Da sempre le crisi portano opportunità e mutamenti. Circa un anno e mezzo fa la pandemia entrò a gamba tesa nelle nostre vite, modificando profondamente la quotidianità di ognuno di noi e la percezione stessa dell’ambiente in cui viviamo. Siamo stati costretti a cambiare abitudini consolidate nel tempo e a ripensare i meccanismi della socialità, da tutti i punti di vista. Quando ci si trova immersi in un sistema, si fatica a valutarlo in maniera obiettiva: le consuetudini sono così radicate che è semplicemente impossibile immaginare alternative. Ma quando ci si allontana, in maniera spontanea o meno, allora tutto appare più chiaro e alcuni aspetti considerati fino a prima perfettamente normali, all’improvviso si scoprono rivedibili. Qualcosa del genere sta avvenendo nel settore della birra, non a caso uno dei più colpiti dalle restrizioni di questi mesi: la ripartenza sta procedendo in modo incoraggiante, ma stanno emergendo criticità e necessità che qualche tempo fa non erano neppure immaginabili. E non è detto che sia un male.
Difficoltà nel reperire personale
In queste settimane si sta discutendo molto di un problema inaspettato e che riguarda non solo i pub, ma anche i ristoranti. Ovunque di registra una certa difficoltà nel trovare persone disponibili a lavorare nei locali, sia in sala che in cucina, al punto che questo aspetto sta causando non pochi disagi agli esercenti. Il fenomeno era completamente sconosciuto – o quasi – prima della pandemia ed è ben riassunto da un articolo di Linkiesta, che spiega così ciò che sta accadendo:
Il tema occupazionale è quello più preoccupante: i settori “alloggio e ristorazione” hanno perso 514mila posti di lavoro, mentre tra il 2013 al 2019 ne avevano creati 245mila. Ma i posti di lavoro persi non dipendono solo da chiusure e contrazioni del mercato. Nonostante i locali siano molti meno rispetto all’inizio della pandemia, c’è un calo sensibile degli addetti disponibili ad entrare o a tornare in questo mercato, che sta rendendo complesso il ritorno alla normalità per gestori e ristoratori.
E se sui social si spara a zero sul reddito di cittadinanza e si sottolineano le paghe sempre troppo basse per questo genere di professioni, i motivi che hanno condotto a questa carenza di organico sono molti di più, e molto più complessi. Connaturati al tipo di lavoro, determinati dalla situazione contingente e dalle scelte che ha portato con sé un anno e mezzo di pandemia e di ristoranti chiusi e aperti a singhiozzo.
Le cause dunque sono diverse. L’impressione è che molta gente semplicemente non voglia tornare a svolgere alcune mansioni perché non più attratta a farlo, sia per calcoli economici, sia per il venir meno di alcune necessità, sia per una valutazione “a freddo” delle condizioni legate a certi impieghi. Molte persone non sono più disponibili a sostenere turni lavorativi molto lunghi e faticosi, con orari gravosi e talvolta senza precise garanzie contrattuali. Non sono più disposte a farlo perché alcune esigenze sono scomparse – diversi giovani fuori sede sono rientrati nei luoghi di origine, dove possono seguire la didattica a distanza senza sostenere il costo di un affitto – ma anche perché hanno potuto valutare “a bocce ferme” lo stile di vita legato all’impiego nei locali.
Cambio di orari
Sembra paradossale e assurdo, ma in questi mesi diversi gestori di locali hanno imparato ad apprezzare il coprifuoco, o almeno alcuni aspetti ad esso collegati. La chiusura anticipata ha permesso a molti di loro di riappropriarsi di una dimensione più “normale” delle loro vite e a capire quanto può essere pesante tenere aperto un pub tutti i giorni fino alle 2 di notte. Probabilmente ve ne sarete accorti: dopo la destituzione del coprifuoco, non tutti i locali sono tornati agli orari del passato. Alcuni hanno preferito anticipare la chiusura (almeno nei giorni lavorativi) e semmai anticipare l’apertura, per incentivare una frequentazione “all’inglese” – quella cioè a cui siamo stati costretti per diverse settimane nell’ultimo anno.
Tra le tante realtà che hanno ripensato i propri orari c’è il birrificio Lucky Brews (sito web), che spiega così la propria decisione:
Durante questi mesi abbiamo sofferto tutti la mancanza della possibilità di poter uscire, incontrare persone, amici, cari e quant’altro. Noi come soci di Lucky Brews ci siamo anche resi conto che, dopo l’apertura con il coprifuoco, si poteva vivere benissimo senza dover necessariamente restare nei locali a bere fino a mattino; anzi, il “modello inglese”, quello di cominciare a bere prima, è proprio la soluzione giusta.
Conseguentemente abbiamo anche riflettuto sugli orari di lavoro dei ragazzi al pub. Lavorare tutti i giorni, sabato e domeniche incluse, con la chiusura alle ore 02.00, pulizia ed uscita dal pub alle 03.30 nei weekend, non permetteva a loro di poter godersi un fine serata con gli amici o con i proprio cari. Lucky ha così deciso di ridurre il proprio orario di servizio di 2 ore, anticipando l’apertura alle 17.00 con chiusura a mezzanotte tutti i giorni. Una sorta di welfare aziendale. In questo modo tutti arrivano a casa ad un orario decente e ci saranno molte più energie per lavorare meglio nei giorni successivi.
Salvo casi eccezionali, inoltre, molti gestori sottolineano il fatto che restare aperti dopo una certa ora significa confrontarsi con una clientela diversa, spesso difficile da gestire e poco interessata al prodotto in sé. In questo senso l’apertura anticipata può rappresentare un vantaggio non indifferente, poiché oltre a permettere orari più umani al personale e a eliminare problemi non secondari, richiama clienti disposti a spendere di più – in teoria saremmo già in orario aperitivo. Perché questo sia effettivamente redditizio, occorre cambiare le abitudini degli italiani: bisogna appunto promuovere una frequentazione dei locali già dal pomeriggio, abbandonando le abitudini latine a favore di quelle britanniche. Per gli stessi motivi espressi precedentemente, la pandemia ha fornito terreno fertile per un cambio di visione anche da parte dei clienti, sebbene permangano differenze sostanziali da regione a regione.
Selezione delle birre alla spina
Questa conseguenza della pandemia è meno evidente delle precedenti due e sostenuta più da vaghi indizi che da prove reali. Tuttavia merita essere presa in considerazione, perché può rappresentare l’ennesimo segnale di una profonda trasformazione in atto nel nostro ambiente. L’impressione infatti è che diversi locali abbiano deciso di ripensare la propria offerta di birre alla spina, al fine di renderla più “sostenibile” in un periodo di insicurezze e trasformazioni. Con le restrizioni agli orari e l’impossibilità di “far girare” le birre come in passato, tanti publican hanno limitato la presenza di birre estremamente luppolate, che necessitano di un consumo in tempi relativamente veloci. Non che dalle spine siano scomparse IPA e derivazioni sul tema, sia chiaro, ma la loro presenza è diventata meno dominante rispetto agli anni pre-covid.
Inoltre, se come sembra gli orari di apertura cambieranno, è presumibile che saranno favoriti gli stili più leggeri e meno impegnativi, adatti a un consumo pomeridiano piuttosto che a una bevuta serale “da movida”. La diffusione di Bitter, Keller, Mild e Pils è cominciata per un autentico interesse di alcuni birrifici nell’indagare tipologie quotidiane europee, ma non è escluso che in futuro sia favorita anche da uno spostamento dei consumi in orari anticipati. Risulterà difficile poi imbattersi ancora in locali con impianti di spillatura immensi, perché sarà più conveniente puntare su un numero limitato di spine. Anche in questo caso siamo al cospetto di un trend già iniziato negli scorsi anni, ma che l’emergenza sanitaria ha accelerato sensibilmente.
Conclusioni
Come in altri contesti, anche nell’ambiente birrario la pandemia ha favorito riflessioni profonde, che hanno messo in discussione aspetti dati per scontati. Una lettura positiva di quanto sta accadendo suggerisce che queste trasformazioni porteranno a un settore più “salutare”, grazie a condizioni lavorative (non solo per i dipendenti) più eque e sostenibili. Ma non solo, perché tali cambiamenti potrebbero consentire alla birra di diventare una bevanda sempre più quotidiana e alla portata di tutti, non costretta a un consumo monodirezionale per orari e tipologie. Come spiegato, perché ciò avvenga davvero è necessario modificare le abitudini di tante persone, ma spesso questo avviene alimentandole a monte, con scelte che fino a qualche tempo fa potevano apparire totalmente sconsiderate.