La premessa è la seguente: in un contesto competitivo come quello attuale, in cui le aziende sono sempre di più e i prodotti sempre più simili, una delle poche leve strategiche in mano alle aziende è proprio il brand (la marca), cioè quell’insieme di elementi tangibili (logo, colori, simboli, suoni) e intangibili (storia aziendale, reputazione, tradizione di quell’azienda nel settore, ecc.) che rendono i prodotti unici nella mente dei consumatori e permettono quindi di differenziarli da quelli dei concorrenti. Non esiste un’unica strategia di brand vincente, ma ci sono dei trend sicuramente molto interessanti che negli ultimi anni molte aziende hanno saputo intercettare. Ad esempio sempre più persone non accettano più rapporti verticali azienda-consumatore, ma reclamano un rapporto orizzontale, privilegiano un’azienda che non impone il proprio prodotto ma che è al fianco del consumatore, lo consulta e sviluppa insieme ad esso. In questo contesto l’azienda deve essere in grado di assegnare al proprio brand dei valori finali, degli obiettivi, anche dei veri e propri “caratteri umani” e fare in modo che con le proprie azioni tali valori, obiettivi, caratteri vengano non solo percepiti dai consumatori, ma che questi ci si possano totalmente immedesimare e diventare così una sorta di “tifosi” di quel brand. Sempre più aziende scelgono di perseguire dei veri obiettivi sociali con i loro brand e il prodotto diventa lo strumento per perseguire tali obiettivi.
Lo scenario iniziale – breve storia della nascita di Brewdog
Quanto scritto fino ad ora è ancora più significativo per il settore della birra, un settore dove la brand equity (valore della marca) è un asset più che strategico per le aziende. Ma esistono esempi concreti e soprattutto ne esistono nel mondo della birra artigianale? Ovviamente sì e non sono pochi. Un caso esemplare è quello del birrificio scozzese Brewdog, forse l’esempio di sviluppo più rapido che ha conosciuto l’industria della birra negli ultimi decenni. Anche Brewdog, come tante aziende di successo degli ultimi decenni, nasce all’interno di un piccolo garage in un paesino della Scozia, nel 2007, dall’idea di due giovani amici: James Watt e Martin Dickie.
Oggi, a distanza di 12 anni, quello che era un micro birrificio è valutato 2,2 miliardi di dollari, possiede più di 40 locali in tutto il mondo, ha impianti produttivi in UK, Germania e Stati Uniti (dove ha anche creato un albergo a tema birra) e nella sola UK ha creato lavoro per circa 1.200 persone. Ma quale è stato il segreto del suo successo? Sicuramente un buon prodotto, ma altrettanto sicuramente un curato, mirato e costante lavoro sul proprio brand e sulla comunicazione, inserendosi in un contesto competitivo che stava diventando loro favorevole e che stava completamente rivoluzionando un settore: l’ascesa dei birrifici artigianali.
Brewdog e il suo stile ribelle – l’avanzata dei Punk
Partiamo dal Punk, un genere musicale che ha scombussolato intere generazioni tra gli anni ’70 e ’80, che aveva la sua genesi in un forte cambiamento culturale: messaggi duri, a volte violenti, sonorità più aggressive e definite a volte anarchiche. Chi ascoltava punk si sentiva ribelle. Ma Punk IPA è anche il nome della birra più conosciuta e venduta del birrificio scozzese e oggi craft beer più venduta in UK. Bene, associateci anche un nome così “strong” (brewdog) e un logo altrettanto punk e capirete quale fosse la direzione comunicativa che avevano in mente i due giovani soci. Il loro storico slogan ci viene in aiuto accompagnandoci nella fase di analisi successiva: Craft beer for the people! Quindi Brewdog nasce già con un carattere ben definito: punk, ribelle, popolare. Il target quindi non poteva che essere un consumatore giovane, stanco di bere quelle birre ritenute “vecchie” e pronto per qualcosa dal carattere forte e dai sapori nuovi! Nome, logo, slogan immagine del brand erano coerenti tra loro e coerenti con il target di riferimento.
Brewdog e la nuova frontiera della comunicazione, una delle chiavi del successo
L’obiettivo che i due giovani fondatori avevano deciso di assegnare al proprio brand era chiaro: Brewdog doveva diventare l’anti birra industriale nella mente delle persone, doveva democratizzare la birra artigianale portandola nelle case di quante più persone possibili. Ma, ovviamente, i capitali e il potere comunicativo di una startup non sono paragonabili a quelli delle grandi multinazionali della birra che dettavano legge sulla comunicazione. Cosa succede però se si pensa fuori dagli schemi e si capovolge il paradigma della comunicazione classica? Dickie e Watt hanno avuto il merito di trovare delle vie comunicative nuove, quasi assurde ma con risultati incredibili. Alcuni esempi? Nel 2010 il birrificio scozzese lancia la birra The End of the History, una birra da ben 55% alc. confezionata in bottiglie di vetro all’interno di animali imbalsamati, un’assurdità. Ma questa assurdità, venduta in pochissimi esemplari in prezzi che oscillavano tra le 500 e 700 sterline non era nata per essere venduta, ma per creare “rumore” intorno al marchio. Infatti in tantissimi, soprattutto in ottica negativa, parlarono di quella trovata che James Watt definì “una audace miscela di eccentricità, arte e ribellione”.
Ma fu solo l’inizio. Nel corso degli anni i Brewdog man hanno: guidato un carro armato verso Camden High Street a Londra per lanciare una grande campagna di crowdfunding; proiettato immagini dei due soci fondatori nudi sui muri delle Houses of Parliament a Londra; prodotto una birra in fondo all’Oceano Atlantico; lanciato gatti imbalsamati da un elicottero sulla città di Londra; assunto una persona affetta da nanismo per presentare una petizione al Parlamento inglese per l’introduzione di un bicchiere da 2/3 di pinta, cioè più piccolo del bicchiere tradizionale; lanciato, in occasione del matrimonio reale del 2011, una birra dal nome Royal Virility Performance, una birra contenente al suo interno ingredienti considerati “afrodisiaci naturali”. Tutte azioni paradossali, eccessive, ma coerenti con l’immagine di brand ribelle, fuori dagli schemi che i due scozzesi volevano costruire e capaci con un costo molto basso di dare tanta visibilità a questo nuovo marchio.
Parallelamente fu intensificata la lotta al mondo della birra industriale così che Brewdog potesse diventare paladino del mondo craft e di quei consumatori che desideravano mandare in pensione il “vecchio” mondo della birra. Una delle battaglie più lunghe che ha portato avanti è stata quella con il gruppo Portman, il gruppo che vigila sull’auto-regolamentazione dell’industria delle bevande alcoliche in Gran Bretagna. Questa sfida, portata avanti con comunicati, divieti e risposte ironiche, comincia nel 2008, quando Portman segnalò negativamente l’utilizzo della frase “una birra aggressiva” sulle etichette della Punk Ipa in quanto veniva considerata come possibile istigazione alla violenza. La questione ebbe un certo risalto mediatico e Brewdog fu allora costretta a eliminare la frase dalle proprie etichette ma come risposta lanciò quasi subito una nuova birra che denominò SpeedBall, un nome che viene utilizzato per indicare un cocktail di diverse droghe, inserendo anche una frase in etichetta che descriveva la birra come un “cocktail di ingredienti attivi”. Anche questa etichetta fu immediatamente vietata, ma nel frattempo il risalto mediatico di Brewdog cresceva e iniziava a crearsi quell’immagine anti-establishment, ribelle e anarchica che tanto piaceva ad alcune fasce di consumatori.
Nel 2009 invece toccò alla nuova birra del birrificio scozzese, la Tokyo Imperial Stout (una birra da 18,2% alc.), passare dal giudizio del gruppo Portman e di alcuni tabloid che accusavano il birrificio di produrre birre troppo alcoliche. La segnalazione al gruppo Portman questa volta arrivò direttamente dalla telefonata di un consumatore che riteneva irresponsabile la scelta di questo birrificio. La birra fu così esclusa in larga parte dai bar e dai pub. Solo qualche mese dopo si scoprì che quella chiamata proveniva proprio da James Watt, cofondatore di Brewdog, il quale in questo modo era riuscito a sollevare un nuovo caso di ingiustizia, del grande contro il piccolo, del vecchio contro il giovane. Stava accrescendo e validando l’immagine di birra anti sistema agli occhi dei consumatori. Il divieto della vendita della Tokyo, scatenò un grande dibattito pubblico, con i fondatori di Brewdog che arrivarono ad avere spazio su diversi giornali nazionali e con l’opinione pubblica che discuteva animatamente. Insomma, con questo nuovo divieto il birrificio scozzese aveva ormai ottenuto risalto mediatico nazionale, ormai quasi tutti i consumatori avevano letto o ascoltato quel nome almeno una volta. Il marchio Brewdog ha affermato con le proprie azioni di marketing non convenzionale e tramite i suoi prodotti, un’identità giovane, ribelle, alla moda, a tratti anarchica, combattiva nei confronti dello status quo, della mediocrità.
Brewdog e i suoi crociati – 97.000 fedelissimi che hanno creduto e credono nei valori del marchio
James Watt scrive nel suo libro che nell’attuale economia:
Non puoi controllare il tuo marchio, ma solo influenzare le percezioni delle persone rispetto ad esso. Nell’attuale mondo digitale interconnesso, con i consumatori della Generazione Y che sono particolarmente esperti, qualsiasi cosa tu faccia è marketing. Non avere un budget per fare marketing non solo non è stato un problema, ma è stato un enorme vantaggio.
Le persone vogliono genuinità, qualità, vogliono appassionarsi, vogliono qualcosa di reale. L’unico modo, quindi, per costruire un marchio è vivere quel marchio, i suoi valori, i suoi obiettivi, lasciando poi che siano i consumatori a decidere.
Mai frasi furono più vere e rappresentano quello che Brewdog ha saputo sapientemente incarnare. Con il suo modo di fare marketing, con la sua costruzione di una vera brand identity, il birrificio scozzese è riuscito nel giro di pochi anni a creare un esercito di tifosi, non semplici consumatori, persone che sono pronte a difendere quel birrificio, che ne seguono le sorti e sono affascinate da quei valori citati in precedenza. Ed ecco perché oltre 97.000 persone, o come li definiscono da quelle parti “crusaders”, oggi detengono quote societarie dell’azienda scozzese, vendute dal birrificio in più riprese con la campagna denominata Equity For Punks, la quale, oltre a fidelizzare ulteriormente i consumatori concedendogli di diventare “soci dell’azienda”, ha permesso all’azienda di avere accesso a notevoli fondi per crescere ulteriormente.
Contare su una base di finanziatori volontari così ampia è un chiaro e univoco risultato di quanto la costruzione del proprio brand da parte del birrificio scozzese sia stata un successo e che quei valori incarnati e comunicati nei modi appena descritti siano stati percepiti da una fetta grandissima di persone. L’evidenza ci è data dalla classifica redatta da Brand Finance che pochi giorni fa (qui in pdf) ha collocato Brewdog al 19° posto tra i marchi di birra più rilevanti e ricchi al mondo, dopo alcuni grandi colossi ma prima di tanti altri, come Carlsberg. È l’unico brand craft presente in questa classifica e questo vi dà l’idea di quanto Watt e Dickie siano stati visionari. Ma nel tempo anche i punk cambiano e anche Brewdog l’ha fatto. Come? Magari lo scoprirete prossimamente
Ancora rimpiango la Punk Ipa prima ricetta, poi cambiata per fare una birra piu’ commerciale (grado alcolico più basso da 6% a 5,6%, IBU da 60 a 40, aggiunta di Caramalt) con il risultato di un prodotto completamente diverso.