Come avrete avuto modo di leggere recentemente, negli scorsi giorni sono stati svelati i risultati di due importanti concorsi internazionali: European Beer Star e Brussels Beer Challenge. Oltre a rivestire un ruolo molto importante nel settore, queste due iniziative condividono almeno altri due aspetti: sono aperte a birrifici di tutto il mondo e non escludono la partecipazione di birre industriali. Proprio l’alto numero di medaglie assegnate ai prodotti delle multinazionali è il tema al centro delle polemiche che stanno ancora tenendo banco nell’ambiente. Non che sia una novità: in Italia a ogni attività “agonistica” seguono dispute e provocazioni poco costruttive e spesso non degne di attenzione, ma questa volta è diverso. Questa volta non parliamo di quanto siano corruttibili giudici che valutano birre alla cieca (sigh!) o del fatto che a vincere siano sempre gli “amici degli amici”, ma della ricorrente presenza di birre industriali tra i premi previsti dai due concorsi. Discorso che può essere esteso a tanti altri contest e che comincia a rappresentare un serio problema.
A ben vedere è sempre accaduto di imbattersi in una birra industriale quando di spulciano i risultati di concorsi di questo tipo. È una singolarità che può verificarsi per i motivi che illustreremo più avanti e che può sconcertare solo coloro che non ne conoscono a fondo le dinamiche. Finché simili fattispecie rappresentano delle eccezioni, tutto può essere considerato nella norma. Se però, come sta ormai accadendo costantemente, la loro presenza diventa la regola, allora significa che qualcosa non sta più funzionando come dovrebbe. È normale che un prodotto pensato per occupare gli scaffali dei supermercati di tutto il mondo sia considerato migliore di una piccola eccellenza artigianale? È giusto che un marchio controllato da una multinazionale giochi con le stesse regole di una piccola azienda a conduzione familiare?
Sono domande legittime, che è inevitabile porsi in simili circostanze e che derivano tutte dal quesito principale: perché le birre industriali ottengono medaglie e riconoscimenti in concorsi internazionali? Trovare una risposta non è semplicissimo, ma proviamo a farlo nelle prossime righe proponendo anche qualche soluzione per correggere il tiro. È infatti fondamentale che chi organizza questi concorsi prenda coscienza che i meccanismi utilizzati fino a oggi non sono più validi e rischiano di risultare controproducenti. Così nonostante tali iniziative servano (in teoria) per incoronare le migliori birre in assoluto, è sempre più frequente incontrare prodotti industriali mainstream tra quelli premiati. Prodotti che hanno come priorità il contenimento dei costi di produzione e il mercato globale, non certo la ricerca della qualità, ma che nonostante tutto raggiungono risultati importanti. Per spiegare questo apparente paradosso occorre tenere in considerazione diversi fattori.
Alcune categorie favoriscono la vittoria delle birre industriali
Il primo riguarda le categorie previste dai concorsi, che vengono decise a priori dagli organizzatori. Il birrificio decide di iscrivere ogni birra nella categoria che ritiene più adatta, quindi è molto importante capire com’è strutturato il concorso da questo punto di vista. Alcune categorie, infatti, rappresentano tipologie di prodotti quasi totalmente sconosciute ai birrifici artigianali: pensiamo alle birre analcoliche o, senza tirare in ballo certe aberrazioni della natura 🙂 , alle varie International Lager. Quest’ultime sono definite dal BJCP in una maniera che non lascia adito a dubbi:
Le International Lager sono premium lager per il mercato di massa prodotte nella maggior parte dei paesi del mondo. Che siano realizzate secondo il gusto americano o europeo, tendono sempre ad avere un carattere piuttosto uniforme e a essere pesantemente orientate al mercato.
Quindi è normale che in simili circostanze siano i prodotti industriali a battagliare per il podio. Il punto semmai è l’opportunità di prevedere certe famiglie di birre, valutazione che ricade ovviamente su chi organizza il concorso.
Il peso della giuria
Purtroppo però sempre più spesso i marchi dell’industria trovano piazzamenti importanti anche in categorie “normali”. Qui allora entra il gioco il secondo fattore, rappresentato dalla giuria. È importante capire che in fase di valutazione di una birra i parametri da tenere in considerazione sono diversi e che fondamentale è l’aderenza ai criteri che definiscono una categoria. La fedeltà al modello di riferimento diventa spesso più importante di altre caratteristiche: una birra con “sfumature creative” rischia di restare penalizzata sebbene sia buonissima in senso generale. È un indirizzo che può piacere o meno, ma che ha il suo peso nel premiare i prodotti “educati” dell’industria, soprattutto in alcune categorie a bassa fermentazione.
Sicuramente occorre considerare anche la competenza dei giudici, che può presentare enormi differenze in termini di preparazione, attitudine ed esperienza. Molti concorsi hanno raggiunto l’eccellenza dal punto di vista organizzativo, ma continuano ad affidarsi all’impegno volontario delle persone chiamate a valutare le birre. Infatti ai giudici viene garantito vitto e alloggio e (raramente) viaggio di andata e ritorno, ma il loro lavoro non è mai retribuito. È un paradosso: questi concorsi richiedono uno sforzo organizzativo di decine di persone, godono di un’ampia risonanza sui mezzi di comunicazione più o meno specializzati e l’unico aspetto che omettono da un punto di vista economico è quello più delicato: la valutazione delle birre. Un compenso non è automaticamente garanzia di professionalità, ma permetterebbe di affidarsi alle migliori figure del settore e rappresenterebbe un segnale importante a livello simbolico.
Iscrizioni aperte a marchi industriali
Il terzo fattore è senza dubbio il più importante: le multinazionali ottengono medaglie nei concorsi birrari perché è permesso loro di partecipare. Sembra una banalità, ma è probabilmente il punto nevralgico di tutto il discorso. Si potrebbe obiettare che se i prodotti industriali sono così pessimi, non c’è alcun pericolo che vadano a medaglia. Ma la realtà è ben diversa per i motivi che abbiamo ampiamente spiegato. Inoltre è evidente che negli ultimi anni l’industria ha aumentano considerevolmente la sua presenza nei concorsi internazionali, sia con marchi propri, sia con birrifici ex artigianali che ora controllano in maniera totale. Iscrivere birre in questi contest rappresenta una spesa non indifferente per un piccolo birrificio, ma è praticamente irrilevante per un gigante del settore: una multinazionale può invadere un concorso con decine di prodotti a costo zero, ottenendo in cambio un grande ritorno di visibilità in caso di vittoria. Esattamente come accade in altri ambiti, si crea uno squilibrio di risorse tra industria e piccoli birrifici.
Per fortuna esistono delle eccezioni. Birra dell’anno di Unionbirrai da sempre accetta solo birre craft e lo stesso vale (se non erro) per il France Bière Challenge. Non è necessario che esista una legge sulla birra artigianale per imporre questo vincolo: ogni concorso può tranquillamente stabilire i suoi limiti per la partecipazione, definiti in termini di produzione annua, tecnologie impiegate, indipendenza aziendale e altro ancora. Se non si vuole rinunciare alla redditizia partecipazione dell’industria, al limite si possono prevedere premi speciali per i suoi prodotti o categorie specifiche. Però è fondamentale evitare di prestare il fianco a chi vuole confondere le acque: non può passare il messaggio che una birra prodotta in milioni di ettolitri l’anno, realizzata con ingredienti di seconda scelta e venduta a prezzi da discount sia migliore di quella di un piccolo produttore indipendente. Non perché la birra artigianale deve essere buona a priori, sia chiaro, ma perché esistono delle falle nel meccanismo che producono risultati anomali. Finché rimangono delle eccezioni isolate è un conto, ma quando diventano la regola per i motivi che abbiamo espresso, allora il giocattolo rischia di rompersi.
Conclusioni
Ecco l’impressione è proprio questa: che il giocattolo stia cominciando a scricchiolare e che le dinamiche sui cui si sono sviluppati molti concorsi internazionali non siano più valide. La mission di molti contest è di promuovere la birra di qualità, quindi gli organizzatori hanno la responsabilità di compiere delle scelte finalizzate a perseguire questo obiettivo. Il moltiplicarsi di medaglie assegnate ai prodotti dell’industria è un brutto segnale per tutto il comparto artigianale, ma soprattutto è un fenomeno che intacca l’autorevolezza stessa del concorso. L’industria sarà sempre più interessata a partecipare a simili iniziative, mentre sperare in un innalzamento della qualità media dei giudici in tempi brevi è impossibile. L’unica soluzione è dunque evitare di mischiare la birra craft con quella delle multinazionali, imponendo ragionevolmente dei limiti alla partecipazione. È una soluzione sulla quale gli organizzatori dovrebbero riflettere seriamente, perché la situazione sta peggiorando di anno in anno.
Di contro i birrifici dovrebbero valutare bene a quali concorsi partecipare. Molti produttori si iscrivono ai concorsi senza un’attenta valutazione degli stessi, convinti che i vantaggi ottenuti con un eventuale piazzamento valgano sempre l’investimento. Se ciò è sbagliato per le iniziative campate per aria – e purtroppo sono molte – ora lo è anche per quelle che hanno sempre goduto di un certo prestigio nell’ambiente. Siamo sicuri che sia proprio vantaggioso ottenere una medaglia d’argento in una categoria, se poi ad aggiudicarsi l’oro (o anche il bronzo) è un prodotto mainstream dell’industria? Il consumatore potrebbe pensare: “Perché dovrei comprare quella birra artigianale, quando a un terzo del prezzo trovo questa industriale considerata anche più buona?”. Quindi l’auspicio è che gli stessi birrifici scelgano attentamente a quali concorsi partecipare, considerando non solo chi li organizza e quali sono i giudici chiamati a valutare le birre, ma se sono ammessi anche i prodotti delle multinazionali oppure no.
Insomma è forse arrivato il momento di ripensare i concorsi birrari da molti punti di vista.
[…] Come accennato però quanto accaduto quest’anno non è certo un’eccezione. Nel 2018 furono premiate solo due birre toscane (oro per La Mancina di Birrificio del Forte e bronzo per la Bruton del birrificio omonimo), mentre nel 2016 addirittura non arrivarono riconoscimenti. Nel 2014 ci fu la migliore prestazione italiana alla World Beer Cup, con quattro medaglie ma nessun oro. In quell’edizione uno degli argenti fu assegnato alla Via Emilia del Birrificio del Ducato (all’epoca ancora artigianale), che riuscì nell’impresa di confermare lo stesso risultato per la terza volta consecutiva (la Pils emiliana fu premiata con il secondo posto di categoria anche nel 2012 e nel 2010). Nello stesso 2010 la Vudù del Birrificio Italiano riuscì a conquistare un oro tra le Dunkelweizen, completando un medagliere tricolore composto da sole due medaglie. Tornando indietro nel tempo si trovano solo birre industriali, con Heineken che riuscì a piazzare qualche versione di Birra Moretti fino al 2004 – sì può succedere che in questi concorsi qualche medaglia sia assegnata a prodotti delle multinazionali. […]
[…] nella categoria delle Vienna Lager: che una birra industriale possa vincere una categoria è assolutamente plausibile in determinate circostanze, ma noi preferiamo sempre separare le due realtà (e occuparci preferibilmente delle prime). […]