e persino Mild, senza tralasciare un rinnovato interesse per gli stili belgi di base.

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Si tratta di un fenomeno sicuramente interessante e che non può non entusiasmare gli amanti delle tradizioni brassicole europee. Sembra un atto una vera e propria rivoluzione nell’offerta di pub e birrifici, frutto sicuramente di una moda del momento, ma anche probabilmente della ricerca di tipologie più “sessionabili” o comunque adatte a una bevuta non per forza polarizzata (ad esempio sull’amaro, sull’acido o sulla potenza aromatica). A conferma di questa impressione c’è da rilevare che le tipologie classiche non vengono indagate solo da birrifici consolidati, magari tramite one shot o collaborazioni, ma anche da realtà giovanissime, che hanno deciso di puntare forte su stili apparentemente poco redditizi. Gli esempi sono diversi: Torre Mozza (aperto nel 2017) ha in gamma Mild, Keller, Old Ale, Belgian Blond, Rauchmarzen, British Strong Ale e Golden Ale, oltre ad alcune luppolate; Malcantone (2020) vanta due Pils, due Bock, una Alt, una Schwarz, una Vienna, una Helles e giusto un paio di IPA; Milvus (2020) è partito con Blanche, British Strong Ale, Golden Ale e Table Beer di stampo belga, oltre a un’American Brown Ale; Shire Brewing (2021), infine, si è presentato sul mercato con una Mild e una Best Bitter. Ovviamente però i casi analoghi non mancano.

Lo stesso discorso vale per le birre inserite recentemente in gamma da birrifici già operanti da anni sul mercato. Se seguite regolarmente le panoramiche di Cronache di Birra sulle nuove birre italiane, avrete notato come siano aumentate considerevolmente certe tipologie classiche. Nelle ultime settimane abbiamo citato la Bock di Alder, la Zwickel di Porta Bruciata, la Bitter di Altotevere, la Schwarz di Mukkeller, la Golden Ale di Muttnik, la Bock di Hopskin, la Bitter di War e la Keller di Bonavena, le “britanniche” di Eastside. Non che in passato non venissero prodotte certe tipologie – beh alcune in effetti non erano proprio prese in considerazione dai birrai – ma ciò che colpisce ora è la voglia di seguire in maniera quasi pedissequa il modello di riferimento: i luppoli difficilmente prescindono da quelli continentali, i malti spesso provengono dalla nazione di riferimento per lo stile e persino il lievito è talvolta cercato presso fornitori locali. Anche per le tecniche di produzione si guarda alla tradizione, come nel caso dell’ammostamento per decozione.

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Sia chiaro, questo approccio non sta stravolgendo il mercato. Le luppolate sono ancora le birre più vendute e rimane stabile la presenza di creazioni acide, in tutte le loro incarnazioni. C’è però una maggiore eterogeneità rispetto al passato, con la possibilità di bere stili che fino a qualche anno fa era quasi impensabile trovare alle spine dei pub. Il cambio di paradigma è in parte dovuto alla necessità di cercare uno spazio diverso, considerando il livello raggiunto ormai dalla birra artigianale italiana su alcune specialità. Più che rincorrere i mostri sacri del luppolo, magari con scarsi risultati, un birrificio ora preferisce concentrarsi su ex-nicchie produttive destinate a crescere. Di per sé non è una novità, ma ciò che suona piacevolmente inedito è questo approccio molto fedele allo stile di origine, non certo tipico per i birrai italiani.

I risultati sembrano dare loro ragione: rispetto alle birre della nostra “prima ondata luppolata”, spesso lontane da livelli qualitativi soddisfacenti, qui l’impressione è che l’asticella sia stata subito posizionata molto in alto. Merito forse dell’approccio analitico allo stile che hanno assunto molti birrai per eccellere nel segmento IPA, o anche della maturità raggiunta dalla comunità degli homebrewer. Quale sia la ragione, ciò che stiamo vivendo è un fenomeno a tratti entusiasmante, che speriamo possa caratterizzare negli anni a venire la birra artigianale italiana.

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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3 Commenti

  1. […] La riscoperta italiana per gli stili quotidiani sta passando anche attraverso le cosiddette Table Beer, birre “da tavola” tradizionalmente associate alla cultura brassicola del Belgio. Ed è proprio a questa tipologia che si ispira la nuova Tevla (4%) di Ca’ del Brado, che rappresenta una tappa storica per la cantina brassicola emiliana. È infatti la prima birra “pulita” dell’azienda dopo cinque anni di attività, fermentata in acciaio con un lievito autoctono battezzato Bunny e isolato in loco grazie alla collaborazione con l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Il grist è costituita da malti Pale e Pils e da una frazione di frumento non maltato, varietà Ardito della filiera Grani Alti. Dorata e molto leggera, unisce rusticità e accenni floreali e di panificato a una netta secchezza e a un amaro elegante, prima di riproporre sfumature erbacee e di cereali. La Tevla non è però l’unica novità di Ca’ del Brado, perché giovedì 23 giugno sarà presentata la Cuvée de Kiwi (7,8%), una Sour Ale realizzata con la macerazione di kiwi locali (varietà Hayward). La base è un blend ottenuto selezionato alcune specifiche botti precedentemente affinate con Brettanomyces bruxellensis, oltre alla microflora naturalmente presente nei tini. […]

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