Come ben sappiamo intorno alla nostra bevanda si sono sviluppati nel tempo tantissimi falsi miti, alimentati spesso da informazioni mendaci, da divertenti equivoci e soprattutto da molta superficialità. Correggere questi errori è importante, ma bisogna evitare di combattere la superficialità con altra superficialità. Sappiamo ad esempio che la storiella delle IPA nate appositamente per le colonie britanniche in India è fuorviante, ma lo è altrettanto affermare che questo stile non ha niente a che fare con il paese asiatico. Allo stesso modo sento ripetere spesso che la birra “doppio malto” non esiste, rischiando però di aumentare la confusione invece di ridurla: cosa dovrebbe pensare il neofita che trova scritto su tante etichette effettivamente “doppio malto”? Sebbene su questo punto in molti si siano espressi, ritengo importante tornare sull’argomento per chiarire eventuali dubbi.
La birra “doppio malto” per la legge italiana
L’espressione “doppio malto” è stata introdotta esplicitamente dalla legge di riferimento in Italia per la birra, la n. 1354 (“Disciplina igienica della produzione e del commercio della birra”) risalente al 16 agosto 1962 – sì, purtroppo è una disposizione vecchia più di 50 anni. Al comma 3 del secondo articolo si legge quanto segue:
La denominazione ”birra” è riservata al prodotto con grado Plato superiore a 10,5 e con titolo alcolometrico volumico superiore a 3,5%; tale prodotto può essere denominato ”birra speciale” se il grado Plato non è inferiore a 12,5 e ‘‘birra doppio malto” se il grado Plato non è inferiore a 14,5.
Quindi la denominazione “doppio malto” vale per birre con un titolo alcolometrico superiore a 3,5% e un grado Plato pari o superiore a 14,5. In altre parole parliamo di birre (sulla carta) particolarmente forti e la loro distinzione legislativa è propedeutica alla tassazione: nel nostro paese più una birra è virtualmente alcolica, più alta sarà l’imposta da pagare per metterla in commercio. L’espressione “doppio malto” è quindi stata introdotta in maniera arbitraria (e aggiungerei fuorviante) dal legislatore, tuttavia, come ben sappiamo, è diventata di pubblico dominio.
Cosa non è la birra “doppio malto”
Nel passaggio dai confini della legislazione a quelli dell’uso comune, l’espressione “doppio malto” è stata travisata, alimentando molta confusione spesso favorita dalla mancanza di una corretta comunicazione. Ancora oggi molte persone ordinano la pub una “doppio malto”, intendendo una birra ambrata piuttosto alcolica ma commettendo almeno due errori. Il primo è relativo al colore, che – sfatando una credenza tristemente diffusa – non dipende dal contenuto alcolico: esistono birre scure che non raggiungo il 4% alc. (ad esempio le Dark Mild) e birre chiare che possono tranquillamente andare in doppia cifra (tipo le Tripel belghe). Il colore invece dipende quasi esclusivamente dai malti utilizzati: le Stout sono scure perché realizzate con malti torrefatti, non perché risultano particolarmente forti – e infatti difficilmente superano il 4,5%.
Il secondo abbaglio riguarda il contenuto alcolico. Una birra “doppio malto” non è necessariamente molto alcolica, perché il grado Plato non è indicativo del titolo alcolometrico finale. Questa unità di misura indica la quantità di zuccheri presenti nel mosto: è solo in base all’efficienza con la quale saranno metabolizzati dai lieviti in fase di fermentazione che otterremo il titolo alcolometrico finale. Ne deriva che quest’ultimo può variare in funzione del lievito utilizzato (se è più o meno “vorace”) e di altri parametri che entrano in gioco durante il processo produttivo. Possono tranquillamente esistere birre “doppio malto” da 5% alc.
Inutile poi specificare che “doppio malto” non significa che è stato aggiunto il doppio del malto (rispetto a cosa?), né che la ricetta prevede due malti invece che uno. Nel secondo caso è bene sapere che esistono birre realizzate con una sola varietà di malto d’orzo (es. le Pils tradizionali) e altre con un mix di tanti malti diversi, non sempre di solo orzo.
La “birra doppio malto” esiste?
In definitiva no, non esiste la “birra doppio malto” se con questa espressione intendiamo una precisa tipologia di birra. Esiste però la denominazione legislativa “doppio malto”, che alcuni birrifici riportano in etichetta nel caso di produzioni che rientrano nella suddetta fattispecie (> 3,5% abv e >= 14,5°P) per motivi commerciali o per abitudini errate. Come spiega anche Unionbirrai, non c’è infatti alcun obbligo di inserire la dicitura in etichetta. Essa inoltre non offre alcuna indicazione sulle caratteristiche della birra: né sul colore, né sul gusto, né sul grado alcolico finale (che possiamo ipotizzare ragionevolmente superiore a una birra normale, senza troppa precisione). Le uniche informazioni certe riguardano la densità iniziale del mosto, cioè la quantità di zuccheri disciolti in esso, e il fatto che per il birrificio sarà stato un po’ più costoso produrre quella specifica birra.
Al pub evitate di ordinare una “doppio malto”, perché potreste ritrovarvi nel bicchiere una birra estremamente dolce o, al contrario, estremamente amara. Se state compiendo una scelta, forse vorrete essere un po’ più specifici di così 🙂 . Come sempre allora il consiglio è di riferirvi allo stile birrario che avete in mente, perché in quel caso sì che fornirete informazioni precise al publican di turno. Con buona pace del legislatore, che con il suo neologismo crea equivoci da più di cinquant’anni.
Si uscirà da questo equivoco solo mettendo mano alla legge e introducendo nuove denominazioni. Bisogna far sparire definitivamente la dicitura “doppio malto” dalle etichette.
…Purtroppo è cosi radicato nel vocabolario dell’uomo/bevitore comune che probabilmente non basteranno i prossimi 50 anni a farlo sparire…
Michele
Di sicuro il personaggio che può aiutare più di tutti a estirpare questa cattiva abitudine è il publican: purtroppo per lui deve armarsi di santa pazienza e rassegnarsi nel ripetere la stessa storiella ogni qualvolta un cliente si presenta e chiede una “doppio malto” (anche se più di una volta mi è capitato anche di sentire l’espressione “triplo malto” probabilmente nata da ulteriore confusione con le Tripel). Compirebbe un’opera pia di divulgazione nel confronti del cliente ma soprattutto nei confronti di tutta la comunità degli amanti della birra.
La cosa peggiore da farsi in questo caso di fronte all’ennesima richiesta sarebbe chinare il capo e servire senza battere ciglio una pinta della rossa più alcolica a disposizione nella tap list.
Coraggio publicans siamo con voi!
PS: Andrea potresti stampare questo articolo su carta pergamenata e andare ad affiggerlo sulle porte dei locali come Martin Lutero fece con le sue tesi nella chiesa di Wittemberg.
Il publican è il ruolo fondamentale di tutto il discorso, hai ragione.
L’idea di Martin Lutero non è male, ma dovrei prima farmi monaco 🙂
apprendo con piacerei questa specificazione sull’erronea attribuzione del termine “birra doppio malto”.
ammetto di esserne stato un utilizzatore “incallito”, convinto di dare un’indicazione precisa sul tipo di birra che più apprezzo.
d’ora in poi cercherò di sostituirla magari provando a dire “…..gradirei una birra corposa e con una gradazione superiore a….
grazie
Forse ho capito male, ma se il grado plato dice quanti zuccheri ci sono nel mosto, e gli zuccheri nella birra derivano dal malto, una birra che per la legge è doppio malto non dovrebbe averne in qualche modo di più?
In linea di massima sì, ma il residuo zuccherino finale può dipendere da svariati fattori, ad esempio dall’efficienza del lievito.
Il problema è il nome “doppio malto” che confonde perché da un riferimento preciso della quantità di malto (il “doppio” per l’appunto), del tutto fuorviante.