Da quando è cominciata l’emergenza Coronavirus abbiamo cercato di aggiornarvi sullo stato del settore. Uno stato assai preoccupante perché, come ripetuto in più occasioni, il comparto è praticamente fermo. Nel momento in cui è stata decretata la chiusura di pub, locali e ristoranti è venuto meno l’unico canale a disposizione dei microbirrifici per vendere la loro birra. A parte casi eccezionali, l’attivazione dei servizi di delivery è una soluzione d’emergenza per limitare l’emorragia, ma non cambia il succo della questione: il mondo della birra artigianale italiana è praticamente inattivo. Ma il discorso vale per tutti i produttori? In realtà no. In realtà ci sono alcuni birrifici che stanno continuando a lavorare perché sfruttano canali di vendita differenti, in particolare la grande distribuzione. Sono casi atipici e rari, ma che rappresentano un’eccezione che vale la pena analizzare, soprattutto in un momento del genere. E che suggeriscono alcune riflessioni sul presente e il futuro del settore in Italia.
L’emergenza in corso ha mostrato la fragilità del comparto come mai era successo prima. È bastato che un canale distributivo – per quanto importante – si bloccasse per mandare in crisi il 95% dei microbirrifici italiani e avanzare seri dubbi sulle loro future capacità di ripresa. Sin da quando esiste la birra artigianale in Italia, cioè da metà degli anni ’90, ci ripetiamo che il settore è fragile, piccolo, eccessivamente esposto alle perturbazioni del mercato. È assolutamente vero e i motivi sono diversi: le aziende sono in media molto giovani, la birra non è una bevanda radicata tra la popolazione, il segmento non esisteva prima di 20 anni fa e in Italia fare impresa è decisamente arduo. Ma c’è anche un’altra ragione, che sta apparendo evidente in questi difficili giorni: non è mai stato sviluppata in maniera organica una strategia distributiva alternativa a quella esistente. In pratica abbiamo una marea di piccoli birrifici che hanno come unici interlocutori altrettanti piccoli pub e locali, spesso raggiunti tramite piccoli distributori. Un panorama estremamente parcellizzato, che amplifica le fragilità di tutto il settore.
Quello della grande distribuzione è un tema ricorrente da quando in Italia esiste la birra artigianale. Ed è sempre stato affrontato con una pesantissima tara ideologica, che ha influenzato analisi e considerazioni. Al di là di tutti i limiti insiti nella gdo, esiste nel nostro ambiente un forte freno culturale: domina infatti l’idea che la birra artigianale, essendo un prodotto “superiore”, non possa occupare gli spazi tradizionalmente destinati alla birra industriale. Per le sue stesse caratteristiche, l’ambiente ha da subito sviluppato idiosincrasie rispetto ai canali mainstream, di cui i supermercati rappresentano l’incarnazione per eccellenza. Così oggi ci troviamo nella paradossale situazione per cui ci esaltiamo nel trovare i supermarket americani pieni di birre craft locali, ma poi dileggiamo un birrificio italiano appena stringe un accordo con la grande distribuzione.
Come accennato, la gdo è un canale che presenta moltissimi problemi, sostanzialmente di ordine logistico, comunicativo e gestionale. Oltre al più importante, quello relativo alla sostenibilità economica per il singolo birrificio. Come scrissi in un pezzo di settembre 2019, i dati di Unionbirrai relativi alla grande distribuzione sollevano molti dubbi al riguardo. Le birre crafty dell’industria hanno infatti trovato una loro collocazione nei supermercati italiani, crescendo del 4000% in quattro anni (non è un errore di battitura). Tuttavia ci sono riuscite finendo col dimezzare i loro prezzi e passando da una media di 6,5 € a 3,5 € al litro: una riduzione oggettivamente impossibile da praticare per un piccolo birrificio artigianale. Quindi probabilmente a tali condizioni la grande distribuzione non è una soluzione percorribile. Il punto però non è se è percorribile allo stato attuale delle cose, ma se è mai stato fatto abbastanza affinché lo diventasse. Se la gdo è stata valutata come un canale percorribile (e fondamentale) su cui lavorare o se è stata accantonata frettolosamente perché non adatta alla birra artigianale da un punto di vista ideologico.
La mia sensazione è che fino a oggi il secondo aspetto abbia pesato tantissimo. Non che non siano stati fatti tentativi in tal senso, ma probabilmente senza la decisione di un’azione collettiva e organica. E volendo prescindere dalla grande distribuzione, in generale è evidente che in quasi 25 anni non è stata trovata una strategia distributiva diversa da quella attuale. È mancata la visione ai birrifici, ma l’approccio un po’ snob di tutto l’ambiente non ha aiutato. La grande distribuzione è stata vista sempre come un nemico, come indice di bassa qualità. Mai come un’opportunità, mai come una possibilità alternativa a cui rivolgersi per trovare risorse aggiuntive o addirittura per sviluppare il proprio business. Lavorando per cercare di spiegare le esigenze della birra artigianale, come è stato fatto per pub, locali e qualche ristorante – e anche in termini di ristorazione di cose da scrivere ce ne sarebbero parecchie.
Oggi quei pochi birrifici che hanno uno sbocco nella gdo continuano a lavorare. Non a pieno regime, naturalmente, ma con un po’ di tranquillità in più rispetto al resto del settore. Ripeto, non so se la grande distribuzione sarà mai un canale realmente percorribile per la birra artigianale, almeno a queste condizioni. Ma il comparto appare troppo fragile per come è strutturato attualmente. Quindi spero che quando tutto questo sarà finito si potrà analizzare ogni soluzione con razionalità e piglio imprenditoriale, valutando correttamente i limiti e soprattutto i modi per superarli. Senza inutili freni culturali, senza dannose pseudo-ideologie.
Secondo te quale potrebbe essere stato il motivo alla nascita del movimento a creare questa contrapposizione? Solo il prezzo? Perché Baladin riesce a vendere il suo prodotto a prezzi che mi sembra altri concorrenti non si possano permettere? In termini di prezzi di vendita credo che esca con dei listini che sono molto più alti degli altri artigianali che vendono in gdo. Almeno a vedere dai prezzi di uscita sugli scaffali.
E un’altra domanda. Tutti i beershop che vendono prodotti che troverebbero anche al supermercato non rischierebbero di chiudere vista la differenza di ricarico?
Ciao Samuele, provo a rispondere alle tue domande.
La contrapposizione con la GDO è comprensibile a livello “epidermico”, diciamo così. Sin dalla sua nascita la birra artigianale si è contrapposta a quella industriale per motivi intrinseci, quindi è chiaro che abbia preso le distanze da tutto ciò che gira intorno a quest’ultima. Il problema però è confondere il canale di vendita con il prodotto: un errore suffragato dai limiti della GDO, ma che bisognerebbe provare a superare. Poi mettiamoci che molti operatori e appassionati gongolano nel sentirsi diversi dalla massa (per la natura stessa della birra artigianale) e il resto è fatto.
Sui prezzi considera che entrano in gioco molti fattori che ne giustificano il valore agli occhi dei consumatori. Tra questi gioca un ruolo fondamentale il posizionamento del prodotto e il modo in cui viene comunicato. Baladin è stato il primo birrificio a percorrere in tal senso una strada innovativa e giustamente raccoglie i frutti. Nello specifico poi non penso che pratichi prezzi molto più alti dei concorrenti, anzi.
Infine quando si parla di prezzi ci si dimentica che oltre al prodotto in sé viene venduta un’esperienza. Trovo assurdo che molti dicano che la GDO non è percorribile perché si creerebbe una discrepanza con i prezzi al pub, magari della stessa birra. Ma al pub non pago solo la birra: pago il servizio, l’atmosfera, la possibilità di bere cose particolari e tanto altro. Così al beershop pago non solo la birra, ma la possibilità di scegliere da un’ampia selezione, di affidarmi ai consigli del gestore, ecc. Allo stesso modo sono disposto a pagare un po’ di più per acquistare vino in enoteca piuttosto che al supermercato.
Bellissimo pezzo Andrea, tutto ciò che dici è pienamente condivisibile. Se io fossi un birrificio che ha accordi con la grande distribuzione avrei solo una paura ovvero che mi vengano imposti dei vincoli su quello che posso produrre. Cioè, siamo sicuri che il sig. Grandemagazzino non avrà nulla da ridire quando gli presenterò la mia sour black ipa amaricata con stelle alpine? Oppure, volendo vedere la cosa dal lato opposto: chi lo fa fare a me, piccolo birrificio distribuito da Grandemagazzino di lanciarmi in produzioni “esotiche” sapendo che poi vengono presentate a un pubblico e in un contesto che rischia di penalizzarle? Non trovi che subdolamente, più o meno volontariamente ci possa essere la tendenza a conformarsi ai gusti piatti del mercato perdendo in po’ di creatività?
Se come birrificio vuoi andare in GDO con una Sour Black IPA con stelle alpine sei un folle 🙂 E’ chiaro che devi diversificare la tua offerta in base al pubblico, ma è ciò che già fa la stragrande maggioranza dei birrifici artigianali
Ok, infatti è il grande problema che si pone anche con alcuni miei conoscenti. Io credo si debba entrare nella gdo per poter avere i volumi necessari per sostenere i grandi birrifici. Non necessariamente questi ultimi devono essere coloro che vendono alla gdo, ma una base di litri più ampia farebbe, forse, più bene che male al settore…
Il problema base è che il birrificio artigianale ha voluto diversificarsi non imponendosi sul mercato come prodotto migliore ma ha voluto diversificarsi ideologicamente, no GDO, no PASTORIZZAZIONE, no FILTRAZIONE etc..
Tutti punti che stanno saltando, perché una ottima birra artigianale può essere anche FILTRATA, PASTORIZZATA e venduta alla GDO.
Il fatto che se non si ha conoscenza del processo produttivo (ricordo che tanti nascono come home brewing) è meglio dire “io sono diverso” e non affrontare certi argomenti.
esatto