Il successo della birra artigianale in Italia non si misura solo col numero di nuovi birrifici fondati negli ultimi anni, ma anche con quelli relativi alle aperture di beershop e pub “illuminati”. I primi sono la risposta alla necessità di reperire birre in bottiglia in luoghi specializzati, sebbene le loro sembianze siano evolute nel tempo – ormai l’aggiunta di qualche spina è la prassi. I secondi invece hanno rivitalizzato il concetto di birreria, se non addirittura introdotto per la prima volta in Italia in maniera autentica, interrompendo l’egemonia ormai superata degli Irish pub. Ma al di là di questi luoghi specifici, la birra artigianale in Italia ha invaso altre realtà più trasversali, con risultati alterni. Analizziamo qualcuna.
Ristoranti
Dopo 20 anni di birra artigianale italiana possiamo tranquillamente affermare che quello con la ristorazione è un rapporto mai realmente decollato. Ed è una sentenza paradossale per almeno due aspetti: le grandi potenzialità nascoste in questo connubio e le modalità che hanno caratterizzato la nascita e l’ascesa di tanti birrifici italiani. Come scrissi a ottobre 2014, quello dei ristoranti è uno dei canali di vendita rimasti più indifferenti al boom della birra artigianale, sebbene il piacere gustativo che può derivare da validi abbinamenti sembri aprire le porte a sviluppi senza confini. Eppure questo matrimonio non s’è mai realmente realizzato, pur considerando che la visione iniziale di Teo Musso di Baladin – birrificio dal quale in seguito molti colleghi hanno tratto ispirazione – era proprio di aggredire le tavole dei ristoranti piuttosto che le spine dei pub.
Il fallimento del canale della ristorazione ha molte cause. In primis una certa ignoranza (se non addirittura strafottenza) da parte di chef e sommelier nei confronti della “sorella povera” del vino. In secondo luogo la mancanza di coraggio, che significa anche impegnarsi per tentare di cambiare le abitudini dei clienti. La terza causa è da ricercare nei prezzi, che in alcuni casi non giustificano pienamente l’alternativa al vino. Quarto motivo, infine, è la poca adattabilità di molte birre a un consumo “a tutto pasto”, almeno nella concezione più tradizionale.
Il risultato è che in Italia esistono pochissimi ristoranti che cavalcano con coscienza e passione la strada della birra artigianale. Forse avrebbe senso concentrarsi esclusivamente su tipologie birrarie molto di nicchia (acide, IGA, barricate) piuttosto che insistere nel portare a tavola “semplici” IPA o Pils. Oppure proporre modalità di consumo diverso, che prescindano dalla classica bottiglia da 75 cl. All’estero (soprattutto in USA e Belgio) si sta lavorando sodo da questo punto di vista, sarebbe un peccato non cogliere al volo l’occasione e lasciarsi sfuggire un treno che sembra perfetto per la nostra cultura gastronomica.
Bistrot e luoghi dal consumo informale
Se i ristoranti sono apparsi refrattari all’ingresso della birra artigianale, è accaduto qualcosa di profondamente diverso per luoghi dove il pasto è inteso in maniera più informale. Da molti punti di vista il fenomeno è comprensibilissimo, perché anche la birra è una bevanda diretta e priva di tante sovrastrutture, perfetta per un consumo veloce e conviviale. Così luoghi come bistrot, hamburgerie e pizzerie hanno trovato nella birra artigianale la perfetta controparte alla loro proposta gastronomica, con la possibilità di sostenere quel discorso qualitativo che ormai sembra imprescindibile per ogni nuova apertura. La rivalutazione dell’inflazionatissimo e tradizionalmente anonimo connubio tra pizza e birra è uno dei migliori effetti di questo fenomeno.
Ma c’è di più, perché il matrimonio tra birra artigianale e offerta gastronomica informale ha favorito la ridefinizione dei menu degli stessi pub. A luglio 2011 parlammo dell’ibridazione di locale birrario, sottolineando come il vecchio format con panini tristi e qualche patatina era stato ampiamente superato. E per fortuna, aggiungerei.
Enoteche
Quando in Italia i beershop erano più rari delle mosche bianche, i luoghi deputati alla vendita di birre artigianali in bottiglia erano essenzialmente le enoteche. Nonostante all’epoca la stragrande maggioranza delle bottiglie fossero nel formato da 75 cl e dalle forme ricercate, la birra ha sempre faticato a imporsi nelle enoteche, che chiaramente si focalizzano su prodotti ben diversi. Inoltre trovare vini discreti accanto a birre artigianali con prezzi simili non è mai stato un invito all’acquisto per il cliente finale. Con la nascita dei beershop, l’esperienza della birra artigianale nelle enoteche ha subito un freno determinante e sono poche quelle che ancora oggi si concentrano sulla nostra amata bevanda.
Supermercati e grande distribuzione
Praticamente da quando esiste la birra artigianale in Italia assistiamo a vari tentativi di penetrare il canale della grande distribuzione. Tentativi mai pienamente riusciti, per la verità, se consideriamo che a distanza di 20 anni il sentimento nei confronti di questo canale di vendita è di diffuso scetticismo. Al netto delle politiche di prezzo imposte ai birrifici e delle comunicazioni fuorvianti, il problema principale riguarda la conservazione, che difficilmente è eseguita con la cura e l’attenzione necessaria per prodotti molto delicati. E purtroppo tante testimonianze sembrano confermare che le bottiglie che raggiungono gli scaffali dei supermercati sono, per un motivo o per l’altro, di scarsa qualità.
Nonostante quindi negli ultimi anni la presenza di birra artigianale nella grande distribuzione sia aumentata considerevolmente, questo canale è ancora tutto da sviluppare, ammesso che mai accada. Le potenzialità anche qui sono enormi, come dimostra un mercato forte ma comunque emergente come quello degli Stati Uniti. Al momento non ci sono molti motivi per i quali il consumatore medio dovrebbe acquistare al supermercato una birra artigianale di dubbia provenienza spendendo il quadruplo rispetto a una classica Peroni.
Bar
I bar rappresentano per la società italiana – e soprattutto per alcune zone del nostro paese – ciò che i pub sono per il mondo anglosassone e i caffè per molte nazioni europee. Luogo di socialità popolare, solo apparentemente il bar può sembrare lontano dal consumo di birra artigianale. Purtroppo non ho le conoscenze per approfondire il discorso, ma esistono rari esempi – uno su tutti è il Todo Mundo di Garlasco – che dimostrano come le due realtà possano convivere con risultati molto interessanti. È forse il canale con maggiori potenzialità e contemporaneamente il meno battuto dai birrifici nostrani, senza dimenticare tuttavia le difficoltà insite in un discorso del genere.
Il fallimento dei ristoranti e il ridimensionamento dell’importanza delle enoteche sembrano suggerire che la birra può svilupparsi con successo solo in canali “informali”. In realtà se escludiamo bistrot e pizzerie, luoghi più diretti come i supermercati e i bar faticano in maniera analoga. La morale dunque è che la birra non si evolve nei canali apparentemente più adatti alla sua natura, bensì in quelli dove è garantita passione e competenza (pub e beershop, almeno sulla carta). Per sfondare in altri canali, come quello dei ristoranti, è allora fondamentale che si parti da una sana curiosità per la birra artigianale, altrimenti ogni sforzo risulterà inutile.
complimenti, ottime osservazioni…….
Grazie Filippo
Andrea, perdonami ma non capisco da dove prenda questi dati che vedono come fallimentari i canali di vendita della birra sui ristoranti ed enoteche. Se fosse come dici tu, io avrei già chiuso da tempo. E come me, tanti altri che fanno birra prevalentemente in bottiglia.
Quando ho iniziato io, le enoteche non avevano birre artigianali e proponevano solo Ichnusa come “local beer” ai turisti…pensa un po’.
Ora praticamente tutte le enoteche (almeno in Sardegna) hanno birre artigianali e fanno volumi interessanti, incentivati in questo dalla distribuzione sui ristoranti, nelle città dove hanno l’attività. Fanno un buon lavoro anche quelle che solitamente vengono chiamate enogastronomie.
Insomma, non esistono solo i pub e i beershop come canali privilegiati di vendita delle birre artigianali e la passione non è solo appannaggio dei gestori di queste attività. Ci sono tanti ristoratori di piccole ma validissime realtà che le birre artigianali le sanno proporre e vendere con discreto successo anche perché, a differenza dei pub, non ne hanno mai tantissime in carta, quindi spesso e volentieri, conoscono bene le etichette che mettono in vendita.
Nicola non esistono dati ovviamente, ma solo considerazioni generali. Sui ristoranti non sono l’unico a vedere potenzialità inespresse. Forse il termine fallimento è esagerato, ma se consideriamo da dove siamo partiti, il modo in cui molti birrifici hanno impostato la loro immagine e la predisposizione della cultura gastronomica nazionale, tutti 15 o 10 anni fa avrebbero scommesso su un’evoluzione ben diversa del connubio tra birra e ristorazione.
Per quella che è la mia esperienza, laddove i beershop si sono diffusi, le enoteche sono state soppiantate come canale per l’acquisto di birra in bottiglia. Questo non toglie che molte lavorano bene tuttora, specialmente dove non esistono tipologie alternative.
Le enoteche hanno i loro canali di vendita ai ristoranti ben consolidati, se operano da tempo. Per cui sono un ottimo volano di vendita anche di birre. I beershop essendo aperti da pochi anni, non hanno una distribuzione così consolidata, tranne ovviamente alcuni (pochi) esempi di spicco.
È proprio grazie ai ristoratori ed ai loro feedback sulle birre che ho notato, ad es. che molta gente beve birra perché non tollera i solfiti. Ed ecco che le birre sono un ottimo escamotage a pasto. Oppure, pensa all’estate dove a pranzo in un ristorante , col caldo che ti assale, non riesci a bere un vino bianco da 13º-14º e la birra di qualità impreziosisce il pasto senza farti sudare. Ho clienti che fanno la stagione che nel loro ristorante fanno fuori volumi interessanti di birra. Era inevitabile che le birre artigianali creassero nuove opportunità d’acquisto e quindi nuovi canali di vendita per i produttori. L’importante è la qualità costante perché in luoghi dove si corre e si fanno fatturati importanti, specie col turismo, si deve essere sempre sicuri che il prodotto messo in carta sia degno di fiducia. È su quello che bisogna puntare, altrimenti il ristoratore ti molla, da un giorno all’altro.
Ma sicuramente le possibilità potenziali sono tante, però l’impressione (ripeto, non solo mia) è che sono state sfruttate solo in minima parte. Il tuo caso Nicola è molto particolare e quindi ti ha spinto a spingere su quei canali, non potendo avvalerti di altri che lavorano soprattutto in fusto.
La mia è stata una scelta decisa ancor prima di aprire, non di certo un ripiego per il fatto che non faccio fusti.
Io non parlo per impressioni, ma per dati di fatto che vivo di persona ogni giorno da 10 anni, conti alla mano.
Una grossa parte dei miei clienti non è quella che abitualmente beve al pub, ma acquista in enoteca e beve a casa con amici. La vendita da asporto la stai parecchio sottovalutando, a mio avviso e molto spesso è rappresentata da clienti che girano poco per locali (specie pub), può spendere un po’ di più anche perché magari ha un’età lavorativa che gli dà un minimo di sicurezza economica. Stiamo parlando dei 40-50enni, non di ragazzi, che rappresentano una fetta di mercato importante che ho intercettato fin da subito, la maggior parte della quale proviene dal mondo del vino
Nicola stai facendo delle precisazioni non richieste, forse perché hai interpretato male il mio pensiero. Chiaro che la tua scelta di fare solo bottiglie è stata compiuta a monte e non è un ripiego, ma vien da sé che ti sei dovuto concentrare su determinati canali. Non sottovaluto la vendita da asporto, ho solo scritto che laddove si è verificata un’esplosione di beershop, questi sono diventati il canale primario per l’acquisto di bottiglie.
Il tuo pensiero è chiarissimo. Le precisazioni sono nate dal fatto che hai fatto delle affermazioni a mio avviso infondate (ristorazione ed enoteche come canali fallimentari…l’hai scritto tu basandoti si impressioni) e io ho dato il mio contributo (non richiesto, questo sì) al tuo post.
Avrei dovuto astenermi dal farlo? Beh, forse sì…ma tant’è
Ma perché avresti dovuto astenerti? I tuoi contributi sono sempre benvenuti e importanti.
Comunque io ho fatto affermazioni basate su impressioni, quindi sono parziali. Ma è anche parziale confutarle basandosi solo su una fattispecie, cioè la tua, rispetto a tutti i birrifici italiani 😉 Quindi ci si confronta ed è giusto così
Ok, a riprova del fatto che ciò che asserivo prima non è basato sulla mia fattispecie, ma anche su quella di molti altri che, in contemporanea e dopo di me, hanno intrapreso la stessa linea di vendita, vorrei ricordarti che da quando ho iniziato a vendere alle enoteche, queste non hanno solo le mie birre ma parecchie altre…alcune anche un centinaio di etichette. Si è creato un indotto di persone che acquistano birre in enoteca, come prima non accadeva. Non è (ormai) una rarità. E mi riferisco ad enoteche di tutta Italia, mica solo in Sardegna. Secondo la tua teoria, stanno in piedi unicamente i birrifici che campano di fusti ed io cercavo di farti capire che non è così e che non rappresento una rarità assoluta. Tutto qui
Ma dove leggi che secondo me stanno in piedi solo i birrifici che campano di fusti? Ho parlato del fenomeno dei beershop, che fino a prova contraria vendono (al 90%) in bottiglia.
Rileggi la tua ultima risposta per cortesia…
Letta, ma davvero non trovo una frase del tipo “stanno in piedi solo i birrifici che campano di fusti”
Va beh, Andrea…ho fatto una sintesi su ciò che hai scritto. Non è necessario che concordi con me. Io devo ragionare in base ai mie dati, visto che ci campo…tu puoi obiettarli e confutarli, dato che non hai un birrificio. Ad ognuno il suo
Sì certo non bisogna concordare, ma neanche mettere in bocca alle persone cose che non hanno detto (nella fattispecie che sopravvivono solo i birrifici che fanno fusti). Sul fatto che possedere un birrificio significa automaticamente saper valutare meglio il mercato rispetto a chi è semplice osservatore ho i miei dubbi, basta guardarsi intorno. Comunque bon, chiudiamola qui che tanto è una polemica sterile.
io (beer firm ) vendo prevalentemente a ristorazione , ma ho acida e farro facilmente abinabili e faccio un gran lavoro di convincimento . risultato vendo poco ma si chiacchiera molto di me
In merito ai supermercati: all’Iper di fianco al nuovo Centro Commerciale di Arese, 400 etichette (a loro dire, a me sembrano un po’ meno, ma sempre molte) tra cui Nogne, Mikkeller, Engelszell Benno, Schneider Weisse (tutti i Tap), Pelforth brune, To Ol e diverse altre.
Io, che ne ho girati un tot di beershop nella mia zona (cioè tutti i pochi che ci sono, Milano included), sono rimasto impressionato. Positivamente. Poi, quanto durerà, è un altro paio di maniche.
Ah, tutto questo non più tardi di sabato scorso.
Saludos.