La notizia era nell’aria da tempo, ma ora è ufficiale: Unionbirrai, l’associazione che rappresenta i birrifici artigianali italiani, ha deciso di consentire la pastorizzazione delle birre analcoliche, a patto che non rappresentino la parte prevalente della produzione di un birrificio. Una presa di posizione che tiene conto dei profondi mutamenti in atto nel settore, dove la domanda di referenze NoLo (no e low alcohol) è in costante crescita, anche tra i consumatori più consapevoli. La novità, per certi versi clamorosa, è stata introdotta per permettere la produzione ottimale di birre analcoliche, che richiedono trattamenti termici affinché non ne sia compromessa la stabilità già nel medio e breve termine.
Il nodo, come spesso accade quando si parla di birra artigianale in Italia, è l’articolato rapporto tra tecnica produttiva e classificazione legale. La legge italiana definisce la birra artigianale come quella non pastorizzata e non microfiltrata, mentre non prevede alcuna definizione normativa per il “birrificio artigianale”. È quindi il singolo prodotto a dover rispondere a determinati requisiti, non l’azienda che lo realizza. La questione si complica con l’arrivo delle analcoliche, la cui produzione sicura richiede spesso l’adozione di trattamenti termici – tra cui, appunto, la pastorizzazione. Si tratta di un passaggio tecnico delicato, ma in alcuni casi difficile da evitare, soprattutto in assenza di filtraggi industriali o di stabilizzazione chimica, che di fatto sono incompatibili con la filosofia dei birrifici artigianali.
Ecco quindi che Unionbirrai ha deciso di aggiornare le proprie regole interne per adattarsi a questa nuova realtà produttiva. La pastorizzazione di birre analcoliche non comporterà l’esclusione dall’associazione, purché tale scelta non diventi predominante nella gamma proposta. Resta naturalmente inteso che le birre pastorizzate non potranno riportare il marchio “Indipendente Artigianale”, il bollino creato da Unionbirrai per segnalare le birre artigianali prodotte da aziende indipendenti italiane. A spiegare nel dettaglio la scelta è Vittorio Ferraris, direttore generale di Unionbirrai:
La produzione di birre analcoliche richiede oggi, in modo sempre più diffuso, trattamenti specifici per garantirne la sicurezza. Tra questi, la pastorizzazione è spesso indispensabile. Per questo abbiamo aggiornato i criteri tecnici di adesione all’associazione: chi pastorizza birre analcoliche, senza farne la propria produzione prevalente, può continuare a far parte di Unionbirrai. La nostra decisione riguarda lo statuto associativo e non intende in alcun modo sostituirsi alle leggi dello Stato o ai chiarimenti dell’Agenzia delle Dogane.
Ci è stato chiesto se pastorizzare una singola birra comporti la perdita dello status artigianale per tutto il birrificio, ma la risposta è no. Non esiste il “birrificio artigianale” in termini normativi: l’artigianalità si applica al singolo prodotto. Se una birra viene pastorizzata, quella birra non è artigianale, punto. Ma ciò non ha conseguenze su eventuali altre birre dello stesso produttore che rispettano i requisiti previsti dalla legge.
È molto probabile che la decisione di Unionbirrai alimenterà diverse polemiche nell’ambiente, sebbene i motivi che l’hanno suggerita siano ampiamente comprensibili. La pastorizzazione, infatti, è un tabù – forse “il” tabù – da quando esiste la birra artigianale italiana. Ammesso e non concesso che questa soluzione tecnologica sia il male assoluto, è curioso che Unionbirrai abbia deciso di “abbracciarla” per un tipo di birre che rappresentano una percentuale irrisoria nel panorama produttivo dei birrifici artigianali italiani. Di contro bisogna notare che, con questa scelta, l’associazione si è dimostrata molto reattiva alle evoluzioni del mercato, sconfessando l’accusa, spesso rivoltale, di non essere al passo coi tempi.


