Lo scorso marzo partì, inizialmente un po’ in sordina, il progetto Be Grapeful del Birrificio della Granda dedicato alle Italian Grape Ale. L’idea sembrava non dissimile da quelle di altri birrifici: una linea parallela composta da birre particolari, ognuna realizzata in collaborazione con un diverso produttore straniero. Ben presto però il progetto attirò l’attenzione dell’ambiente sia per i nomi coinvolti, di livello molto alto, sia per il coinvolgimento dell’importante cantina cooperativa Vite Colte (sito web), sia infine per l’intenzione di rivisitare lo stile birrario italiano per eccellenza. Negli scorsi giorni il fondatore del Birrificio della Granda, Ivano Astesana, è stato a Roma per presentare alcune delle birre Be Grapeful nei locali Queen Makeda e Luppolo Station e lo abbiamo raggiunto proprio in quest’ultimo pub per farci raccontare il progetto direttamente dalle sue parole. Ne è uscita un’intervista molto interessante, che in parte rovescia la visione stessa delle Italian Grape Ale, ma tocca anche argomenti come il legame con il territorio e la comunicazione.
Ciao Ivano, cominciamo parlando di Be Grapeful e delle birre che fino a oggi sono nate da questo progetto.
L’ideazione del progetto Be Grapeful è cominciata nell’autunno dell’anno scorso, quando iniziammo a ragionare su una serie di collaborazioni con birrifici stranieri. Avevamo individuato alcuni produttori europei, soprattutto del Nord Europa, che spesso partecipano a collaborazioni con birrifici italiani; tuttavia non ci interessava realizzare le classiche limited edition o one shot dalla vita breve, ma volevamo sviluppare qualcosa di più ampio respiro. Contemporaneamente la scorsa estate assumemmo Fabio Prete, un birraio proveniente da Brewdog, che oggi lavora come head brewer accanto a Davide Cravero, responsabile di produzione. Fabio ci ha dato modo di ripensare il modo in cui viene percepita la birra italiana all’estero: in particolare le Italian Grape Ale da noi sono considerate importanti, perché rappresentano il primo stile birrario italiano, ma sono sempre avvertite come un prodotto di nicchia, di difficile approccio e relegato alla comunità degli appassionati. All’estero invece sono viste come birre che incuriosiscono tantissimo e che, grazie alle loro specifiche molto vaghe, possono essere declinate in mille modi diversi. Allora abbiamo pensato di sfruttare questa caratteristica come pretesto per invitare in Italia diversi birrai stranieri e chiedere loro di mettersi in gioco con lo stile, reinterpretandolo e filtrandolo attraverso le loro tradizioni brassicole e la loro sensibilità .
Così siamo partiti, inizialmente un po’ in sordina. La prima collaborazione è stata con il birrificio Brlo di Berlino, molto forte sulle Berliner Weisse. La ricetta è venuta quasi da sé: una Imperial Berliner Weisse in cui la classica aromatizzazione con frutta è sostituita dall’aggiunta del mosto di moscato. Poi è stata la volta di Justin Hawke del birrificio Moor, che ha un approccio più tradizionalista: con lui abbiamo brassato una IGA ispirata ai Barley Wine britannici chiari, con una componente maltata meno dominante così da lasciare spazio al contributo del mosto di moscato. Successivamente abbiamo coinvolto il birrificio norvegese Lervig, con l’idea di integrare nella ricetta il lievito Kveik dopo l’acidificazione del mosto tramite lattobacilli e prima dell’aggiunta del mosto d’uva. Il procedimento ha generato profumi incredibili di fiori d’arancio e agrumi, che hanno creato un ulteriore layer aromatico rispetto a quello del moscato.
Il birrificio irlandese Wicklow Wolf era interessato a produrre una IPA, così abbiamo creato una sorta di Juicy IPA in cui la parte “succosa” è conferita dal mosto di moscato. Non abbiamo potuto definirla “IGA IPA” o “IPA IGA” perché i due acronimi insieme suonano malissimo, così abbiamo preferito l’espressione Fruity IGA per far capire che la parte fruttata non deriva solo dall’uva, ma anche (e soprattutto) dal luppolo. Al naso sembra quasi una normale IPA, ma in bocca spicca la parte vinosa con una nota fresca e leggermente acidula. La quinta birra uscirà in questi giorni ed è il frutto della collaborazione con To Øl. Sarà una Lager, perché confrontandoci con la birraia Tamar è emerso da parte dei consumatori la predilezione per bevute più semplici dopo anni di amaro e acido. Siamo partiti dalla ricetta della loro 45 Days Organic Pilsner e abbiamo aggiunto mosto di moscato, che inizialmente si avverte soprattutto al retrolfatto, ma poi si prende quasi completamente la scena.
Parlando dello stile in generale, per te Ivano cosa sono le Italian Grape Ale?
Le Italian Grape Ale non le incasellerei in uno stile, ma le considererei più una possibilità per realizzare una birra “locale”. Attenzione però, perché per locale non intendo qualcosa di legato a disciplinari regionali o territoriali, che secondo me tendono a chiudere il mercato della birra artigianale ancora più di quanto non sia già adesso. A mio parere se in questo momento storico uso orzo o luppolo piemontese non creo una birra riconoscibile per le sue peculiarità aromatiche o gustative. È un problema, perché viene proposta una certificazione di filiera su un prodotto che non fornisce alcun valore aggiunto, se non la certificazione stessa. Se guardi le cose più in prospettiva e ascolti il punto di vista dei nostri amici europei, la birra italiana è considerata buona, ma non possiede ancora un’identificazione di stili come altri paesi. Così al momento l’unico ingrediente che può dare qualcosa di unico a una ricetta riconducibile all’Italia è il mosto d’uva, perché fortemente caratterizzante e capace di fornire diverse variazioni aromatiche grazie ai tanti vitigni coltivati nel nostro paese. Partendo da questo presupposto possiamo costruire qualcosa di importante e reinterpretare praticamente qualsiasi stile birrario aggiungendo uno spin molto particolare e molto italiano. Non è la soluzione definitiva, ma la migliore finché non avremo ingredienti base davvero caratterizzanti, come una varietà di luppolo nostrana facilmente riconoscibile.
In Italia si producono IGA da tanti anni, ma secondo me le loro potenzialità non sono mai state sfruttate appieno. Quasi tutti i birrifici fanno una IGA, ma spesso giusto per completare la gamma. Invece su questo stile si può raccontare davvero tanto, molto di più di quanto si faccia adesso. Imparando dagli amici del vino, che sulla narrazione sono molto forti.
Qual è stato l’approccio alle Italian Grape Ale dei birrai stranieri che hai coinvolto nel progetto?
Innanzitutto curiosità e tanta voglia di vedere come questo ingrediente, che conoscevano poco, si andava a integrare nella loro idea di ricetta. Poi ovviamente in alcuni casi questo processo è venuto da sé, perché la birra di partenza si prestava già tantissimo, come nel caso della Berliner Weisse. In altri è stato più complicato, perché non avevamo a disposizione qualcosa di già pronto e siamo partiti da zero. Penso ad esempio alla Kveik Sour che abbiamo brassato con Lervig: lì siamo partiti veramente da un foglio bianco e abbiamo dovuto ragionare sull’ingrediente più caratterizzante, che in quel caso è il lievito e non il mosto di moscato, costruendoci la ricetta intorno per far comunque emergere l’anima da IGA. Con altri birrifici l’approccio è stato più razionale: un birraio olandese, con cui dovremmo continuare il progetto a settembre, mi ha chiesto di spedirgli del mosto di moscato e alcune IGA già prodotte, così da avere qualche riferimento rispetto a uno stile che non conosce assolutamente e inviare di conseguenza alcune sue birre candidate a ricevere il mosto per poi confrontarsi. Quindi gli approcci sono stati molto diversi tra loro, da quello più semplice, perché magari c’era già ben chiaro il percorso da intraprendere, a quello più articolato e approfondito.
Per tutte le IGA del progetto hai usato solo mosto di moscato. Come mai questa scelta monodirezionale?
È stata una scelta tecnica, perché avevamo necessità di usare il mosto di un vitigno che fosse sempre disponibile. La prima IGA è nata a febbraio e andremo avanti fino a febbraio/marzo dell’anno prossimo. Sono dodici mesi e di solito gli altri mosti sono disponibili solo dopo la vendemmia, senza considerare i problemi con le certificazioni DOC o DOCG di alcuni vitigni, tipo il Nebbiolo. Cantine Vite Colte, che abbiamo coinvolto nel progetto Be Grapeful, avrebbe avuto disponibile anche il Sauvignon, ma in una finestra temporale molto ridotta e dunque non compatibile con le nostre esigenze. Il moscato invece è sempre disponibile perché viene usato per un vino dolce che va bevuto piuttosto giovane: le cantine quindi solitamente producono il mosto, lo tengono in fermentazione a zero gradi (quindi evitano che la stessa parti) e poi ne fermentano di volta in volta una parte in base alle richieste del mercato. Il moscato è quindi generalmente disponibile fino alla vendemmia dell’anno successivo. Al di là di queste considerazioni tecniche, è un vitigno che si presta molto bene, perché aromatico e assai caratterizzante.
Nelle righe precedenti hai già “spoilerato” qualche dettaglio, comunque come proseguirà il progetto Be Grapeful dopo l’estate?
Mi piacerebbe continuare ancora con qualche collaborazione. Oltre al coinvolgimento del birrificio olandese citato poco sopra, ci stiamo confrontando anche con un produttore belga e con altri nomi della scena internazionale. L’obiettivo è arrivare alla fine della primavera del prossimo anno e poi organizzare un festival birrario nel quale riunire i birrai e gli amici che hanno preso parte al progetto Be Grapeful per chiudere il cerchio. Proveremo a riprodurre alcune delle IGA andate esaurite dopo la relativa cotta, ma ciò che ci interessa è dare un senso di completezza a un percorso che ci sta regalando tante soddisfazioni. Non è solo ospitare birrai che abbiamo sempre stimato e considerato superstar, ma anche coltivare rapporti umani e professionali. Questa è una parte fondamentale del nostro lavoro, non si sceglie di essere birrai solo per fare birra, ma anche per tutto ciò che ruota intorno alla bevanda.
Un’ultima domanda. Tu hai scelto di confezionare tutte le birre del progetto Be Grapeful in lattina. Non sei il primo birrificio italiano a usare questo contenitore per le IGA, però non pensi che in termini di comunicazione l’assenza della bottiglia tolga valore a questo stile birrario? Oppure al contrario ritieni che la lattina sia utile proprio per rendere più popolari le Italian Grape Ale?
La lattina è stata una scelta di comunicazione. Per alcune delle birre che abbiamo brassato, come il Barley Wine, tecnicamente la bottiglia sarebbe stato il contenitore più indicato, però volevamo togliere alle IGA quell’altarino sulle quali si trovano ora, che da una parte eleva il prodotto, ma dall’altro lo rende distante dalla gente. In lattina anche una IGA viene percepita come di più facile approccio. Come birrificio non siamo sostenitori a prescindere di una soluzione rispetto a un’altra, usiamo sia lattine che bottiglie, ma per i nostri obiettivi la lattina ci è sembrata perfetta per il progetto.
Grazie a Ivano Astesana per la disponibilità e non resta che attendere le nuove collaborazioni del progetto Be Grapeful, fino al festival del prossimo anno.
Lo stile Italian Grape Ale è promosso in Italia anche dal Progetto IGA (sito web), al quale aderisce Cronache di Birra. L’obiettivo principale dell’iniziativa è lo sviluppo del Made in Italy attraverso uno stile birrario in grado di raccontare il territorio nel bicchiere, attingendo a un patrimonio unico di vitigni che sono già protagonisti nel panorama internazionale. Il Progetto IGA organizza l’IGA Beer Challenge, il concorso internazionale dedicato alle Italian Grape Ale.