Da alcuni mesi nel Regno Unito è in atto una preoccupante crisi dei birrifici artigianali. Ne scrivemmo a fine 2022, quando il celebre marchio Wild Beer Co. annunciò di essere entrato in regime di amministrazione controllata. In quell’occasione citammo altri tre nomi che negli stessi giorni chiusero o dichiararono di affrontare gravi difficoltà economiche, dimostrando come il fenomeno coinvolgesse diverse aziende. Un publican di Westbury arrivò a pubblicare una lista di tutti i birrifici chiusi, venduti o sull’orlo del fallimento: il bilancio finale, che oggi andrebbe quasi sicuramente aggiornato, contava la bellezza di 63 produttori. Un numero enorme, che restituiva il senso delle dimensioni di una tendenza difficile da invertire senza supporti esterni. Leggendo quelle cifre spaventose, la domanda di tutti noi fu immediata: quante possibilità ci sono che la stessa crisi coinvolga anche la birra artigianale italiana? Un dubbio più che lecito.
In Italia negli ultimissimi anni hanno chiuso diversi birrifici, coinvolgendo talvolta nomi importanti e storici. Le vicende più roboanti sono quelle relative a Bi-Du ed Elav: il primo, tra i pionieri del settore in Italia, annunciò la fine della sua avventura lo scorso ottobre; il secondo, protagonista di una lenta ma costante crescita negli anni, ha dichiarato la sua chiusura solo qualche settimana fa. In entrambi i casi i motivi sono stati di ragione economica, derivanti ovviamente dalle difficoltà incontrate nell’ultimo periodo, funestato prima dalla pandemia e poi dall’aumento dei prezzi derivanti dalle conseguenze dell’invasione russa in Ucraina. Periodo che però – ed è bene precisarlo – ha probabilmente acuito problemi già presenti nella gestione aziendale, accelerando un processo che sarebbe risultato comunque irreversibile, o comunque evitabile solo con pesanti sacrifici. Bi-Du ed Elav rappresentano solo i due esempi più clamorosi di recenti chiusure, ma non sono gli unici, perché la tempesta degli ultimi anni ha investito altre realtà della birra artigianale italiana.
Tuttavia, benché sia impossibile avere una visione chiara della situazione in assenza di dati ufficiali, l’impressione è che siamo ben lontani dalla vera e propria crisi in atto in Regno Unito. È vero che negli ultimi tempi si sono moltiplicati gli annunci di interi impianti produttivi in vendita, ma in diversi casi hanno riguardato birrifici interessati a effettuare un upgrade. Negli altri, quelli determinati dall’effettiva dismissione dell’attività, le realtà coinvolte erano piccolissime e verosimilmente destinate, prima o poi, a soccombere. Pandemia e guerra in Ucraina hanno sicuramente provocato qualche chiusura tra i birrifici italiani, ma è un effetto quasi fisiologico – purtroppo, aggiungeremmo – piuttosto che un fenomeno di dimensioni ragguardevoli come quello che sta sperimentando il Regno Unito. Negli altri paesi europei, in effetti, non si hanno notizie di trend così evidenti, sebbene ovviamente le difficoltà siano innegabili.
Oltre alla pandemia e al conflitto in Ucraina c’è infatti un altro fattore determinante per la situazione della Gran Bretagna: la Brexit. La scelta del Regno Unito di uscire dall’Unione Europea sta avendo ripercussioni pesantissime per l’economica locale, come ormai confermano anche i dati del governo centrale. L’ultima analisi è quella pubblicata qualche ora fa dall’Office for budget responsability, un ente indipendente del Ministero del Tesoro, che sottolinea come quella britannica sia l’unica economia tra quelle sviluppate a non aver recuperato la crescita pre Covid. I motivi sono i tre citati poco sopra, ma in particolare la Brexit avrebbe un peso non indifferente, con una riduzione diretta dell’economia del paese pari al 4%. Insomma, con la scelta di uscire dall’Europa il Regno Unito si è ritrovato indebolito e particolarmente fragile di fronte ai problemi sopraggiunti nel periodo immediatamente successivo, quando sono subentrati altri fattori a destabilizzare le attività produttive e i dati economici della nazione. Una conclusione che realizza pienamente le nefaste previsioni lanciate dai protagonisti del settore dopo i risultati del famigerato referendum popolare britannico.
La crisi della birra artigianale britannica è dunque solo un piccolo aspetto di una crisi economica più ampia, che riguarda l’intero Regno Unito. A rendere questa situazione profondamente diversa dal resto dei paesi europei c’è dunque un motivo in più rispetto a quelli sperimentati da tutti negli ultimi anni: la Brexit, che a posteriori (almeno nel medio periodo) si sta rivelando disastrosa. Questa considerazione dovrebbe lasciarci moderatamente tranquilli rispetto al contesto italiano, ma come ulteriore sostegno si possono considerare le differenze tra le due realtà brassicole, nel bene e nel male. Il segmento artigianale italiano è composto da tante aziende piccole e piccolissime, che, in virtù della propria configurazione, possono adattarsi agilmente agli stravolgimenti socio-economici, trovando soluzioni efficaci per limitare (per quanto possibile) gli effetti negativi, anche con l’aiuto dello Stato – sembra strano affermarlo, ma recentemente in Italia è accaduto proprio questo. I birrifici britannici sono in media più grandi, più esposti e meno “scalabili“, più suscettibili ai mutamenti esterni, soprattutto se repentini. Se in queste condizioni è già difficile contrastare gli effetti di due piaghe bibliche come il Covid e l’aumento indiscriminato dei prezzi, figuriamoci cosa significa aggiungere a questo contesto anche le ripercussioni della Brexit. In definitiva il Regno Unito al momento rappresenta un caso unico a livello mondiale, con tutto ciò che ne consegue.
[…] né Black Sheep né il Camra citano espressamente tra le cause dei problemi la Brexit, che invece, come abbiamo visto in passato, è forse il grattacapo peggiore per il settore birrario del Regno Unito. La speranza è che […]