È noto che un paese di straordinaria tradizione vinicola come il nostro guardi alla birra con lo stesso occhio con il quale un aristocratico dell’ancien regime osservava un acquaiolo o un falegname. Eppure, data la sua molteplicità stilistica e la gradazione alcolica mediamente accessibile, la birra si può proporre sia come generosa ministra (leggasi: servitrice) del cibo che come strumento di dissetante convivialità. In questa rubrica non parleremo di superiorità di un liquido odoroso su un altro, poiché ogni bevanda ha la sua dignità e il suo momento conveniente: abbiamo, piuttosto, la disincantata volontà di essere utili alla gratificazione del palato e di costruire una sorta di laboratorio sul tema, un luogo virtuale di spunto e confronto. Con una premessa necessaria: l’abbinamento (così come la degustazione) appartiene all’affascinante e complessa categoria delle scienze inesatte, che richiede un approccio altrettanto articolato e positivo.
Questo è ben evidente quando ci rendiamo conto che una portata non ha solo un accoppiamento: l’individuazione della birra (poiché è sempre preferibile partire dal cibo) dipende dalle nostre scelte di valorizzare o contrastare tali o talaltri elementi. Il segreto di un buon abbinamento è conoscere l’obiettivo finale: vogliamo spegnere la grassezza ed enfatizzare l’aromaticità? Vogliamo valorizzare la sapidità ed ingentilire le note funky? Ecco perché questo ci proietta in un mondo ampio e composito, ma straordinariamente stuzzicante e con una molteplicità di risposte. Ed ecco perché risulta riduttivo affermare di aver pensato un abbinamento per analogia o per contrasto, perché c’è un così ampio numero di elementi quando si opera che è difficile ridurre le scelte ad una sola dimensione.
Un abbinamento perfetto è quando 1 + 1 = 3, cioè quando dalla combinazione delle sensazioni fisiche e gusto-olfattive di un cibo e di una birra il risultato è un sapore terzo che non sarebbe stato possibile riscontrare in nessuno dei due presi singolarmente, che è frutto unico ed esclusivo dell’incontro e della combinazione.
Il caldo estivo ci porta a frequentare molto di più i litorali e, quando arriva l’ora dei pasti, procedere verso cibi di mare prende la forma di un piacevole abbandono. Anche se ci rendiamo ben conto che è molto difficile trovare locali che propongano vere tipicità correttamente preparate, con una carta delle birre ben costruita e con ricarichi onesti: ma se al pub non ci accontentiamo di birre scontate e senza carattere, possiamo (o, forse, dobbiamo) anche iniziare a farlo con quello che mangiamo. Partendo dal presupposto della stagionalità e della sostenibilità, indifferibili direzioni di questa rubrica (un approccio corretto parte da qui: la stagione ci fa mangiare cose più buone, meno inquinate e più adatte al nostro organismo per fronteggiare i “pericoli” in quella determinata parte dell’anno), delle ottime indicazioni per un approccio critico e assieme appagante al cibo di mare ci arrivano ad esempio da Slow Food, con questa guida scaricabile in pdf.
Cominciamo dagli antipasti. Le ostriche appartengono ai cosiddetti frutti di mare: un’espressione poetica, che ben si attaglia a questa specie di mollusco bivalve, per la quale vale moltissimo il contesto climatico e ambientale in cui viene allevata. Si parla, infatti, di terroir o, come alcuni dicono più precisamente, meroir. La Francia vanta i mari più vocati e i migliori allevatori, ma se la cavano alla grande anche l’Irlanda e l’Italia (Sardegna, Liguria, Puglia). Il periodo migliore per gustarle è tra Settembre e Aprile e ce ne sono varie tipologie: in generale, quelle con la conchiglia concava hanno gusto più forte e ruvido, mentre quelle “piatte” sono più ricercate, costose e dal sapore più delicato. Per l’abbinamento, o si va sulla tradizione con le oyster o le dry stout, oppure sull’incontro aromatico e delle percezioni boccali: delle geuze non troppo giovani e dalla personalità gentile (Tilquin, Lindemans Cuvée Renè), ma anche una IGA come la BB9 di Barley. Quest’ultima potrebbe tornare molto utile se si decide di proseguire con una sfilata di crudi (mormora, ricciola, tonno alletterato), i quali non hanno bisogno di spiccate acidità né di gasature estreme, ma di levità, garbo e aromaticità.
Per chi invece voglia optare per una entrée più disimpegnata, come una frittura leggera di saporito pesce povero (zerro, aguglia, alici e tutti quelli adatti della mazzama), si accosti una frizzante e maltata helles, che sgrassi, vada incontro alle note sapide e non chiuda amara, oppure una delicata, fragrante e carbonata belgian ale.
A questo punto si apre un bivio quasi esistenziale: proseguire con un’italianissima pasta oppure andare su un secondo?
Nel primo caso, su un classico e inossidabile spaghetto con le vongole veraci (o, alla bisogna, con telline o lupini) una saison in stile Dupont appagherà sufficientemente, ben ripulendo il palato e opportunamente accompagnando il bagaglio gustativo di questi molluschi. Nel secondo, si può proseguire con i crostacei più blasonati, e cioè aragosta, astice e gamberi in versione nature oppure con del sashimi: questo genere di cibi di mare ha personalità, raffinatezza, una consistenza irresistibile e un variabile equilibrio tra tendenze dolci e sapidità. Le wit, resuscitato stile del Brabante fiammingo, se la intendono a meraviglia con questo genere di portate, poiché possiedono una grande disponibilità nei confronti delle pietanze e si caratterizzano per una fine aromaticità, un giusto equilibrio tra tendenze dolci e sottile acidità e sono lievemente mussanti. Se i crostacei vengono ripassati con delle salse al burro, si ha bisogno di ulteriore forza detergente e di un up-grade gustativo: e allora si scelga una kriek o una red flemish con le quali, grazie anche all’elegante bagaglio fruttato, l’incontro può essere estasiante.
Per la chiosa dolce, raccomandiamo un buon sorbetto alla wit (anche le apprezzate varianti italiane con bergamotto o chinotto) oppure alla scotch ale con una zest di sfusato amalfitano.