Il patto Ribbentrop-Molotov, il trasferimento di Baggio dalla Fiorentina alla Juventus e ora la cessione del birrificio Anchor al colosso Sapporo. Ci sono accordi che entrano nella storia perché carichi di profondi significati simbolici e tra questi oggi possiamo inserire la notizia che da qualche ora sta rimbalzando sui social e sugli organi specializzati: l’americana Anchor Brewing ha venduto il 100% delle sue quote all’industria giapponese Sapporo, scrivendo un nuovo episodio della serie “Come le multinazionali stanno invadendo il settore della birra artigianale”. Ma, come accennato, questa volta la vicenda è piuttosto clamorosa perché Anchor non è un produttore come gli altri degli Stati Uniti: è il birrificio unanimemente riconosciuto come fautore della rivoluzione craft negli USA, l’azienda che negli anni ’70 diede il “la” a un fenomeno che oggi ha raggiunto dimensioni straordinarie. Perciò, al netto della considerazione che si può avere per il marchio californiano – secondo me comunque meritevole di assoluto rispetto – assistere alla capitolazione di un nome del genere produce un certo effetto. È come perdere una roccaforte strategica in una guerra impari, come scendere in campo contro il Real Madrid senza il proprio capitano.
La fondazione del birrificio Anchor risale addirittura al 1896, ma l’anno chiave fu il 1965 quando Fritz Maytag rilevò le quote dell’azienda per pochi dollari – era sull’orlo della bancarotta – inaugurando una nuova fortunata era per il produttore di San Francisco. Maytag ripensò l’intera gamma di Anchor con l’intento di proporre birre profondamente diverse dalle anonime Lager dell’industria che dominavano il mercato. Le ricette create da Maytag rappresentarono qualcosa di straordinariamente nuovo per il panorama brassicolo americano: lanciò una Pale Ale con dry hopping (Liberty Pale Ale), una Porter classica e moderna allo stesso tempo (Anchor Porter), un Barley Wine (Old Foghorn), una natalizia (Anchor Christmas), ma soprattutto una birra che si ispirava a un antico stile autoctono degli Stati Uniti: quello delle Steam Beer, di cui registrò il nome (Anchor Steam Beer). Il suo coraggio e la sua lungimiranza gli permisero non solo di rilanciare il marchio, ma di alimentare un interesse rispetto a quel modo di intendere la birra che avrebbe influenzato bevitori e birrai per decenni.
Nel 2010 Maytag vendette l’azienda a Greggor e Tony Foglio, i quali oggi, a distanza di solo qualche anno, hanno rivenduto tutto a Sapporo. All’epoca i due dichiararono che l’acquisizione rappresentava per loro:
Qualcosa sulla quale vogliamo costruire il resto delle nostre carriere, per poi passarla alla generazione successiva.
Parole che ora appaiono false come una banconota da 2 euro e che provocano al massimo qualche sorriso amaro. Secondo quanto riportato dal sito SFGate, l’idea di cedere il birrificio Anchor risale a circa un anno fa e in questo arco di tempo la dirigenza si è confrontata con diversi possibili acquirenti per trovare quello più in linea con la propria filosofia. Alla fine la scelta è ricaduta su Sapporo, che ricordo essere uno dei birrifici più grandi del Giappone. Inizialmente le intenzioni erano di trattenere alcune quote, ma alla fine il management si è convinto a venderle interamente per garantire il futuro dell’azienda e supportare un’ulteriore espansione sul mercato internazionale. Il colosso giapponese investirà nell’attuale centro produttivo di Anchor, puntando a migliorare, tra le altre cose, il sistema di inlattinamento. Ma chiaramente già si pensa al lungo termine.
Così oggi è come se si fosse chiuso il cerchio. Cinquanta anni fa un birrificio di San Francisco sfidò la visione comune di birra, ottenendo un successo inaspettato e accendendo la scintilla di una straordinaria rivoluzione economica e culturale. Cinquanta anni dopo lo stesso birrificio viene acquisito da una multinazionale del settore, facendo la stessa fine di produttori come Ballast Point, Wicked Weed, Goose Island, 10 Barrels e altri. Come allora probabilmente oggi siamo di nuovo al cospetto di una nuova era birraria. Un’era ben diversa ovviamente, in cui non esiste più la distinzione netta tra birra industriale e birra artigianale e dove le acquisizioni sono all’ordine del giorno (o quasi). Forse è anche arrivato il momento di prenderne atto e rivalutare tutto secondo queste dinamiche.
Sembra quasi impossibile da credere, ma chiaramente Anchor non potrà più essere considerato un birrificio craft secondo la definizione della Brewers Association. Nel suddetto pezzo viene chiesto a Greggor Foglio come si regoleranno rispetto a questo aspetto. La sua risposta mi ha lasciato interdetto per arroganza e disinteresse:
Anchor produce birra artigianale da prima ancora che il termine “craft” fosse coniato. Direi che Anchor è più artigianale di qualsiasi birra craft disponibile oggi sul mercato. Comunque anche se non dovesse più rientrare nella definizione di qualche autoproclamatasi organizzazione (riferimento alla Brewers Association ndr), saremo sempre gli originali e continueremo a produrre birra artigianale a San Francisco.
Parole sferzanti, che avrei faticato a comprendere se fossero state pronunciate da Fritz Maytag, figuriamoci da chi è subentrato in Anchor sette anni fa per rivendere l’azienda dopo poco più di un lustro. Sinceramente in situazioni del genere non riesco a capire questa insistenza nel difendere una dimensione alla quale non si appartiene più: avete venduto all’industria, va bene, nessuno vi condannerà per questo. Perché allora continuare con le polemiche e le frasi al vetriolo? Evidentemente deve essere un virus che si diffonde tra chi cede il proprio birrificio alle multinazionali, visto che sembra non conoscere confini.
Dichiarazioni a parte, la cessione di Anchor segna un anno zero per tutto il movimento internazionale della birra artigianale. Cosa ci attende ancora? Le brutte sorprese sembrano non finire mai.
Alle celebri birre da te citate, aggiungerei pure la Anchor Summer Wheat, primo esempio di american wheat.
Rileggendo il tuo vecchio articolo, datato 29 aprile 2010, mi pare si possa affermare che forse Fritz Maytag avrebbe potuto scegliere meglio il suo acquirente. Praticamente il glorioso birrificio è morto sette anni fa, ma la notizia è stata data oggi.
Eh sì, l’ho riletto anche io e ho pensato la stessa cosa. Diciamo che i due sono stati bravi a convincere lui e non solo. Non conosco i termini dell’acquisizione, ma è probabile che questi abbiamo acquistato a X e rivenduto a X + Y dopo solo 7 anni. Una mossa speculativa niente male.
[…] sul mercato americano. L’acquisizione di Stone Brewing segue infatti quella di Anchor, avvenuta nell’agosto del 2017. In tempi relativamente brevi, quindi, il gigante giapponese ha ottenuto il controllo di due […]