Negli ultimi anni il birrificio Moor è stato spesso indicato come uno dei pilastri della scena birraria inglese: un produttore capace di incarnare un’idea radicale e coerente di indipendenza, tanto sul piano produttivo quanto su quello culturale. Negli ultimi mesi però l’azienda è stata al centro di una vicenda assai controversa e che ora sembra arrivata alla sua conclusione: qualche ora fa Moor ha annunciato l’uscita dalla società di Justin Hawke, il celebre fondatore del birrificio che ne ha segnato l’ascesa e, di recente, la sua crisi. Una storia che solleva questioni che vanno oltre la birra e che coinvolgono il confine tra pubblico e privato, la sovrapposizione tra una persona e la sua azienda e l’immancabile potere dei social media, esteso qui al concetto di comunità.
Il californiano Justin Hawke è una delle figure più influenti nel panorama europeo della birra artigianale. Partito negli Stati Uniti come semplice homebrewer, ebbe una formazione brassicola molto variegata, grazie ai viaggi con il padre nel Regno Unito e alla sua permanenza a Berlino durante il servizio militare americano. Nel 2007 si trasferì nel Somerset per rilevare Moor Beer Company e, nonostante le difficoltà logistiche, cominciò rapidamente ad affermarsi sul mercato grazie a birre di grande livello qualitativo. Nel 2017 il birrificio si trasferì in un sobborgo di Bristol con taproom annessa, proseguendo nella crescita che ormai lo aveva imposto all’attenzione dei bevitori di mezza Europa.
I problemi per Moor sono cominciati la scorsa estate, quando Justin Hawke ha pubblicato un post pro-Israele sul suo profilo Facebook personale. Il pretesto era arrivato da quanto avvenuto qualche giorno nel festival musicale di Glastonbury, quando un gruppo punk-rap aveva inneggiato alla Palestina libera scagliandosi contro l’IDF (le forze armate israeliane). In quell’occasione Hawke aveva deciso di esprimere i suoi pensieri sul social network, utilizzando però toni piuttosto duri:
Grazie alle Forze di Difesa Israeliane e ai soldati di tutte le nazioni occidentali che difendono il nostro stile di vita e proteggono i privilegi di cui godiamo. L’ipocrisia di qualsiasi appassionato di musica o frequentatore di festival non cessa mai di lasciarmi perplesso.
Avreste dovuto essere lì il 7 ottobre (durante l’attacco di Hamas al Nova music festival ndr). O forse avremmo dovuto permettere ad Hamas di fare lo stesso a Glastonbury? Allora sì che avreste implorato l’IDF di salvarvi.
Se dichiarate di essere empatici e di credere al significato delle parole delle canzoni che ascoltate, allora dovreste abbandonare le vostre visioni ipocrite e antisemitiche del passato. L’alternativa è continuare a essere deboli e sfigati come siete tuttora.
Il messaggio di Hawke è stato percepito da molti come offensivo e inaccettabile e ha innescato una reazione immediata e durissima: accuse di sionismo, richieste di prese di distanza, boicottaggi annunciati da pub, festival e distributori. Nel giro di pochi giorni, il birrificio Moor si è ritrovato isolato, con una parte significativa del mercato locale che ha scelto di interrompere ogni rapporto commerciale. Per l’azienda la vicenda è diventata subito devastante, con effetti che dall’universo virtuale dei social si sono propagati in quello concreto e tangibilissimo del mondo reale.
Un terremoto che ha spinto il birrificio a prendere pubblicamente le distanze dalle parole del suo fondatore, utilizzando ancora una volta i social network. Per quanto rapida, la reazione di Moor non è stata in grado di calmare gli animi, né di riaccreditare l’immagine del birrificio, ormai compromessa, all’ambiente della birra artigianale. Il post di Justin Hawke ha fatto terra bruciata intorno alla sua azienda, tanto che nei mesi successivi la situazione non è migliorata, anzi. Da qui la scelta di prendere una decisione drastica, cioè allontanare Hawke in modo definitivo dalla società.
Il comunicato di Moor è assai deciso e associa in maniera piuttosto chiara le attuali difficoltà economiche alle responsabilità etiche del suo fondatore:
Oggi si apre un nuovo capitolo per Moor Beer. Justin Hawke è stato completamente rimosso dalla carica di azionista e amministratore dell’azienda. Non ha più alcun coinvolgimento con Moor Beer e non ha tratto alcun guadagno finanziario dalla sua partenza. […]
L’azienda è stata sull’orlo della bancarotta. La strada da percorrere è ancora incerta. Il nostro obiettivo immediato è semplice: proteggere il nostro team, supportare i nostri fornitori, onorare i nostri debiti e mantenere Moor attiva durante questo mese e durante il difficile inizio del 2026.
Mentre andiamo avanti, rispetteremo il Codice di Condotta consultabile pubblicamente. Tutti coloro che sono coinvolti in Moor Beer – dipendenti, amministratori e azionisti – saranno tenuti a rispettare questi standard. Non si tornerà ai comportamenti del passato.
Guardando al futuro, ci impegniamo non solo a salvaguardare il futuro di Moor, ma anche a ricostruirlo su fondamenta più solide: leadership etica, pratiche sostenibili e un approccio socialmente responsabile radicato nella cultura indipendente della birra di Bristol.
Ci auguriamo che coloro che hanno apprezzato e apprezzato le nostre birre in passato possano farlo di nuovo. Moor Beer fa parte del tessuto della scena birraria di Bristol da oltre 20 anni. Come squadra, ci impegniamo a fare il lavoro necessario per garantire di essere ancora qui – a produrre ottima birra e a contribuire positivamente alla nostra città – per molti anni a venire.
Il comunicato è l’atto finale di una crisi che, nel giro di poche settimane, ha portato Moor Beer da essere un birrificio di successo a un passo dall’amministrazione controllata, mettendo in discussione la sua stessa sopravvivenza. Una crisi nata sui social, esplosa nello spazio pubblico e poi riversatasi, con violenza, sulla struttura economica e umana dell’azienda. In un’epoca in cui i social non sono più solo strumenti di comunicazione, ma veri e propri acceleratori reputazionali, l’effetto è stato immediato. È significativo che il comunicato ufficiale parli esplicitamente di un gruppo di persone locali che “si prende profondamente cura del team, delle birre e del ruolo di Moor nella comunità”. La soluzione non è arrivata da un investitore esterno, ma da un’azione interna, sostenuta da figure riconosciute della scena britannica come Bruce Gray e Callum Bickers (ex Left Handed Giant), chiamati ora a guidare la nuova fase del birrificio.
Sul piano economico, il futuro resta incerto. Moor Beer è stata vicina al collasso e l’obiettivo immediato è dichiaratamente difensivo: proteggere i posti di lavoro, sostenere i fornitori, onorare i debiti e continuare a operare nei mesi più difficili. È un approccio pragmatico, lontano dalle narrazioni eroiche spesso associate alla birra artigianale, ma probabilmente l’unico possibile in questa fase.
La vicenda solleva interrogativi più ampi sul ruolo dei social nell’evoluzione delle aziende craft. Per anni, questi strumenti sono stati fondamentali per costruire comunità, raccontare identità e aggirare i canali tradizionali. Oggi, però, mostrano anche il loro lato più fragile: un post può compromettere in poche ore un capitale reputazionale costruito in decenni. Quando il fondatore coincide con il brand, ogni parola pubblica diventa una dichiarazione aziendale, voluta o meno.
Se Moor Beer riuscirà davvero a ricostruirsi su basi più solide lo dirà il tempo. Per ora resta una certezza: nell’era dei social, nessuna azienda – nemmeno la più iconica – può permettersi di ignorare l’impatto delle parole e delle prese di posizione pubbliche sul proprio futuro.






