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Catalogare gli stili birrari: fino a dove ha senso farlo?

Brewers Association

Come riportato da Charlie Papazian, negli scorsi giorni l’americana Brewers Association ha rilasciato l’ultima revisione delle Beer Style Guidelines, cioè una serie di dettagliate linee guida definite per catalogare i diversi stili birrari del mondo. E’ un documento sempre piuttosto interessante, che funge anche da riferimento per l’annuale concorso collegato al Great American Beer Festival, la più importante manifestazione birraria degli Stati Uniti. Nel documento (scaricabile in formato pdf) sono elencati la bellezza di 140 stili diversi, alcuni dei quali appartenenti a grandi classici dell’arte brassicola mondiale. Spesso però si tratta di semplici variazioni sul tema, con differenze così labili che è naturale chiedersi quanto senso abbiano determinate distinzioni.

La pubblicazione è divisa in alte e basse fermentazioni e si apre con le Ale di origine britannica e irlandese, tra le quali appaiono tipologie ben conosciute, come IPA, Porter, Stout, Bitter, Old Ale, ecc. Per molte di esse sono presenti le diverse declinazioni dello stile: ad esempio non sono citate le Stout in generale, che piuttosto risultano divise in Sweet, Oatmeal, Dry ed Export Stout. Fin qui niente di nuovo, a parte qualche soluzione particolare, come il riferimento alle Heavy Ale o la suddivisione delle Mild in Pale e Dark (chiare e scure, in pratica).

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Passando invece agli stili di origine nord-americana, si nota una forte presenza di reintepretazioni di stili classici, che però acquistano una loro totale autonomia. Ecco allora che troviamo le American-Style Sour Ale, le American-style Brown Ale, le American-style Stout e via dicendo. D’accordo, la cultura birraria statunitense ha spesso riproposto con caratteristiche leggermente diverse stili di impostazione classica, ma ha senso arrivare a questo livello di differenziazione? Probabilmente è utile parlare di IPA o Barley Wine di impostazione americana, trattandole come stili a sè stanti, ma per gran parte degli altri ho alcune perplessità. Può bastare una piccola variazione di uno stile classico, magari limitata a pochi esemplari, per definirne uno completamente nuovo?

Con la Germania e il Belgio si torna ad alte fermentazioni dai nomi più sensati, mentre entrando nell’universo delle Lager si nota per gli Stati Uniti un’impostazione molto simile a quello delle Ale. Definirei controverso il capitolo finale, dove sono elencati gli stili ibridi. Questo è il regno delle spezie, degli ingredienti particolari e delle tecniche inusuali: acquistano lo stato di “stile” le tipologie prodotte con frutta, zucca, cioccolato, segale, caffè, miele. Inoltre sono individuate categorie che difficilmente uno considererebbe veri e propri stili: birre senza glutine, Session Beer, birre sperimentali, ecc. Commovente il tentativo di catalogare le diverse tipologie di maturazioni in legno (si contano ben 5 diversi stili), ma credo che sia un esercizio dalla dubbia utilità. Questo capitolo finale si configura quindi come un grande calderone, in cui convivono stili veri e propri, categorie difficili da inquadrare e persino vaghi concetti birrari.

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C’è chi ama pubblicazioni come questa e chi le odia letteralmente, magari sorridendo di fronte al tentativo di racchiudere qualsiasi creazione brassicola in una tipologia ben definita. Ma più che concentrarmi su questo aspetto, mi interessa la vostra opinione su due temi: quali tra gli stili americani elencati secondo voi ha davvero senso considerare? Ed esistono interpretazioni italiane di stili classici, per cui sarebbe utile parlare di una controparte Italian-style? A proposito, il documento della Brewers Association non cita mai le castagne come ingrediente…

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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7 Commenti

  1. Ho letto la guide e penso che in alcuni casi sia anche necessario scindere stili simili, mentre in altri diventa appunto solo un “gioco di stili”.
    In generale penso ne siano descritti davvero troppi.

    D’altro canto il mondo birrario è fatto anche di gente che ancora ha difficoltà a differenziare gli stili più basilari

  2. Superbia tipica degli yankee.
    Hanno il copyright di tutto ciò che sfiorano.
    E guai a toccarlo.
    Le noste Autumn-ales alle castagne,che piacciano o meno,meritavano almeno un posticino.

  3. L’importanza dell’appartenenza ad uno stile in Italia viene spesso trascurata e distorta. Lo stile dovrebbe servire a far capire al consumatore consapevole che tipo di birra gli viene offerta e che la stessa rientra in una categoria ben precisa.

    Ad es. se ordino una Lager so di non dovermi aspettare del fruttato, se invece lo stesso lo ritrovo in una Weizen è normale. Alcuni produttori candidamente affermano non non si ispiriamo a nessuno stile, forse farlo è troppo difficile ed è più comodo chiamarsi fuori e come il marketing insegna trasformare un difetto in una caratteristica di pregio.

    Come può un consumatore essere invogliato da un etichetta che riporta birra rossa? Ma quale rossa semmai ambrata e di che tipo? Se uno non sa che tipo di birra aspettarsi, come può optare per un etichetta piuttosto che un’altra. Apro la bottiglia e può esserci di tutto, leggo birra bionda: Pils, Lager, Ale, Strong Ale, ecc, ecc.?

    Allora siamo alla stregua dell’Italiano medio che entra in un locale e ordina una birra, ma che sia ghiacciata. Per non parlare del termine “rifermentata in bottiglia” a volte addirittura impiegato per birre a bassa.

    In Italia prima di pensare a creare uno stile nostro, che storicamente non esiste e non si afferma in pochi anni, dovremmo riuscire a fare della birra che non solo si ispiri ad un determinato stile, ma che possa a diritto appartenere allo stesso. In Italia non abbiamo degli stili, per tutti i motivi culturali che ben conosciamo, ma che mancano proprio perché non abbiamo ingredienti nostri.

    Le castagne? Veramente la birra alle castagne che ha un mercato e che è ormai affermata è la Pietra ed è Corsa, quindi più che Italiana a me parrebbe Francese. CIAO.

  4. A mio parere è importante avere degli stili per avere un riferimento preciso. Un linguaggio comune con il quale confrontarsi e dialogare.

    Poi se il birraio artigiano interpreta o stravolge lo stile, producendo comunque un prodotto piacevole (che abbia un senso), per me è anche meglio.
    Credo che oggi si debba evitare di produrer birre delle quali non si sentiva la mancanza.

    Quindi, tornando alla definizione di artigianale che condivido e che è stata ribadita qui anche da Turco, è il birraio che deve fare la differenza.
    E differenza per me vuol dire anche coraggio di sperimentare nuove strade.
    Senza voler ovviamente difendere la birra cattiva.

    Per quanto riguarda la birra alla castagna non mi sembra che ci siano i presupposti per codificare uno stile. Le birre alla castagna hanno infatti un unico punto in comune. l’uso delle castagne.

    Il discorso sulla corretta informazione al consumatore mi sembra poi una forzatura.
    E’ molto importante e mi auguro che la pregevole iniziativa di MoBI “Birra Chiara” sia seguita da tutti. Ciò non vuol dire però che l’unico modo per essere chiari è fare tutti le birre allo stesso modo.

  5. @ Livingstone
    Giustissimo, attenersi ad una tipologia non vuol dire standardizzare, ma informare il consumatore su quali erano le intenzioni del birraio e non avere la comodità e convenienza per poi poter dire “è acida? Si ma noi volevamo farla così”. Ad es. in Rep. Ceca fanno centinaia di tipi di Pils, tutte perfettamente corrispondenti allo stile, ma tutte diverse l’una dall’altra. L’appartenenza ad uno stile lascia ampio spazio all’interpretazione dello stesso da parte del birraio. Ci sono Weizen con marcato sentore di banana: Wheinstephen ed altre no: Hopfen Weiss, eppure tutte e due sono corrispondenti. Ciao.

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