Nell’ultima settimana del mese di luglio, in una giornata stranamente calda e soleggiata per la piovosa estate belga appena conclusa, ho avuto la possibilità di partecipare a un’interessante degustazione di birre di un produttore ormai scomparso: il birrificio Eylenbosch. La degustazione è stata organizzata e ospitata dal locale Hops’n More (pagina Facebook), una delle aggiunte più recenti (2020) e interessanti della vibrante scena birraria di Lovanio, nonché punto di riferimento per i beer geek di tutta Europa per le release di birre provenienti da mezzo mondo.
La storia di Eylenbosch
La storia di Eylenbosch inizia agli inizi del diciannovesimo secolo nella località di Schepdaal, oggi frazione del comune di Dilbeek, nella zona del Pajottenland a sud-ovest di Bruxelles. Il birrificio fu fondato nel 1886 da Emile Eylenbosch, che in precedenza aveva lavorato come birraio in locali affittati da un altro storico produttore, De Troch, con cui accese una feroce competizione. Negli anni ’30 il birrificio si espanse e venne costruita l’iconica torre che ancora oggi si può vedere dalla Chaussee de Ninove, la strada che collega Bruxelles alla zona.
Alla guida del birrificio si alternarono, nel corso degli anni, successive generazioni delle famiglie Eylenbosch e Valkeniers. Il declino iniziò verso la fine degli anni ’50, un periodo in cui molti birrifici del Pajottenland iniziarono a chiudere. Nel 1975 fu acquistato dal gruppo inglese Whitebread, che nel 1989 lo vendette al birrificio Mort Subite (all’epoca controllato al 50% dal gruppo Alken-Maes). L’acquisizione non salvò il birrificio, che chiuse definitivamente nel 1991. Oggi, al suo posto, ci sono degli appartamenti, mentre il marchio è stato rilanciato da Erik De Keersmaeker, membro della famiglia che lo rilevò nel 1989, e che oggi ha un proprio sito produttivo ad Asse.
La degustazione
La degustazione è consistita nell’assaggio di 11 diverse bottiglie, datate tra gli anni ’50 e gli anni ’80, quasi tutte nel formato classico da 0,75 litri. Tutte le bottiglie erano state trovate in una cantina della zona. Ovviamente, il rischio di trovarsi di fronte a prodotti deteriorati era molto alto, ma allo stesso tempo era un’occasione unica per assaggiare birre ormai introvabili, se non a cifre esose sul mercato secondario.
Abbiamo iniziato la degustazione con una bottiglia di Lambic degli anni ’70. Sorprendentemente, il contenuto si è rivelato tutto sommato ben conservato, con un colore e sapore “maderizzati” e una lieve acidità. Decisamente meno buona la seconda bevuta: una bottiglia di Spanik Geuze degli anni ’70. Si tratta di una produzione di cui si hanno pochissime notizie. Il nome Spanik è la combinazione dei termini “Spanuit”, l’appellativo del quartiere di Schepdaal dove aveva sede il birrificio, e “Lambiek” (Lambic). Purtroppo, il contenuto era imbevibile: totalmente ossidato, dolciastro e pieno di detriti.
Decisamente più interessante è stato l’assaggio della Gueuze Framboisee des Ardennes del 1978. L’aroma di lampone era ancora ben presente, la birra aveva un deciso colore ambrato ed era ancora “viva”. Il quarto assaggio sarebbe dovuto essere una Frater Ambrosius, un’altra tipologia di Lambic Framboise. Di fatto, però, non l’abbiamo nemmeno assaggiata, poiché è risultata completamente marcia: è finita direttamente nel tombino fuori dall’Hops’n More.
Il successivo assaggio è stato una bottiglia di Faro Extra, anch’essa del 1978. Il Faro è uno stile di birra molto particolare, che viene riprodotto raramente al giorno d’oggi. Si tratta di Lambic a cui viene aggiunto zucchero candito bruno o melassa. Era la birra delle classi meno abbienti di Bruxelles e nella stragrande maggioranza dei casi non veniva mai imbottigliata, ma “tagliata” al momento della somministrazione dai birrai o dai gestori degli estaminet. La bottiglia era in buone condizioni, sebbene il contenuto risultasse molto acquoso, con un sapore lievemente dolciastro e caramellato. Abbiamo poi stappato una Kriek del 1985. L’assaggio è stato piuttosto soddisfacente: bel colore ambrato scuro, note di ciliegia ben evidenti e una piacevole acidità tannica.
Infine, è arrivato il momento più atteso: la carrellata delle Gueuze. Il primo assaggio è stato una Festival Gueuze del 1983. La Festival Gueuze era una Gueuze blendata con i Lambic delle migliori botti e rilasciata per occasioni speciali. Si è presentata con una sorprendente leggera schiuma, molto poca acidità e un marcato retrogusto amaro, non riscontrato in nessuno degli altri prodotti. La seconda Gueuze, del 1973, si è rivelata la migliore bevuta dell’intera degustazione. Leggero cappello di schiuma, prodotto ancora vivace con una buona acidità e corpo. L’emblema di cosa dovrebbe essere una Gueuze vintage.
Interessanti anche le altre Gueuze. La Gueuze del 1987 (in bottiglia da 0,375 litri) dal sapore fortemente dolciastro, la Gueuze del 1963, tannica, ambrata ma per nulla maderizzata, e la Gueuze degli anni ’50, che, nonostante l’età e la quasi totale assenza di aromi, era comunque ancora bevibile.
La degustazione si è rivelata superiore alle aspettative, offrendo un bel viaggio nel tempo grazie a prodotti unici nel loro genere. Le birre a fermentazione spontanea sono tra le poche che possono invecchiare degnamente anche per diversi decenni, consentendo esperienze degustative irripetibili come quella a cui ho avuto la fortuna di partecipare.