La notizia che negli ultimi giorni sta tenendo banco nel settore birrario internazionale riguarda le dimissioni di James Watt da amministratore delegato di Brewdog. Ed è una notizia strana, perché se da un lato rappresenta un evento epocale per il birrificio scozzese, dall’altro ha creato molto meno scalpore di quanto ci si potesse immaginare. È come se l’ambiente si aspettasse una mossa che era nell’aria da tempo, oppure semplicemente Brewdog ha raggiunto una dimensione così grande e globale da aver annacquato qualsiasi interesse verso i suoi stessi protagonisti. Anche quando il protagonista è colui che 17 anni fa fondò l’azienda insieme al suo socio, modellandola intorno alla sua visione di mercato e portandola da uno sperduto garage della Scozia a un successo planetario. Con l’uscita di scena (invero parziale) di James Watt potremmo affermare che si apre una nuova fase della vita di Brewdog, se non fosse che una simile frase è stata ripetuta molte volte in questi anni.
Come accennato Watt non lascerà l’azienda, ma vestirà un ruolo diverso: resterà nel consiglio di amministrazione e sarà dirigente, svolgendo un’attività di consulenza strategica per il birrificio. La novità è stata annunciata da lui stesso sui social con un messaggio poco formale e molto personale:
17 anni fa, Martin e io abbiamo fondato BrewDog nel garage della mamma di Martin. Due uomini e un cane intrapresero così un’audace missione: contribuire a far appassionare altre persone alla birra di qualità come successo a noi. Non avrei mai immaginato che questo viaggio ci avrebbe portato a costruire la più importante azienda di birra artigianale del mondo, a operare in oltre 70 Paesi e ad avere la fortuna di lavorare ogni giorno con persone straordinarie.
Dopo 17 anni fantastici come CEO, ho deciso di vestire un nuovo ruolo nell’azienda, quello di “Capitano e co-fondatore”. Nel mio nuovo ruolo rimarrò membro del consiglio di amministrazione, direttore e consulente strategico dell’azienda. Inoltre, manterrò la mia partecipazione azionaria in BrewDog e la mia iniziativa Hop Stock, con la quale dono il 20% delle mie azioni BrewDog al team, rimarrà in vigore.
Nonostante le dichiarazioni, sembrerebbe che la scelta di Watt non sia arrivata in maniera spontanea, ma sotto la pressione del consiglio di amministrazione. Dietro questa decisione ci sarebbe la necessità di ripulire l’immagine di Brewdog, danneggiata in tempi recenti dalle accuse comportamento inappropriato (soprattutto nei confronti delle dipendenti donne) rivolte proprio a James Watt. Una vicenda di dimensioni ragguardevoli, sulle quali ha fatto luce persino la BBC e che ha compromesso la figura di Watt nell’ambiente.
Le dimissioni della scorsa settimana segnano dunque – almeno per il momento – il punto finale del declino di James Watt, arrivato dopo un’ascesa a dir poco arrembante. Se il successo di Brewdog è stato costruito soprattutto in termini di comunicazione e marketing, è infatti principalmente merito suo. Fu lui a intendere in maniera originale e ribelle la promozione del marchio, con scelte spregiudicate ma molto redditizie, dettate da un’indiscutibile abilità nel cavalcare i temi del momento (oppure costruendoli da zero). Se escludiamo il mercato americano, Brewdog probabilmente è stato il birrificio che meglio di qualunque altro ha saputo sfruttare la moda della birra artigianale esplosa circa quindici anni fa, ponendosi come voce nuova in un contesto statico e antiquato (quello della birra britannica) e intercettando un target di giovani bevitori europei che non aspettava altro che un marchio come Brewdog.
D’altro canto sarebbe ingeneroso ridurre tutto all’equazione Brewdog = James Watt. Come ha ricordato recentemente Pete Brown sul Morning Advertiser, il birrificio scozzese in origine salì all’onore delle cronache per la qualità delle sue birre piuttosto che per le sue trovate a livello comunicativo. Il birrificio fu fondato nel 2007 e per i primi anni colpì esclusivamente per i suoi prodotti, molto convincenti. Su Cronache di Birra scrivemmo di questo aspetto già nel 2015 e Pete Brown ha sottolineato nel suo pezzo come quattro birre di Brewdog si piazzarono nelle prime quattro posizioni in un concorso promosso da Tesco nel 2007. Il debutto di Brewdog mostrò dunque il talento del birraio Martin Dickie, l’altro fondatore dell’azienda, prima che il marketing prendesse il sopravvento.
Non vogliamo però semplificare la lettura a una dicotomia tra i due fondatori, il birraio buono e il comunicatore cattivo. James e Martin furono sempre allineati nelle loro scelte di marketing e l’impostazione di Brewdog fu sin da subito ispirata alla ribellione del movimento punk degli anni ’70. Quell’approccio ben presto però fu portato all’esasperazione: una dinamica che pagò ricchissimi dividendi nei primi anni, ma che finì per rendere Brewdog schiava della sua immagine, fino a consumare la sua vena creativa e a subire le critiche di eccessiva “commercializzazione” da parte dei suoi stessi sostenitori.
Dopo le dimissioni di James Watt potrebbe essere naturale chiedersi quale direzione prenderà ora Brewdog. Tuttavia la domanda non ha senso, poiché l’azienda ormai da tempo ha assunto un percorso più “anonimo”, lontano dall’influenza creativa dei suoi fondatori. Né presumibilmente è un quesito che interessa gli stessi bevitori di Brewdog, che forse cercano semplicemente una birra di discreta fattura alternativa a quelle dei colossi del settore. In questo senso la visione originale di James Watt, quella che guidò lui e Martin Dickie 17 anni fa, si può dire realmente realizzata.