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Esiste una definizione di terroir nella birra?

Non capita di rado di ascoltare il termine “terroir” associato al mondo della birra. Ci sono birrifici che ostentano questa espressione come un loro vezzo, se non addirittura come l’architrave della propria filosofia produttiva, intendendo la predisposizione a produrre birre associate alla rispettiva zona di origine. Ci sono workshop a tema che indagano il terroir di alcune produzioni artigianali, concentrandosi sulle regioni di provenienza e sugli ingredienti utilizzati. C’è poi il fenomeno – giovanissimo in Italia – della coltivazione del luppolo, che spesso si prefigge come obiettivo ultimo (e aggiungerei utopistico) la creazione di una varietà autoctona in grado di esprimere un “terroir birrario”. Insomma questa parola è spesso utilizzata a sproposito ed è giusto chiedersi quanto abbia senso ricorrervi per la nostra bevanda. Esiste un terroir nella birra? Oppure è una forzatura ampiamente evitabile?

Il termine terroir deriva dal mondo del vino e il tentativo di accomunarlo alla birra è probabilmente figlio di un certo senso di soggezione nei suoi confronti. Spesso si traduce, in maniera semplicistica, con la capacità di ritrovare nel prodotto finale l’espressione della zona di origine, in termini di vitigni specifici, condizioni climatiche, caratteristiche del terreno e altro ancora. Un concetto che nella birra perde gran parte del suo senso, perché (quasi) ogni ricetta è replicabile a qualsiasi latitudine: è usanza diffusa acquistare gli ingredienti dai fornitori migliori, anche stranieri, e quindi brassare la propria interpretazione di Pils, India Pale Ale, Stout e via dicendo. Ci sono birre italiane prodotte con lievito belga, malti tedeschi e luppoli americani e neozelandesi, ma il concetto è applicabile a tutti i birrifici del mondo.

Se restiamo a questa interpretazione restrittiva di terroir – e a ben vedere scorretta, ma su questo torneremo – ci si rende conto di quanto sia poco applicabile alla birra. In tempi recenti il luppolo si è elevato a “vettore” di questo concetto, essendo diventando l’ingrediente capace di veicolare tanti aromi diversi. L’ascesa delle IPA moderne ha mostrato quale capacità caratterizzante possieda questa materia prima a livello aromatico, tanto da associare alcune varietà a descrittori ben precisi e mostrando il loro fondamentale impatto a livello gustativo. Il punto è che il luppolo non rappresenta per la birra ciò che l’uva rappresenta per il vino: entrano in gioco tantissimi parametri provenienti da altri ingredienti, senza dimenticare che le ricette normalmente prevedono un mix di varietà diverse, impiegate in diverse fasi della produzione.

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Esclusa l’acqua, la materia prima utilizzata in maggiore quantità nella birra è il malto d’orzo, o più in generale i grani. La loro produzione – che si tratti di semplice coltivazione o di maltazione – è però un’attività quasi sempre estranea al birrificio, motivo per cui è praticamente impossibile individuare in questo ingrediente una traccia del legame col territorio. Un discorso diverso riguarda i grani speciali locali, che talvolta vengono utilizzati insieme al malto d’orzo: in quei casi torna in gioco il concetto di terroir, ma ancora una volta in maniera superficiale e decisamente forzata. È inutile soffermarsi sul lievito, ingrediente da laboratorio per eccellenza, nonostante l’interesse indotto ultimamente dalle New England IPA e dalle Kveik norvegesi. Probabilmente tra questi è l’acqua l’elemento più caratterizzante, come dimostrano esperimenti recenti e la storia birraria di alcune città (Plzen, Burton on Trent), tuttavia ormai molti produttori dispongono di sistemi a osmosi inversa che permettono di modificarne il profilo chimico. E comunque l’acqua può incidere sulla riuscita di una tipologia, ma non certo sulla fattibilità della stessa.

Nonostante i tentativi di adottare la parola terroir, sembra che questa mal si abbini alla nostra bevanda. Il discorso però cambia se consideriamo l’espressione nel suo significato più ampio e corretto, cioè non solo legato alla provenienza delle materie prime. Nella definizione di terroir entrano infatti in gioco non solo variabili riconducibili alla posizione geografica, alla denominazione, alla composizione del terreno e al clima, ma anche parametri di ordine antropico e storico: le modalità di cultura e le tecniche di produzione, se non addirittura gli aspetti di commercializzazione e di consumo di un determinato bene. Si capisce quindi che l’espressione va intesa in termini molto ampi, dove fondamentali sono anche gli usi e i costumi della comunità e il suo rapporto con il prodotto finale.

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Non è difficile associare questi concetti a quelli di “stile birrario”, che indica un modo per “differenziare e catalogare le birre in base a vari fattori, inclusi l’aspetto, l’aroma, gli ingredienti, le tecniche di produzione, la storia e le origini”. Non siamo molto distanti dal significato di terroir e non è un caso che su The Oxford Companion to Beer si parli di vino nei dettagli della voce “beer style”:

Da una sola parola – Pilsner – il birraio e il consumatore possono ottenere un gran numero di informazioni. Il mondo del vino, che è suddiviso in classificazioni, regioni, vitigni e tipologie, rimane un mistero per molte persone. Cosa significa la parola “Barolo” sull’etichetta di un vino? Barolo è ovviamente un tipo di vino, ma per comprenderne fino in fondo il significato dobbiamo sapere che è chiamato così dalla città di Barolo e che è prodotto in cinque comuni del Piemonte da uve Nebbiolo; non esiste l’uva “Barolo”. Al contrario, se sull’etichetta troviamo scritto “Barbera” dobbiamo sapere che Barbera è un tipo di uva, non un luogo, e che può essere prodotta ovunque. “Champagne” è un luogo e una tecnica di produzione: tutti gli Champagne hanno qualcosa in comune e questo restituisce l’idea dello stile.

A quanto pare, quindi, non abbiamo bisogno della parola terroir nel mondo della birra, perché la sua funzione è assolta totalmente dall’espressione “stile birrario” – e in maniera più precisa, se vogliamo. Con una differenza sostanziale: che, a esclusione del Lambic e al netto delle variazioni fisiologiche e delle denominazioni geografiche, uno stile è sempre replicabile in qualsiasi altra parte del mondo. Qualcuno potrebbe obiettare che è un limite della birra, io invece sono convinto che sia una sua ricchezza. Purché l'”omaggio” a un determinato stile sia compiuto nel rispetto delle sue caratteristiche fondamentali. Che non significa escludere qualsiasi tipo di innovazione, ma auspicare che ogni personalizzazione sia compiuta in maniera coerente e consistente.

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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