Le Italian Grape Ale sono figlie di una terra antica e di un’idea nuova. Nascono dal matrimonio, non sempre pacifico, tra malto e mosto, tra birra e vino, tra due mondi che per secoli si sono ignorati a vicenda e adesso si cercano con desiderio, curiosità, a volte diffidenza. Non esistono due IGA uguali: ogni birrificio interpreta la ricetta a modo suo, ogni vitigno porta con sé la propria memoria, il proprio terroir, le proprie cicatrici. È uno stile irrequieto, in continua ridefinizione. Ma anche profondamente italiano per natura. Dentro una IGA ci sono le colline dell’Appennino e le spiagge dell’Adriatico, le mani callose dei viticoltori e le intuizioni dei birrai che hanno imparato a convivere con l’imprevedibilità. È una birra che vive di contaminazione, ma non perde mai il senso delle origini.
Proprio come certe canzoni folk che sanno essere moderne senza rinnegare la polvere. Che partono da un tamburo battente e arrivano a parlare del presente, con voce ruvida ma sincera. È una musica che tiene insieme il vento e il calore, il ballo e il silenzio. È un linguaggio che, come la birra, si evolve ad ogni fermentazione.
Una musica che parla la lingua della terra
Il folk mediterraneo contemporaneo condivide con le IGA un’identità porosa, fatta di sovrapposizioni, ritorni, sconfinamenti. È una musica che non ha paura di cambiare pelle, ma resta fedele alla propria anima: strumenti acustici, dialetti che si intrecciano all’italiano, ritmi che vengono da lontano ma sanno stare nel qui e ora. C’è la pizzica e la taranta, ma anche l’elettronica, le chitarre, le voci femminili che sembrano uscite da un’antica leggenda e le percussioni che fanno vibrare la terra.
Le Italian Grape Ale sono così: capaci di raccontare un territorio anche quando scelgono strade nuove. Possono essere chiare, scure, sour, secche o morbide, leggere o strutturate. Ma in tutte, se ascolti bene, c’è un filo che tiene insieme il frutto e la terra, la freschezza e la memoria. Sono birre che parlano una lingua materica. Che sporcano le mani. Che raccontano la vendemmia e la fermentazione come fossero ballate popolari. Ogni sorso è una nota stonata e insieme perfetta, come certe armonie vocali a più voci, che non si studiano ma si imparano vivendo.
Ecco allora cinque brani che ne raccolgono lo spirito, tra pizzica, archi, elettronica sottopelle e voci che sanno di legno e vento.
Canzoniere Grecanico Salentino – Nu te fermare
Una corsa ostinata tra tamburi e violini, che parte dal Salento e arriva ovunque. Come certe IGA vinose e asciutte, che sanno tenere il ritmo senza perdere profondità. È una canzone che pulsa, che non si ferma, che ti trascina come fa l’uva bianca in fermentazione, quando sprigiona tutto il suo lato aromatico. In levare, ma con il cuore che batte forte. Dentro ci sentite il Sud, ma anche l’urgenza del presente. È il tipo di birra che non avete il tempo di analizzare: la bevete, vi coinvolge, vi sporca il palato e poi svanisce, lasciandovi addosso un’energia sporca ma viva.
Officina Zoè – Santu Paulu
Qui la voce si fa rito, la musica si fa sudore. È un brano ipnotico, tribale, che parla direttamente al corpo. Come una IGA rossa, intensa, in cui il mosto da uve nere spinge verso sentori di frutta rossa, spezie, terra umida. Non è una birra per dissetarsi, è una birra per radicarsi. Per ricordare. È la bevuta lenta e profonda, quella che fate seduti, con un piatto robusto e una storia lunga da raccontare. Vi rimane in bocca come un canto arcaico che non volete smettere di masticare.
Frida Bollani Magoni – Caruso (cover live)
Una voce giovane, che trasforma Caruso in un respiro intimo. È una versione che non cerca l’enfasi, ma la verità del momento: il tremore delle corde, il silenzio che resta tra una nota e l’altra. Così sono certe Italian Grape Ale nate dall’incontro tra sensibilità nuove e memoria antica. Birre che sanno raccontare l’Italia senza proclami ma con la grazia del dettaglio. L’uva diventa eco, il malto una carezza. È una IGA che parla piano ma arriva lontano, come la voce di Frida che reinventa Dalla con rispetto e libertà. Una birra da ascoltare, più che da bere, mentre il mondo fuori rallenta e tutto trova la sua giusta distanza.
Agricantus – Hala Hala
Un ponte tra Sicilia e Africa, tra strumenti elettronici e tamburi a cornice. Il vino incontra il deserto, la birra guarda verso sud. Hala Hala è viaggio, è confine, è identità che si muove. Come quelle IGA con fermentazioni spontanee o in anfora, che sembrano raccontare una storia vecchia di millenni, ma hanno il passo del presente. È la birra delle scelte coraggiose: magari vi spiazza al primo sorso, ma poi vi racconta il Mediterraneo con una mappa che nessuno aveva mai mostrato. È il sorso che vi cambia la rotta.
Cristina Donà – Universo
Una ballata sospesa, piena di cielo e nostalgia. Perfetta per una IGA delicata, da uve a bacca bianca, magari fermentata con lieviti neutri per lasciare spazio al frutto. È una birra da bere piano, come una canzone da ascoltare in silenzio. Qui la contaminazione diventa armonia, e l’esperimento si trasforma in poesia. Nel finale lascia una scia lunga, fresca e malinconica. Come certe giornate di settembre, dove si sente ancora l’estate ma l’autunno bussa già.
L’identità che sa trasformarsi
Le Italian Grape Ale sono lo specchio di un Paese che cambia rimanendo se stesso. Sono lo stile più giovane e più incerto del panorama brassicolo italiano, ma anche quello che meglio rappresenta la nostra capacità di mescolare, integrare, improvvisare. Come la musica folk di oggi, che non si vergogna delle radici ma non si lascia intrappolare da esse.
Sono birre che richiedono ascolto. Che mettono insieme mondi diversi senza appiattirli. Ogni sorso è un piccolo dialogo tra fermentazioni, tra visioni, tra memorie. Non sempre riesce, non sempre convince. Ma quando accade, lascia il segno. Perché in fondo, come nella musica, anche nella birra l’identità non è una fotografia. È una fermentazione continua.







