Il termine inglese “cringe” è sempre più diffuso in Italia, tanto da essere entrato da alcuni anni nei nostri principali vocabolari. Secondo l’Accademia della Crusca indica “scene e comportamenti altrui che suscitano imbarazzo e disagio in chi le osserva”. È un termine non direttamente traducibile in italiano, se non utilizzando una perifrasi, ed è identificato da una forte connotazione generazionale. Qualche settimana fa su Insidehook, magazine statunitense di lifestyle, è apparso un articolo a firma Courtney Iseman intitolato “La birra artigianale è diventata cringe?”. L’illustrazione a corredo del pezzo è piuttosto eloquente: ritrae un barbuto beer lover intento a baciare il suo bicchiere di birra, mentre sullo sfondo tre ragazzi mostrano inequivocabilmente disagio, imbarazzo e ribrezzo. Una scena sicuramente esasperata, ma che riassume lo scollamento generazionale che si può avvertire anche nel nostro paese tra i giovani e i consumatori più maturi.
L’articolo di Iseman prende TikTok, social giovane per eccellenza, come cartina di tornasole per valutare il gap generazionale della birra artigianale. In particolare parte dal profilo di I Hate IPAs, una ragazza che recensisce ironicamente diverse produzioni americane, facendo ricorso a descrittori improbabili (e ovviamente negativi), gag più o meno esilaranti e l’immancabile tag al birrificio di turno. Si potrebbe evidenziare che il concetto di “cringe” è molto soggettivo, così come quello di “divertente”, ma in questa sede non ci interessa soffermarci troppo sull’account in questione. Si potrebbe anche sottolineare che valutare le reactions sui social per analizzare un fenomeno sociale è quantomeno fuorviante, ma ciò non aiuterebbe a prendere atto di un problema reale, che esiste tanto negli Stati Uniti quanto in Italia.
Al di là di queste considerazioni, infatti, esistono dati che confermano quanto sopra espresso. Nel nostro paese, ad esempio, non sta avvenendo quel ricambio generazionale che sarebbe fondamentale per mantenere in salute il settore. La tendenza è stata documentata dal report “Birra artigianale, filiera e mercati” di Unionbirrai e Obiart, che ha mostrato come negli ultimi anni la percentuale di coloro che di recente si sono avvicinati alle birre artigianali si è assottigliata visibilmente. La base di appassionati che ha spinto il boom del segmento artigianale all’inizio degli anni 2000 è ormai composta da persone mature, mentre la cosiddetta Gen Z appare molto meno affascinata dal mondo delle craft beer.
Secondo Iseman a essere cringe non è la birra artigianale in sé, ma l’approccio di tanti appassionati cresciuti in un’epoca precedente. Un approccio che dai più giovani è spesso visto ossessivo, divisivo, chiuso, a volte inutilmente sopra le righe. Ciò che probabilmente non viene compresa – a ragione aggiungeremmo – è la visione esageratamente accalorata e fanatica per la birra, che in definitiva è solo un liquido che dovrebbe limitarsi ad accompagnare il divertimento. Almeno negli USA c’è poi una sensibilità molto spiccata delle nuove generazioni verso la scarsa eterogeneità del settore craft: un mercato quasi esclusivamente dominato da uomini eterosessuali bianchi, anche nelle proprietà degli stessi birrifici.
Ciò che oggi sembra demodé è il tipo di comunicazione su cui hanno fatto leva in origine i primi birrifici craft, perfettamente incarnato dalla Arrogant Bastard di Stone Brewing. Una birra che invitava il consumatore a girare i tacchi e tornare a bere birra industriale, perché probabilmente non avrebbe mai capito e apprezzato quella Strong Ale forte e amara. “You’re not worthy” riportava in etichetta, “Non ne sei degno”. Una strategia comunicativa che oggi forse non funzionerebbe, perché evidentemente le generazioni più giovani sono piuttosto impermeabili alla psicologia inversa.
Emma Lewis, la ragazza conosciuta su TikTok come I Hate IPAs, spiega questo concetto:
Non capisco ancora perché le persone dovrebbero bere qualcosa che sa di acido gastrico e dire: “Devi sviluppare il gusto per questo”. Nella mia mente, se devi sviluppare il gusto per qualcosa, significa che non ti piace.
Un’affermazione che può risultare molto superficiale, ma che per certi versi è anche condivisibile. Può piacere o meno, ma l’impressione è che la Gen Z non ritenga cringe la birra artigianale, bensì il suo culto reverenziale. Tanto da apprezzare la bevanda per i suoi elementi più basilari: socializzazione, condivisione, divertimento. Questo approccio alla leggerezza – che curiosamente si estende anche alle tipologie più bevute – è molto affascinante nel complesso, purché non sconfini nella superficialità che negherebbe l’idea stessa di birra artigianale. Ma si può essere bevitori consapevoli e interessati pur non sfociando nel radicalismo, cioè in tutti quegli atteggiamenti percepiti come cringe.
La certezza è che la narrazione della birra artigianale non funziona più come in passato, tanto negli USA come in Italia. Non il prodotto in sé, che ancora incuriosisce, ma tutta quella prosopopea, quell’aura quasi divina, che ha accompagnato il settore nella sua prima fase. L’impressione è che le nuove generazioni siano poco interessate a conoscere gli IBU di un’American IPA o il range di EBC di una Schwarz, ma che parallelamente abbiano più facile accesso alla birra artigianale, ricercandola in maniera meno ossessiva. È anche una generazione che beve meno alcolici, sia chiaro, ma questo aspetto potrebbe ancora essere legato a una fase momentanea.
In definitiva la birra artigianale ha necessità di rinnovarsi, da molti punti di vista. Non necessariamente per seguire le richieste di una generazione che considera cringe diversi aspetti del settore craft, ma perché inevitabilmente tante cose sono cambiate rispetto al passato. È bene prenderne atto senza rimanere chiusi nella propria visione, sempre più limitata.