Se siete lettori assidui di Cronache di Birra, probabilmente ricorderete un vecchio post di metà 2012 in cui illustrai i principali marchi commerciali italiani, ma non assimilabili direttamente alle multinazionali del settore. In quella rassegna mi incuriosì la condizione di Theresianer, considerato da più fonti un birrificio industriale nonostante avesse una produzione annua di dimensioni contenute, quasi paragonabile a quella dei maggiori birrifici artigianali. Inoltre la sua gamma ampia e decisamente poco mainstream ricorda quella di molti microbirrifici: oltre alle solite basse fermentazioni, produce infatti anche una Coffee Stout, una IPA, una Wit e una Strong Ale. Si tratta quindi di un’azienda molto particolare, che ho potuto conoscere meglio negli scorsi giorni assaggiando tre birre speditemi direttamente dall’ufficio stampa di Theresianer.
La storia di Theresianer si inserisce perfettamente in quel prolifico periodo tra il XVIII e XIX secolo di cui ho scritto recentemente, quando in Italia comparvero e si svilupparono diverse fabbriche di birra. L’anno di fondazione è infatti il 1766: fu allora che nel Borgo Teresiano di Trieste aprì i battenti questo nuovo birrificio, operante all’interno dei confini dell’Impero Austro-Ungarico. Il sito web di Theresianer riporta poche notizie sull’evoluzione del birrificio nel tempo: sappiamo solo che oggi è controllato dal gruppo Hausbrandt, ha spostato il suo stabilimento produttivo a Nervesa della Battaglia (TV) e dal 2000 è guidata da Martino Zanetti. Sempre il sito aziendale ci tiene a sottolineare che tutta la gamma è creata nel rispetto dell’Editto della Purezza tedesco: è naturale chiedersi allora come giustificare la presenza di una Coffee Stout e di una Witbier – sebbene nel secondo caso l’enigma sia facilmente risolto e vedremo come.
Chiaramente avvicinarsi ad assaggi del genere non è facile, perché il peso del pregiudizio può essere molto influente. Ho cercato allora di provare le tre birre scevro da ogni condizionamento esterno, valutando semplicemente ciò che era presente nel mio bicchiere. Sono partito dalla Premium Pils (5% alc.), che si presente di colore dorato opaco e di aspetto inaspettatamente molto opalescente. La schiuma è di discreta fattura: bianca e a bolle medie, persistente ma non molto ordinata. Il naso è classico da Pils, ma meno scontato di quanto si penserebbe. Si distinguono note di miele millefiori, leggera crosta di pane (più evidente con i minuti), netta erba tagliata e soprattutto agrumi (mandarino). L’ingresso in bocca è abbastanza timido, con il tono maltato che rimane appena accennato. Il corpo non è perfettamente scorrevole e la carbonazione un po’ troppo incisiva. Nel finale emerge un amaro deciso, con un ritorno di agrumi e una dolcezza non propriamente armonica.
La Premium Pils della casa è dunque una Pilsner con alti e bassi, che mostra alcune sbavature ma che si mantiene sempre nei confini della piacevolezza. In particolare è una birra ben lontana dal concetto di Pils industriale e denota un certo carattere. Potrebbe tranquillamente essere scambiata per una Pils di un microbirrificio, anzi ad essere sinceri è probabilmente migliore di non poche sorelle artigianali.
Successivamente sono passato alla India Pale Ale (5,8%). Si presenta di colore ramato con riflessi arancio, aspetto non totalmente cristallino, schiuma di ottima fattura. Il naso non appare molto ben definito: si rincorrono in una danza non propriamente armonica sentori di cereali, crosta di pane, miele, agrumi e, più lontano, caramello ed erba tagliata. Anche l’ingresso al palato pecca di eleganza, tendendo a una dolcezza poco identificabile. Il corpo è abbastanza scorrevole e la frizzantezza adeguata. Il finale è fruttato e dolciastro, con la chiusura amara che tarda ad arrivare e non periste a lungo.
Rispetto alla Premum Pils, questa IPA è una mezza delusione. Da un lato riesce a proporsi come un prodotto ben lontano dalle corde dell’industria, dall’altro però si può affermare altrettanto rispetto agli standard qualitativi – comunque non sempre eccellenti – di molte IPA artigianali italiane. Al di là delle valutazioni puramente organolettiche, l’India Pale Ale di Theresianer appare come una birra senza un carattere proprio, ammantata da una dolcezza generica che sembra quasi voler nascondere l’amaro necessariamente più evidente richiesto dallo stile. C’è anche da dire che quello delle IPA è forse il più “artigianale” tra tutti gli stili birrari moderni. I nostri palati non possono accettare compromessi perché è solo in un modo che abbiamo imparato a conoscere questa tipologia: attraverso i microbirrifici.
Il terzo e ultimo assaggio si è concentrato sulla Wit (5,1%), che dal nome dovrebbe ispirarsi alle classiche birre di frumento belghe – anche dette Blanche. Il problema è che a parte il frumento, non si ritrovano in etichette le spezie che ci aspetteremmo: scordatevi quindi i classici coriandolo e buccia d’arancio amaro. Ma se togliamo l’aromatizzazione, cosa rimane in una Blanche? Vediamo di capirlo…
La Wit appare di colore dorato opaco con riflessi arancio e una corretta opalescenza. La schiuma è fantastica: cremosa, marmorea, di ottima fattura. Al naso emergono distintamente cereali e crosta di pane, oltre a una nota agrumata che si accompagna a un tocco dolciastro, poco valorizzato. Più in lontananza si percepisce una sfumatura acidula, tipica dello stile. Il corpo è spesso – fin troppo per una birra che dovrebbe essere innanzitutto dissetante – mentre a livello aromatico c’è una certa coerenza con l’olfatto: cereali e agrumi, con questi ultimi che permangono fino alla chiusura, fresca, acidula e rinfrescante. Le distintive note speziate sono quasi totalmente assenti e riconducibili esclusivamente all’impiego del lievito.
La Wit è senza dubbio una birra costruita molto bene, ma che – perdonatemi l’espressione – manca di sincerità . È una Blanche a metà , che incarna solo in parte il modello di riferimento e sembra procedere col freno a mano tirato. Curiosa la scelta di non aggiungere le spezie tipiche dello stile, aspetto che chiaramente si riflette pesantemente a livello organolettico e che forse deriva dalla volontà di uscire con un prodotto non troppo sconvolgente per i palati ammaestrati dei consumatori di birra industriale.
In definitiva l’assaggio dei tre prodotti Theresianer è stato molto interessante. Le birre appaiono pulite e prive di difetti, con caratteristiche positive e alcune lacune. Nel caso di quest’ultime è difficile non associare il problema a scelte di tipo produttivo/commerciale, che tendono a “edulcorare” lo stile di riferimento pur mantenendosi lontani dagli standard dell’industria. Ma il rischio è di porporre prodotti che non sono né carne né pesce, almeno per chi ha un palato più allenato. Per tutti gli altri queste Theresianer possono invece rappresentare le perfette gateway beer. In un caso poi, quello della Premium Pils, siamo anche al cospetto di un prodotto che personalmente acquisterei a fronte di un prezzo adeguato – che non conosco ma che immagino inferiore alla media delle birre artigianali italiane.
In ogni caso gli assaggi hanno una volta di più rinforzato il mistero Theresianer. Di fronte alla varietà della gamma, agli ettolitri annui prodotti (saliti nel frattempo a quasi 30.000, sebbene la Guida di Slow Food ne conti circa 10.000 in meno) e alla resa organolettica delle sue birre, rimane difficile assimilare Theresianer a marchi della stessa fascia di mercato, come Poretti, Menabrea, Castello o Pedavena. Qui siamo al cospetto di un produttore che, al netto delle tecniche produttive impiegate, è difficile considerare industriale a tutti gli effetti. E gli assaggi confermano che tra i due mondi siamo decisamente più vicini al quello della birra artigianale.
Dunque bisogna considerare Theresianer il più piccolo birrificio tra gli industriali o il più grande tra gli artigianali? Voi cosa ne pensate?
Se volete leggere altre considerazioni sugli assaggi vi rimando ai siti di Una birra al giorno e Berebirra.
assaggiata pure io la pils e la ipa e a differenza di voi non la wit ma la vienna lager e la strong ale…..confermo i giudizi sulla pils che non mi sembra poi così lontana da tante pils del mercato artigianali fatte così così e confermo che la ipa è una mezza delusione: troppo frenata sia al naso che in bocca, non direi disarmonica ma sicuramente senza carattere. Sulla strong ale esprimo il mio voto peggiore: mi ha fatto pensare molto a birre stile tennent’s, du demon o la agghiacciante dragon….alcohol e ferro a manetta, e poco altro. La vienna lager mi è parsa la migliore di tutta la combriccola, dimostrandosi abbastanza fedele allo stile madre. Ero curioso di provare la coffee stout, ma non abbastanza da spenderci da solo i soldi di una 0.75