Ci provo anche quest’anno. Dopo qualche riflessione ho isolato quelli che per me sono stati i trend più in evidenza durante questo anno di homebrewing. Non sono certamente gli unici, forse in alcuni casi nemmeno i più evidenti, ma in qualche modo segnano dei punti di svolta nel movimento, o confermano delle evoluzioni che si sono fatte strada nel tempo. Torniamo a parlare di isobarico, che probabilmente rappresenta la vera rivoluzione che sta contagiando il mondo dei produttori casalinghi. Impostazione estrema per alcuni, necessaria per altri, divide tra fervidi sostenitori e detrattori convinti. Il movimento sta crescendo a ritmi sostenuti; i fornitori si stanno evolvendo supportati dalla crescita, spinti da homebrewer sempre più esigenti e preparati. Emergono nuove figure di riferimento, spesso focalizzate su ambiti specifici, dando voce ad approcci vari e poliedrici. E dalla diversità, dalla pluralità di voci e di visioni, nasce l’innovazione e la conoscenza. Bene così. Ma veniamo ai nostri trend.
Contropressione/isobarico: come vivere senza
La contropressione, di cui la configurazione in isobarico rappresenta la massima declinazione tecnica, è un sistema di produzione volto a ridurre al minimo l’ingresso di aria – e quindi di ossigeno – nella birra dopo la fermentazione. Dietro questo approccio in realtà si nasconde una vera e propria filosofia di vita, una dedizione quasi totale che in alcuni casi porta la birra in secondo piano rispetto al sistema meccanico/idraulico che la tiene al riparo dal contatto con l’aria. Il discorso è piuttosto complesso e articolato, ma è innegabile che alcune birre, in particolare le luppolate o le basse fermentazioni, risentano in particolar modo del contatto con l’ossigeno che ne accorcia sensibilmente la shelf-life, ovvero il periodo di tempo che intercorre tra l’imbottigliamento (o l’infustamento) e la comparsa dei primi segni negativi dell’invecchiamento, come il cambio di colore (che si fa più scuro, a volte grigio o rosa), la perdita di aroma e in generale l’affievolirsi della vivacità organolettica.
L’attrezzatura necessaria per tenere la birra lontano dall’ossigeno fino a quando non si chiude nella bottiglia o nel fusto è in genere abbastanza costosa e può assumere diverse configurazioni: da quella più manuale e arrangiata, messa insieme con componenti rimediati, a complessi sistemi automatici che riproducono, in miniatura, veri e propri setup professionali. Questo approccio alla produzione, adottato da alcuni pionieri in Italia già da diversi anni, sta diventando sempre più diffuso tra gli homebrewer di qualsiasi livello. Negli ultimi mesi, diversi siti di rivenditori italiani hanno inserito nei loro cataloghi strumentazioni casalinghe all’avanguardia, spesso piuttosto costose, come fermentatori in grado di fermentare e tenere la birra in pressione, speciali rubinetti per imbottigliare in isobarico (ovvero mantenendo la bottiglia satura di anidride carbonica e alla stessa pressione della birra che si trova nel fermentatore) o addirittura inlattinatrici. Queste ultime, particolarmente costose ma già adocchiate da molti homebrewer, permettono di eliminare l’annoso problema dello spazio vuoto che rimane nel collo lungo e stretto della bottiglia, causa principale dell’ossidazione nel lungo periodo perché difficile da saturare con anidride carbonica.
Se il principio dietro a questo metodo è sano e permette di migliorare la qualità e soprattutto la durata nel tempo di molte tipologie di birra, può tramutarsi in un boomerang per la comunità di produttori casalinghi se diventa una barriera di ingresso per chi si vuole avvicinare a questo hobby. Ovviamente chi è a un livello avanzato sa come regolare questo approccio a seconda della birra che vuole produrre, ma il rischio è che un homebrewer alle prime armi sia portato a pensare che non si possa produrre birra di un certo livello in casa senza attrezzature costose e complesse. E questo, alla lunga, può allontanare anziché avvicinare a questo meraviglioso hobby.
New England IPA: fine di una storia d’amore?
Fino a qualche mese fa non si poteva navigare serenamente in un gruppo di homebrewer senza trovarsi di fronte all’ennesima ricetta di NEIPA. Vagonate di luppolo lanciate in pentola e nel fermentatore senza remore, filtri bloccati, travasi improbabili, birre che nel migliore dei casi duravano quattro ore dopo l’imbottigliamento prima di assumere terribili tonalità rosate o, peggio ancora, marroni come l’acqua che finisce nel tombino dopo un lungo e intenso temporale (a scuole chiuse, mi raccomando – chiama esercito!).
Si è discusso molto tra appassionati, produttori e homebrewer sul fenomeno delle NEIPA: in molti sostenevano che la passione per questo stile, diversamente dall’infatuazione temporanea per le Brut IPA o per le Black IPA, sarebbe perdurata nel tempo. In qualche modo hanno avuto ragione, visto che sono ormai diversi anni che queste birre fruttate e torbide occupano una buona fetta di mercato. È però innegabile che, almeno nella produzione casalinga, questo fenomeno abbia preso negli ultimi mesi una china discendente. L’aspetto curioso, come spesso accade nell’homebrewing, è che molti produttori si sono lanciati nella produzione di questo stile senza aver mai assaggiato un esempio commerciale ben fatto e, soprattutto, ben conservato. Se in molti criticano questo approccio alla produzione casalinga, ovvero brassare stili di cui non si è mai assaggiato un esemplare commerciale, io lo trovo un aspetto molto intrigante di questo hobby. Sicuramente non è facile immaginare una birra che non si è mai bevuta, ma seguendo le linee guida del BJCP e magari prendendo una ricetta in rete da una fonte affidabile, si può avere l’emozione di bere una Kentucky Common, una Lichtenhainer o una Catharina Sour fresca di produzione, comodamente seduti sul divano di casa propria.
Questa curiosità ha spinto molti homebrewer a sperimentare con luppolature estreme nei fermentatori casalinghi, cercando di emulare quei profili aromatici da succo di frutta tropicale di cui leggevano tanto sul web. Come tutti i fenomeni a grande diffusione, l’interesse a un certo punto è calato. Le ragioni sono diverse, ma le principali a mio avviso sono la disponibilità delle varietà di luppolo, il costo e le difficoltà produttive. A livello casalingo è difficile, se non impossibile a volte, acquistare alcune varietà di luppolo in condizioni decenti. Se si può chiudere un occhio sul costo delle luppolature estreme per soddisfare la propria curiosità e dar vita a uno, due, tre tentativi, alla lunga si inizia a guardare il portafoglio, iniziando a virare su stili più sostenibili economicamente. Ultimo, ma non meno importante, in questo caso l’utilizzo di ambienti di fermentazione e trasferimento a tenuta è piuttosto importante se non si vogliono produttore birre spente e dal colore poco invitante (leggi contropressione/isobarico).
È probabile che il rapporto tra tentativi, costo e casi di successo abbia presto scoraggiato anche gli homebrewer più entusiasti. Dal canto mio, pur non amando particolarmente questo stile, devo dire che studiare la complessità indotta dallo stress produttivo imposto da quantità e utilizzo degli ingredienti e dal mantenimento forzato della torbidità mi ha insegnato molto sulla biochimica di ingredienti e fermentazione. E quindi “long live to the NEIPAs!”.
Concorsi BJCP in aumento
Quando sono diventato giudice BJCP, ormai tre anni fa, ho trovato non poche difficoltà a “esercitare” il mio ruolo di giudice in competizioni per birre casalinghe ratificate dall’organizzazione di giudici americana. Mi sono dovuto spostare spesso all’estero (pagando ovviamente viaggio e alloggio di tasca mia, non pensate che essere giudice BJCP porti vantaggi economici) per partecipare a concorsi iscritti ufficialmente all’albo BJCP. Perché sbattersi tanto? A parte il l’occasione per fare un viaggio e conoscere realtà birrarie, soprattutto casalinghe, diverse dalla propria, partecipare a concorsi BJCP fa accumulare al giudice i cosiddetti “punti esperienza”. Senza entrare nel dettaglio del meccanismo di ranking del BJCP (qui altre informazioni), possiamo semplificare dicendo che questi punti danno la possibilità di salire di livello come giudice nell’ambito dell’organizzazione. Anche in questo caso non si ha nessun particolare vantaggio pratico né economico (può capitare di avere qualche viaggio pagato quando si arriva a livelli altissimi), ma il fatto stesso di livellare genera sempre una certa soddisfazione (oltre a migliorare la propria reputazione come giudice).
Per questa ragione mi avrebbe fatto piacere partecipare a concorsi BJCP in Italia, in posti magari più comodi e semplici da raggiungere rispetto ad altre capitali europee. Come dicevo, fino a un paio di anni fa le occasioni erano davvero rare. Quest’anno le cose sono decisamente cambiate. Partendo da MoBI, che ha ufficializzato come BJCP diverse tappe del campionato homebrewing (se non proprio tutte) . Ma non solo: ho notato che diversi piccoli concorsi, anche locali, hanno adottato l’approccio BJCP. Che può dare diversi vantaggi anche a chi organizza: da un lato con la storia dei punti è più facile attirare giudici BJCP, anche dall’estero, dall’altro si ha un minimo di screening sulla qualità stessa dei giudici. Non è ovviamente automatico che un giudice BJCP, specialmente se ai primi livelli, sia un bravo giudice, ma qualche possibilità in più rispetto a chiamare il primo sconosciuto appassionato di birra che passa di lì indubbiamente c’è. Il costo di ufficializzazione del concorso è minimo (una ventina di euro) e le scartoffie da compilare a fine concorso non sono molte. Spero che questo trend cresca ancora, perché a mio avviso aiuta molto ad aumentare la qualità media dei concorsi per produttori casalinghi.
Disponibilità dei lieviti
Ho avuto la fortuna di iniziare a fare birra in casa solo qualche anno fa, quando la disponibilità di lieviti era già abbastanza ampia. Se le case produttrici che importavano in Italia non erano moltissime, i ceppi presenti sul mercato erano comunque vari e diversi. Se si parla con qualche homebrewer di vecchia data, qualcuno che magari ha iniziato a produrre in casa 20 anni fa, ci si rende conto di quanto la scelta un tempo fosse limitata a qualche bustina di lievito secco conservata chissà per quanto tempo e in quali condizioni climatiche. Molti, in mancanza di altro, usavano addirittura lieviti per la panificazione. Dalla qualità di questi lieviti, spesso scarsa per via delle lunghe conservazioni in condizioni non ottimali, è nata la fobia dell’autolisi e la mania del travaso intermedio che, fortunatamente, oggi sembra notevolmente scemata.
Nonostante la scelta tra i vari ceppi di e produttori di lievito fosse già piuttosto ampia quando iniziai a produrre in casa 7 anni fa, in questi ultimi tempi è cresciuta esponenzialmente. Non solo sono aumenti i ceppi a disposizione degli homebrewer (basta pensare al Kveik o ai Lattobacilli selezionati per l’acidificazione veloce), a moltiplicarsi sono stati anche le aziende che li propagano e li commercializzano. Non è raro trovare negozi online con lieviti di 6-7 produttori diversi. Alcuni, come Bootleg Biology, propongono anche blend di lieviti e batteri isolati da birre di homebrewer famosi come Michael Tonsmeire, meglio noto come The Mad Fermentationist. Ultimamente ha fatto scalpore la commercializzazione, da parte dell’azienda americana Omega Yeast, del ceppo della casa utilizzato dalla farmhouse brewery lituana Jovaru Alus: un ceppo che una volta era gelosamente custodito e tramandato di generazione in generazione viene ceduto a un’azienda e commercializzato. Si perde un po’ di romanticismo, certo, ma le possibilità di scelta per chi fa birra, in casa e professionalmente, si ampliano sempre di più.
I sistemi All-In-One sempre più diffusi
Chiudiamo questa breve rassegna con la conferma di un trend che già da diversi anni imperversa tra gli homebrewer italiani e non solo: i sistemi All-In-One. Dopo un periodo di gloria per il sistema Brew In A Bag (BIAB), nato in Australia e diffusosi in breve in tutto il mondo, negli ultimi tempi si è assistito a un progressivo abbandono della “sacca” (la Bag del BIAB) a favore dei sistemi con cestello in inox chiamati anche All-In-One per via dell’utilizzo di una un’unica pentola sia per l’ammostamento che per la bollitura. La logica produttiva dei sistemi All-In-On non è molto differente da quella del BIAB, se non per il fatto che con i primi è più semplice praticare il risciacquo delle trebbie semplicemente alzando il cestello che si fissa in cima alla pentola. Inoltre, i sistemi All-In-One hanno il grande vantaggio di arrivare tra le braccia del produttore casalingo completi di resistenza elettrica per la gestione di ammostamento e bollitura, sistema automatico per il controllo della temperatura di ammostamento, pompa per il ricircolo e in alcuni casi addirittura serpentina per il raffreddamento del mosto post bollitura. Molti di questi sistemi vengono prodotti in Cina e rivenduti poi in Europa e in Italia sotto diversi marchi, il che li rende piuttosto economici. L’impostazione a singola pentola fa risparmiare spazio e tempi di pulizia, la riduzione o la totale eliminazione del risciacquo delle trebbie diminuisce il tempo da dedicare alla cotta. L’alimentazione elettrica, se da un lato limita il volume di produzione ai soliti 20 litri (a meno di non aumentare i 3KW dell’allaccio domestico), dall’altro rende questi impianti ideali per chi non ha molto spazio in casa per tenere fornelloni e bombole. Conosco moltissimi homebrewer che negli ultimi tempi hanno mollato il classico impianto a tre tini per un All-In-One, attirati dalla semplificazione del processo e dell’attrezzatura necessaria. Come biasimarli.