Come promesso, oggi Cronache di Birra torna operativo al 100% dopo il lungo silenzio dovuto al mio viaggio di nozze. Viaggio che, se avete seguito i canali social del blog, saprete essersi svolto in lungo e largo per l’Australia, permettendomi di entrare in contatto con una realtà birraria lontana dalla nostra, ma solo in termini di distanza geografica. E sì, perché da tutti gli altri punti di vista ricorda le nazioni che si sono affacciate in tempi recenti nel mondo della birra artigianale: tanto fermento, un gran numero di microbirrifici operanti sul territorio e non poche contraddizioni. Probabilmente vorrete sapere dove e cosa bere in Australia, ma affronterò questo argomento nei prossimi giorni. Per iniziare mi sembra più interessante e propedeutico raccontarvi la mia visione della scena brassicola locale, che non è poi così distante da quella che riportò Antonio Nicoletti qui sul sito in una serie di articoli risalenti a maggio 2015.
L’approccio iniziale: entusiasmo alle stelle
Per un appassionato il primo impatto con la realtà birraria australiana non può che essere entusiasmante. Ci vogliono poche ore per capire che la birra craft è un prodotto estremamente diffuso e facilmente reperibile, con una varietà molto ampia di produzioni. La presenza di microbirrifici è una costante ovunque, sia nelle grandi città che nei piccoli villaggi: non è raro imbattersi in cartelli segnaletici con sopra impressa una freccia e la parola “microbrewery”. Una tale abbondanza è chiaramente la risposta all’interesse dei consumatori per le birre locali, che spesso vengono preferite ai prodotti della grande industria anche da bevitori non particolarmente smaliziati. È chiaro che la birra è la bevanda di tutti i giorni – elemento sul quale torneremo – così come accade nel Regno Unito o negli USA, due nazioni alle quali l’Australia appare profondamente legata negli usi e nelle abitudini.
Dunque è tutto rose e fiori? Ebbene no. Bastano un paio di giorni per capire che in realtà l’Australia brassicola è minata da alcuni gravi problemi, in grado di spegnere i facili entusiasmi a favore di un’analisi più cauta e obiettiva. Gli scogli principali sono essenzialmente due: la deludente qualità media delle birre e la presenza soffocante dell’industria.
Le birre di qualità eccelsa sono una rarità
Di fronte all’abbondanza di offerta che vi ho raccontato, è facile lanciarsi subito in una serie di assaggi lungo le strade dell’Australia. Il risultato però spesso disattende le migliori aspettative: le birre prodotte dai microbirrifici locali sono generalmente al limite della sufficienza, con picchi positivi riscontrabili solo in pochissimi casi. Come accade anche in altre realtà, il servizio nei locali è a dir poco superficiale, ma il problema risiede altrove: sono le birre a risultare spesso imperfette e anonime, ben lontane dagli standard di altre nazioni birrarie. Ammetto che prima di partire ero stato messo in guardia su questo limite, ma sperimentarlo di persona mi ha lasciato comunque un certo amaro in bocca, soprattutto di fronte alle potenzialità del paese.
Appare quasi paradossale che ciò accada in una nazione in cui la birra è tanto diffusa – l’Australia è nel giro della top 10 al mondo per consumi pro capite – ma probabilmente non è così. Anzi proprio l’ampio consumo di birra, legato a una scena brassicola abbastanza giovane, permette ai birrifici di andare avanti senza che i bevitori si facciano particolari domande sulla qualità delle birre che acquistano. Ciò che si considera scontato difficilmente solleva particolari riflessioni, almeno da parte della clientela generalista.
La confusione tra crafty e craft
Nel 2012 riportai su Cronache di Birra la preoccupante analisi che fece Charlie Papazian del movimento brassicolo australiano, dove era in atto una decisa invasione dell’industria tramite l’acquisizione di una miriade di microbirrifici. L’esperto americano aveva previsto che di lì a poco solo il 15% della birra artigianale sarebbe rimasta in mano a produttori indipendenti, definendo una situazione senza molti paragoni nel resto del mondo. Ora non so se i dati sono effettivamente quelli, ma è evidente che da questo punto di vista la scena australiana è piuttosto complessa: i prodotti crafty si trovano dappertutto e in poco tempo ci si rende conto che è difficile orientarsi tra birre autenticamente artigianali e mere “imitazioni”.
Risale all’epoca dell’articolo di Papazian l’acquisizione di Little Creatures da parte di Lion, che successivamente ha anche ottenuto il controllo di White Rabbit. Ebbene non è difficile trovare questi marchi un po’ ovunque: non solo in pub e locali, ma anche in ristoranti, supermarket, chioschi e via dicendo. Ma ovviamente i marchi crafty non si limitano solo a questi due nomi: ce ne sono decine e decine, che trovano posto sugli scaffali o negli impianti di spillatura accanto alle vere artigianali. Distinguere le une dalle altre è un esercizio tutt’altro che semplice e le soluzioni sono due: affidarsi a Internet (quando è facile rintracciare informazioni al riguardo) o più facilmente scegliere i posti che trattano solo birra craft, ma sono rari.
Di seguito trovate un’immagine che riassume abbastanza bene il discorso. Nell’ascensore di uno degli alberghi in cui ho soggiornato era presente questa locandina, che pubblicizzava una fantastica degustazione di sole birre crafty (oltre alla Guinness). Facile rimanere confusi da un messaggio del genere e pensare di trovarsi al cospetto di produzioni realmente artigianali.
In definitiva
Per concludere la birra artigianale in Australia è in grado di regalare molte sorprese, sia positive che negative. Il bello è che sicuramente è una nazione birraria come ce ne sono poche al mondo, che va però approcciata ben consci dei limiti attualmente presenti nel suo movimento. Ciononostante, i luoghi in cui trovare ottime birre indipendenti non sono pochi e avrò modo di presentarveli nel corso della settimana.