Una delle tante meraviglie del Lambic, forse la più sorprendente, è di possedere due attitudini: è una tipologia di birra definita, ma può dare vita anche ad altri stili; basta a se stesso, ma è in grado di rigenerarsi mescolandosi. Infatti, l’unione di più Lambic, frutto di un fine lavoro artigiano e quasi artistico, genera la Geuze (o Gueuze, il Belgio è un paese bilingue). Quando non si conosceva la chimica e non esistevano le attuali tecnologie, l’unico modo per dare costanza gustativa a una bevanda era miscelare: le sapienti mani di intelletti artieri permettevano così di superare la degenarazione ineluttabile che imponeva il trascorrere del tempo, creando prodotti nuovi. Nell’assemblaggio, l’elemento giovane ravviva la forza del liquido odoroso, gli dà fulgore, mentre quello vecchio conferisce profondità gustativa, dimensione, saggezza, etereità.
Si tratta dell’arte di mettere assieme componenti diverse al fine di ottenere un risultato migliore delle parti costitutive originarie, là dove l’insieme è più importante della somma delle parti.
Si tratta di un atto creativo, quindi in un qualche modo, e in via teorica, di un atto sessuale. Quando un’energia emissiva si fonde con un’energia ricettiva, nasce una terza energia, nuova e più complessa, è quello che nella musica si chiama accordo. I diversi risultati dipendono esclusivamente dalla qualità del sentimento col quale si crea.
Silvano Samaroli scriveva queste parole perfette nel suo (consigliatissimo) testamento intellettuale, Whisky eretico, e io non saprei sceglierne di migliori per parlare del blending, che la geuze condivide con alcolici nobili quali champagne e whiskey, appunto.
Il ruolo del blender è così importante che non a caso è l’unica tipologia codificata di birre in cui si può essere guezerie senza produrre mosto, ma acquistandolo (di un giorno) e facendolo fermentare nella propria cantina per poi assemblarlo. Infatti, bisogna essere bravi a seguire l’evoluzione del Lambic e di tutto il microbioma che lo abita e lo caratterizza, sempre diverso in base alle condizioni pedoclimatiche, alla stagione, all’ambiente di fermentazione, al caso. Bisogna osservare le botti e la loro tenuta, praticare correttamente l’ouillage, saper interpretare il Lambic, capire con quale altro accoppiarlo assaggiando, proiettando, intuendo esiti.
Nel lontano 2007, dopo un corso di avvicinamento alla birra (tenuto da Leonardo Di Vincenzo), mi appassionai e cominciai a frequentare i primi locali specializzati, in una Roma che aveva tanta sete di birre buone e “nuove”. Dai più esperti sentivo parlare di birre a fermentazione spontanea e così volli provare. Assaggiai la prima Geuze (di Boon) e fu un disastro: ricordo che chiesi al cameriere se fosse andata a male! Sorrido a ripensarci, non ero pronto. Ma durante i giorni successivi, mi accorsi che più assaggiavo altre birre e più la prendevo a confronto, bevevo e non riuscivo a non pensarci: era come con i film di David Cronenbergh, che spesso lasciano interdetti, ma il cui ricordo non ti lascia, permettendoti lentamente di venire a capo dei meccanismi che li governano.
Diventò presto una delle mie birre preferite, uno dei motivi migliori per andare in Belgio. Dove appresi che sul nome, come per il Lambic, non ci sono certezze. Gueux in francese significa “pezzente, popolano, popolare”, probabilmente indicava, ironicamente, la bevanda più nobile che potevano permettersi i contadini.
Il regolamento UE 2082 del 1992, che l’ha inserita nel registro delle DOP europee, definisce la Oude/Vieille G(u)euze:
Una birra acida tradizionale con profilo aromatico tipico di una maturazione in cui la componente microbica determinante è costituita dal genere Brettanomyces bruxellensis e/o lambicus; è inoltre normalmente caratterizzata da una O.G. di 12.7° Plato, un pH massimo di 3.8, una colorazione massima di 25 EBC e un amaro massimo di 20 I.B.U. Si ottiene tagliando almeno due Lambic il cui invecchiamento medio ponderato è superiore o uguale a 1 anno e la cui componente più vecchia è maturata almeno 3 anni in barili di legno.
La parola Oude/Vieille, letteralmente vecchio, sta per “vecchia maniera”, à l’ancienne, ed è certezza di autenticità: solo Cantillon non lo scrive, ma per polemica.
La ricchezza del Lambic (e dunque della Geuze) sta in una fase fermentativa molto ricca e articolata, che si conclude con il caratterizzante protagonismo dei Brettanomyces: lieviti resilienti, con sbalorditive capacità adattive, che donano le note vinose, di cantina, animali, ematiche e la grande secchezza finale.
La casistica di taglio più frequente è 70% Lambic di un anno e 30% di tre anni. La birra rifermenta in bottiglia, rimanendo (orizzontale) a contatto coi lieviti per 5-6 mesi: un passaggio così essenziale che, probabilmente, tecnica e diffusione della Geuze si perfezionarono proprio quando arrivarono le prime bottiglie in vetro affidabili (a metà ‘800). Questa tecnica, usata per formare la spuma e aumentare la durabilità, assieme all’acidità, alla discreta dose alcolica e all’assenza di componenti facilmente degradabili, rendevano la Geuze eccellente per l’esportazione. E la rendono tutt’ora una grande birra da invecchiamento.
Si capisce perché, che piaccia o no, questa creatura brassicola sia un margine di controllo, un punto di riferimento necessario in un apprendimento costruito su metafore e associazioni. E anche perché possiamo onestamente giustificare un prezzo di uscita mediamente più elevato rispetto a tutte le altre birre.
Sull’approccio degustativo, sono molti i punti in comune col Lambic (al naso: aceto di vino bianco, lattico, fieno, solforoso, citrico, ossidato, sidro, legno umido, muffe da formaggio erborinato, afrori animali, carte da gioco vecchie al naso), ma anche delle evidenti differenze: maggiore complessità, secchezza, profondità gustativa, intensità (del resto, “una vera Geuze deve puzzare”), un evidente senso di armonia tra le componenti gustative e la carbonica che diventa un fattore. La quale, invecchiando, si perde di nuovo, progressivamente, mentre si generano note di zafferano, mandorle, sherry.
Un altro bere, un altro capitolo. Che magari racconteremo in un’altra occasione.