Quali sono gli elementi che influenzano le vostre scelte quando dovete ordinare o acquistare una birra? In un mondo ideale basterebbero gli aspetti organolettici: sarebbe bellissimo se ogni scelta fosse influenzata solamente dal gusto. Come sappiamo però non è così ed è la storia stessa della bevanda a dircelo. Nei secoli le abitudini dei consumatori hanno seguito percorsi non sempre lineari e sono stati modificati da fattori molto diversi tra loro. Alcuni hanno hanno effettivamente riguardato le caratteristiche gustative del prodotto finale, altri però hanno toccato componenti marginali e solo lontanamente legati all’esperienza della bevuta. Nel pezzo di oggi ne abbiamo analizzati tre: la gradazione alcolica, il colore e il gusto. Ce ne sarebbero altri da prendere in considerazione – uno su tutti, il prezzo – ma consideriamo quelli che seguono sufficienti per delineare alcune tappe nella storia delle abitudini dei consumatori di birra.
Gusto
Nel 1997 il birrificio belga De Ranke lanciò la XX Bitter, che inizialmente incontrò la diffidenza del mercato per il suo profilo amaro molto accentuato. Oggi quell’elemento passa quasi in secondo piano: è sì una birra amara, ma tutt’altro che sconvolgente rispetto alla media di ciò che beviamo di solito. Quando però Nino Bacelle la produsse, volle in qualche modo riproporre il gusto delle birre del passato. Ricordava che un tempo le birre belghe non erano state tutte dolci e che la tendenza ad “addolcire” la ricetta si diffuse solo con il crescente dominio dell’industria. Come ben sappiamo, infatti, l’ascesa dei colossi brassicoli nel secondo dopoguerra si accompagnò all’esigenza di rivolgersi a un mercato globale. Le multinazionali cominciarono a proporre prodotti sempre più economici, immediati e “fisiologicamente accettabili”, con la conseguenza che l’amaro divenne sempre più difficile da rintracciare nei prodotti dei grandi marchi. Molti piccoli birrifici si adattarono al cambio di paradigma, fino al caso limite rappresentato dai produttori di Lambic che svendettero le loro tradizioni iniziando ad addolcire in maniera artificiali le proprie fermentazioni spontanee.
La scelta di Nino Bacelle non fu però un caso isolato. Come forse saprete, l’amaro è stato il gusto che ha caratterizzato l’ascesa della birra artigianale in tutto il mondo e che continua a dominare il segmento. La sua riscoperta è stata quasi una reazione naturale alle imposizioni dell’industria: da una parte c’è stato quel processo di riscoperta illustrato precedentemente, dall’altra la necessità di caratterizzare i propri prodotti in maniera netta per distinguerli da quelli del mercato di massa. Così l’ingrediente simbolo della rivoluzione craft è diventato il luppolo, che ha elevato le IPA (soprattutto nella loro reincarnazione americana) a stile di riferimento per birrai e consumatori. Il processo è stato così decisivo per i destini della birra artigianale che ancora oggi siamo circondati da birre luppolate, reinterpretate in mille declinazioni diverse.
Negli ultimi anni accanto all’amaro ha trovato spazio l’acido. E qui entriamo in una categoria ancora più di nicchia, rappresentata da fermentazioni miste o spontanee, affinamenti in legno e altre soluzioni tornate recentemente in auge. L’acido è ovviamente ancora più estremo dell’amaro, ma forse proprio per questa ragione sta ottenendo un ottimo riscontro da parte dei consumatori, quantomeno quelli più smaliziati. Anche in questo caso è il frutto di un processo di riscoperta, ma che si spinge molto più indietro nel passato: parliamo di metodi antichissimi di fare birra, talvolta persino ancestrali, che ci permettono di entrare in contatto con la concezione più autentica (seppur rivista in chiave moderna) della nostra bevanda.
Gradazione alcolica
La birra è pur sempre una bevanda alcolica e questo aspetto da sempre influenza le abitudini dei consumatori. Tra gli elementi del successo o del declino di alcuni stili birrari c’è il relativo tenore alcolico, risultato più o meno adatto alle aspettative dei bevitori in quel preciso momento storico. I dati, ovviamente non sempre precisi, ci dicono che nella storia recente dell’umanità il consumo generale di alcol ha registrato un andamento altalenante e che i fattori che ne hanno influenzato le variazioni sono stati molteplici. In Gran Bretagna, ad esempio, tra il 1550 e il 1650 il consumo aumentò in maniera decisa, grazie allo sviluppo del commercio della birra e delle crescenti importazioni di vino agevolate dagli operatori olandesi. Relativamente al secolo successivo le testimonianze sono contraddittorie, perché se da una parte scoppiò la mania per il gin, dall’altra aumentò la disponibilità di bevande non alcoliche (caffè, tè e cioccolata). Paradossalmente la Rivoluzione Industriale portò a un drastico calo nel consumo di alcolici, che si impennarono nuovamente alla fine del XIX secolo per poi calare nuovamente nella seconda metà del 1900. L’ultimo balzo in positivo nel Regno Unito si ebbe dopo gli anni ’50.
In termini di mercato globale, oggi in molte culture il consumo di bevande alcoliche è visto con sempre maggiore diffidenza. Le campagne neo-proibizioniste hanno alimentato una certa ostilità nei confronti della birra e degli altri alcolici, anche a causa del proliferare del binge drinking, favorito dalla disponibilità di alcol a buon mercato. Inoltre la diffusione di un certo stile di vita “salutista” ha contribuito alla crescita della domanda per birre analcoliche o low-alcohol: un fenomeno che rischia di diventare decisivo nei prossimi anni e al quale i birrifici artigianali stanno cominciando a guardare con interesse, sebbene richieda un approccio nuovo e inaspettato nei confronti della bevanda.
Colore
Sappiamo che il colore della birra non può darci alcuna indicazione precisa e sicura su ciò che andremo a bere. Eppure ancora oggi è il modo in cui viene ordinata al pub: “Vorrei una chiara”, “Per me una rossa” e via dicendo. Non è dunque un caso che l’elemento visivo, e in particolare le caratteristiche cromatiche, abbiano nel tempo decretato il successo di determinati stili birrari. L’esempio più celebre è rappresentato dalle Pils, tra le prime birre chiare della storia, capaci di segnare l’evoluzione della bevanda anche per il loro aspetto dorato e cristallino. Le basse fermentazioni della Boemia furono apprezzate per il loro gusto elegante e deciso allo stesso tempo, ma fu probabilmente il loro colore a influenzare più di altri elementi le abitudini dei consumatori. Non è un caso che da quel momento in poi nacquero nuovi stili chiari con il tentativo di contrastare l’egemonia delle Pils: le Helles e le Dortmunder Export in Germania e le Belgian Blond Ale e le Belgian Golden Strong Ale in Belgio, giusto per citarne alcuni.
Il colore è ancora oggi un elemento fondamentale nelle scelte d’acquisto dei consumatori. Ne sanno qualcosa i proprietari di birrifici e pub, che spesso si scontrano con la difficoltà di vendere birre scure “quotidiane”. Più in generale la componente estetica è tornata molto in auge negli ultimi anni di birra artigianale grazie all’ascesa delle Hazy IPA, che successivamente alcuni hanno provato a contrastare – o meglio a seguire, sempre in termini visivi – con le Brut IPA, se non addirittura con le Glitter Beer. Gli ultimi esperimenti sono durati il tempo di un sorso, le Hazy IPA invece continuano a godere di buona salute sebbene negli ultimi tempi mi sembra che l’aspetto visivo sia di nuovo passato in secondo piano. Probabilmente si è sentita l’esigenza di riportare in primo piano aspetti puramente gustativi, ma la parte estetica continuerà a giocare un ruolo importante – qualcuno ha detto lattine?