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Alla scoperta dei grandi birrai che le multinazionali ci hanno sempre nascosto

Sono davvero senza parole. È ormai evidente la truffa che le multinazionali hanno giocato ai consumatori di birra per anni, forse decenni. A lungo abbiamo immaginato i birrifici industriali come immensi laboratori, nei quali eserciti di dipendenti in camice bianco operavano meccanicamente eseguendo gli ordini degli uffici marketing e dei responsabili di produzione. E invece no, niente di tutto questo. In realtà dietro tutti i marchi industriali c’erano mastri birrai in carne e ossa, ideatori delle ricette ed esecutori delle stesse con passione e competenza. Solo che fino a oggi le multinazionali ne hanno tenute nascoste le identità, costringendoli a vivere professionalmente nell’anonimato senza poter ottenere i giusti onori. Un atteggiamento dispotico che finalmente è giunto al capolinea.

È evidente che negli ultimi tempi si è sviluppato un fronte comune con l’obiettivo di restituire dignità ai mastri birrai dei principali marchi industriali. Le multinazionali hanno combattuto queste giuste rivendicazioni solo per il timore che i personalismi togliessero visibilità ai brand, mortificando professionalità e aspirazioni personali. E impedendo che la massa conoscesse tanti eroi brassicoli, birrai della levatura di Josef  Groll e dell’ingegno di Gabriel Sedlmayr II. Ma ora per fortuna il vento sta cambiando e le stesse industrie sono costrette a raccontare la storia dei loro protagonisti. Scopriamole insieme.

Willem Van Waesberghe

Willem van Waesberghe con bottiglia H41

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In concomitanza con il lancio della sua recente H41 (una Lager realizzata con un lievito particolare), Heineken è stata costretta a svelare l’identità del suo birraio, Willem Van Waesberghe. La sua notorietà ha subito raggiunto livelli impressionanti, tanto che è diventato protagonista di uno degli spot della multinazionale olandese con Benicio Del Toro a fargli umilmente da spalla.

Così scopriamo che la birra Heineken, conosciuta da sempre in tutto il mondo per il suo eccellente livello qualitativo, è famosa per utilizzare solo 4 ingredienti (ma non c’era anche mais?). Negli altri spot della serie, l’attore portoricano ci svela che ci vogliono 15 anni per diventare mastro birraio di Heineken, mica qualche anno di homebrewing come succede oggi in Italia. E infatti indagando su Linkedin possiamo verificare come la carriera di Van Waesberghe sia rimasta fedele al marchio olandese per tantissimo tempo: iniziò ricoprendo diversi ruoli come consulente tecnologico tra il 1995 e il 2012, quindi divenne head brewer globale pur mantenendo competenze nell’ambito della ricerca. Dallo scorso anno la sua carica ha assunto la denominazione di Global Craft and Brew Master. Un curriculum eccellente, che purtroppo Heineken ha deciso di tenerci nascosto per diversi anni.

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Luigi Paciulli

luigi paciulli

Grazie alla segnalazione di Gianmichele Deiana, proprio questa mattina sono venuto a conoscenza di Luigi Pacuilli, mastro birraio di Ichnusa. La sua figura è protagonista dell’ultima campagna lanciata in concomitanza con l’apertura al pubblico della fabbrica di Assemini, accompagnata dall’hashtag #IchnusaAnimaSarda. Peccato che la stessa Ichnusa sia dal 1986 di proprietà di Heineken (quindi olandese), che come nel caso di Van Waesberghe ha ora dovuto svelare l’identità del rispettivo mastro birraio.

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Ed eccolo quindi il mitico Luigi, vestito con un classico grembiule in cuoio da artigiano mentre accarezza il suo amato malto d’orzo (ovviamente contenuto in una tipica sacca di iuta). L’ambiente è sicuramente quello associabile a un birrificio industriale: mattoni rossi a vista, legno, arredamento e macchinari risalenti al secolo scorso. Peccato che Luigi non abbia una folta barba, altrimenti l’atmosfera da hipster sarebbe perfetta. È incredibile come Ichnusa fino a oggi abbia mantenuta segreta l’identità del suo mastro birraio, anche considerando che lavora per l’azienda da più di trent’anni dopo un’esperienza come responsabile qualità per Italcementi maturata negli anni ’80.

Il nipote di Angelo Poretti

nipote-poretti

Nel 2013 il marchio di proprietà di Carlsberg ci spiegò che la ricetta della 4 luppoli nacque addirittura dal fondatore Angelo Poretti, che potevamo vedere all’opera in uno spot televisivo con immagini bianco e nero – ma probabilmente, e dico probabilmente, non originali – mentre aggiungeva il rivoluzionario quarto luppolo a fine fermentazione. Un colpo di genio che per anni Carlsberg ci ha colpevolmente tenuto nascosto.

Un più recente spot ci guida invece alla scoperta della moderna “arte del birrificio Angelo Poretti”. La telecamera segue il lavoro di quello che è presumibilmente il nipote dell’Angelone nazionale, mentre sceglie il luppolo da utilizzare per la sua ultima creazione destreggiandosi tra scaffali – sì, scaffali – di Cascade (“agrumato”), Nelson Sauvin (“fruttato”) e Saaz (“speziato”). Barba incolta, sguardo profondo e provvisto dell’immancabile grembiule, il nipote di Angelo Poretti assapora la sua 4 luppoli insieme ad amici poco convinti nella tap room del birrificio, anch’essa piena di legno e dal sapore vagamente vintage.

Voci di corridoio affermano che l’uomo sia il fratello maggiore di un altro giovane birraio, che recentemente ha acquisito una certa notorietà. Eccolo:

reasons-start-own-business

Questi dunque i profili di tre grandissimi mastri birrai della scena birraria mondiale, che le multinazionali fino a oggi hanno preferito tenere nascosti nei meandri dei loro impianti, come prigionieri politici. Per anni l’industria ci ha solo raccontato di come la loro birra si abbinasse bene solo a divertentissime feste o a coinvolgenti partite di calcio, ma ora è giunto il momento di restituire a Cesare ciò che è di Cesare. Bene così!

Nota a margine. Per chi non lo avesse capito, il post in questione è ironico e sarcastico. Le figure professionali menzionate (almeno quelle realmente esistenti 🙂 ) vantano tutte un curriculum di altissimo spessore e competenze che la maggior parte dei birrai artigianali italiani possono solo sognare. Insomma, è come avere a disposizione Cristiano Ronaldo e farlo giocare con la squadretta dell’oratorio locale 😉 .

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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9 Commenti

  1. Il punto è che ormai la comunicazione commerciale usa termini completamente al di fuori del loro significato reale.

    Mastro, tra le sue varie accezioni, significa “artigiano”. Quindi un Mastro Birraio è un artigiano dedito a produrre birra che – si immagina – dovrebbe essere buona visto che il prodotto artigianale è, per antonomasia, un prodotto di qualità (che poi in alcuni – forse troppi – casi ciò non avvenga non toglie validità all’affermazione).

    Ora ci possono venire a raccontare tutto ma che Heineken, Poretti e Ichnusa siano l’elaborazione di processi artigianali non è corretto. Qui si discute di produttori di birra: certamente in possesso di un rilevante bagaglio di nozioni tecniche, ma che sicuramente non possono definirsi “mastri birrai”.

    Poi è ovvio non puoi fare uno spot e dire che ci vogliono 15 anni per fare il produttore di birra o che si può passare alla produzione di birra dopo aver monitorato la qualità dei cementi…

    • Su questo Enrico non sono d’accordo. Il titolo di “mastro”, che tanto sentiamo decantare in Italia, in realtà spetta all’estero (in Germania, ma credo anche in altre realtà) a chi segue un percorso professionale ben preciso e molto formativo. Non c’è alcun legame con la visione dell’artigiano. In Italia viene chiamato mastro birraio chiunque abbia un birrificio, anche se non ha un minimo di conoscenze in campo chimico o biologico. Secondo me è più corretto definire “mastro” birraio il tizio di Heineken che la stragrande maggioranza dei birrai artigianali italiani.

  2. beh ma alle feste suddette io mi divertivo, e certo non pensavo alla”birra” ahah
    cmq certo, sono grandi tecnici dell’industria alimentare, forse saprebbero fare bene anche i sughi parimenti..e corretto e ovvio che in Italia la base tecnica sottostante è molto bassa spesso, in parte, sostituita da tentativi empirici ed esperienza. (i luppoli così si rovinano, lo diciamo a mastro poretti? ahah)

  3. A proposito della formazione di um birraio. A sentire certe opinioni in giro pare quasi che l’avere un curriculum “scientifico” ed ezperienze pregresse nel campo dell’industria sia addirittura discriminante, un punto in meno rispetto a chi inizia a fare il birraio dopo aver fatto l’avvocato, o l’impiegato di banca o il negoziante.

    • Sì ed è un atteggiamento decisamente ridicolo. D’altra parte spesso chi viene dall’industria ha sì delle grandi competenze, ma anche una visione ormai “inquinata” del prodotto, in senso più generale.

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