Come ormai dovreste sapere, ieri è stata annunciata la cessione del birrificio Hibu a Dibevit, braccio distributivo del Gruppo Heineken. La notizia rappresenta l’ultimo atto della trasformazione che sta investendo il segmento della birra artigianale italiana da poco meno di un anno e mezzo, cioè da quando si verificò il primo acquisto di un marchio craft da parte dell’industria – mi riferisco chiaramente alla vendita di Birra del Borgo ad AB Inbev. Da allora in pochi mesi abbiamo assistito alla perdita di indipendenza, più o meno eclatante, di altri birrifici: Ducato, Toccalmatto, Birradamare e il già citato Hibu. Ogni volta che si verifica un caso del genere il movimento della birra artigianale subisce un danno importante, che tuttavia non sempre viene percepito come tale anche dalla stessa comunità di appassionati. Spesso tali vicende vengono valutate in modo direttamente proporzionale all’interesse che si ripone nei produttori coinvolti: se le loro birre non mi piacciono, allora “chi se ne frega”. Un approccio che personalmente ritengo dannoso almeno quanto la cessione stessa del birrificio.
Il punto di partenza per valutare il fenomeno delle acquisizioni in maniera corretta è distinguere questo discorso da quello puramente qualitativo. Quando una multinazionale ottiene il controllo di un birrificio craft sta mettendo un piede nel nostro mondo, indipendentemente dalla qualità del produttore appena comprato. Compie uno sconfinamento in un terreno nuovo, portando con sé tutta la potenza di fuoco di cui dispone una grande industria. Che tradotto significa mettere a disposizione risorse virtualmente infinite per sviluppare quel marchio – non più indipendente – in un contesto in cui operano altre centinaia di microbirrifici indipendenti. Pensate anche solo alla reperibilità dei prodotti e considerate Dibevit: è un gigante che dispone di una rete di 400 distributori Ho.Re.Ca su tutto il territorio nazionale, con il quale le birre dell’azienda brianzola – parliamo di nuovo di Hibu – possono compiere un salto di qualità impressionante a livello di diffusione e capillarità. Con una multinazionale alle spalle possono uscire sul mercato a un prezzo concorrenziale e togliere spazio a tutti gli altri microbirrifici.
Forse penserete che ci stiamo però spingendo in contesti poco vicini alla “vera” birra artigianale, alla realtà con cui noi appassionati ci confrontiamo ogni giorno. Ecco, il problema secondo me è valutare tali vicende con la visione un po’ snob del beer geek, quella per cui se non viene toccato il nostro birrificio preferito allora tutto il resto non conta. Purtroppo – o per fortuna – le cose non funzionano così: sono pochissimi i birrifici che possono permettersi di prosperare o anche solo sopravvivere con gli appassionati e i luoghi che questi ultimi sono soliti frequentare. Ci sono tantissimi produttori che vanno avanti grazie alle enoteche, alle botteghe, ai ristoranti e alle birrerie meno integraliste: tutti luoghi fondamentali per il proprio business ma dove non c’è una preparazione così evoluta da distinguere – ammesso che lo si voglia fare – un birrificio realmente indipendente da uno controllato dall’industria. E se questi spazi vengono occupati dal secondo, è chiaro che per il primo sono dolori amari.
Così come i microbirrifici non campano con le tirature limitate affinate per mesi in legno, ma con le classiche “birre chiare da battaglia”, allo stesso modo non sopravvivono grazie all’opinione della ristretta cerchia dei beer geek, ma con i consumi provenienti da clienti e luoghi più generici. A parte pochissime eccezioni, la regola finora è stata questa ed ecco perché la perdita d’indipendenza di un birrificio è sempre una cattiva notizia per tutto l’ambiente. Se pensate “chi se ne frega” solo perché le sue birre non vi piacciono o perché era uscito da tempo dai vostri radar, beh sappiate che ogni cessione all’industria è un danno anche per quei produttori che invece amate tanto. Invece ciò che percepisco a volte è quasi un cieco godimento: “Meglio così, tanto mi faceva schifo”. Peccato che non stiamo parlando di qualità, ma di indipendenza da un mondo che se non fosse stato destabilizzato in questi decenni ancora dominerebbe i nostri consumi – intendo di tutti noi che oggi beviamo altro – con le proprie anonime Lager.
I birrifici passati all’industria hanno la forza di proporre lo stesso prodotto di prima (e forse, nel breve-medio termine, anche migliore) a un prezzo più basso e in luoghi prima raggiunti con difficoltà. Hanno la forza di allestire imponenti tap room, di aprire locali, di influenzare la distribuzione, di raggiungere nuove fasce di popolazione e di fare fronte comune. Di penetrare in canali in cui l’industria non era mai entrata, rubando spazio ai microbirrifici indipendenti o comunque bloccando loro potenziali canali di sviluppo. Ora spiegatemi in tutto questo cosa importa se quei birrifici ex artigianali sono buoni, ottimi, medi o pessimi.
Anche perché se vogliamo porre la questione su un piano qualitativo, allora potremmo infilarci in ragionamenti intricati e privi di risposte certe. Prendiamo uno qualsiasi dei birrifici italiani che recentemente ha perso la propria indipendenza: quanti dei restanti 1.000 produttori nazionali si collocano su una posizione qualitativamente inferiore? Sicuramente la stragrande maggioranza. Certo, nessuno tra quelli che hanno venduto rientra forse nel novero dei “dieci birrifici per cui i beer geek si stracciano le vesti”, ma realizzano tutti birre oneste, toccando per alcune di esse delle vette di eccellenza assoluta. Perché smettere di bere buone birre – o anche solo dignitose – perché passate sotto il controllo di una multinazionale? Il criterio ultimo nelle nostre scelte non dovrebbe essere di bere meglio rispetto a come siamo stati abituati per tanti anni? Esattamente sì, e infatti se mi capita non rinuncio a bere qualcosa di Birra del Borgo, Ducato e altri.
Qui però non stiamo parlando di acquisti estemporanei che si possono compiere al bar o in pizzeria, ma di cosa comporta l’invasione dell’industria per tutto il comparto craft. Molti pensano che quando una multinazionale acquista un birrificio, il primo effetto negativo è nell’evoluzione qualitativa delle sue birre. Niente di più falso: grazie alla tecnologia e ai protocolli dell’industria, la qualità nel breve e medio termine può solo aumentare. L’effetto negativo è sul mercato in sé, perché è vero che può rendere la “birra buona” più economica e reperibile, ma a discapito di tanti produttori indipendenti. È nel lungo termine che bisogna ragionare, in proiezione di anni, quando potremmo ritrovarci nuovamente con un mercato omologato e anonimo e con pochi birrifici indipendenti, sempre più fragili e mal distribuiti.
Tutto giusto. Peccato che qualcuno non ci arrivi…
Alla luce di giorni di discussione e di interventi di diverse persone, penso che tu debba rivedere la frase.
Antonio, la sola cosa sulla quale concordo con te è il prezzo veramente esagerato della birra artigianale italiana. Ed è quello il motivo per cui non riesce ad andare oltre quel fatidico 2% del mercato. Ma per nulla al mondo berrei piscio industriale, sono semplicemente più attento ai prezzi e bevo meno rispetto a qualche anno fa.
Secondo me quando un mercato fatto da un certo numero di “player” si riduce per effetto di acquisizioni e fusioni, non può che esserci un effetto negativo per il consumatore (meno soggetti, meno concorrenza, meno distintività)
Andrea quello che hai scritto è tutto ciò che pensò anche io.La
Verità sta proprio nella forza della distribuzione che hanno le multinazionali, e di conseguenza il grande sviluppo che avranno questi che continuano comunque a fare birre di eccellenza ,io lavoro in questo mondo da 29 anni e ti garantisco che i grandi gruppi quando si muovono lo fanno in maniera pesante acquisiscono punti vendita ancora a suon di migliaia di euro,la massa beve ancora birre lager comuni, sia per motivi di prezzo , che per motivi di non conoscenza ,oppure di approccio sbagliato alle birre artigianali.Personalmente penso che la sopravvivenza di molti birrifici artigianali sarà garantita solamente a chi avrà anche più di un Brew pub con cucina,
Dove poter vendere le proprie birre a prezzi ragionaevoli per il cliente e buoni per il birrificio.
Per Vendere la birra ad un distributore dopo averne accertato le capacità professionali devi anche vendere la birra ad un prezzo alto rispetto all’industria, ma basso per la tua economia di Birrifico,chi apre oggi spero per lui abbia ben chiaro questo meccanismo perché fare la birra gradita al consumatore è difficile ,ma trovare chi te la vende e ci crede ancor di più.
Tutto l’articolo presuppone che il mondo si divida tra birra artigianale e birra industriale, come se tutti gli artigiani fossero uguali tra loro e gli industriali pure. Mentre il mondo si divide in birre buone e birre non buone, il fatto che siano artigianali o industriali è del tutto secondario.
Ci sono artigianali buone e pessime, così come succede in campo industriale. A meno che come industria si consideri unicamente quella Italiana.
Quindi alla buon ora arriva qualcuno che potrebbe elevare ulteriormente la qualità, abbattere sensibilmente e finalmente il prezzo, rendere più reperibile i prodotti e noi consumatori dovremmo esserne scontenti, perchè?
Naturale, per difendere gente che molto spesso s’impovvisa, non offre servizi, ha difficoltà a mantenere una costanza produttiva, molto spesso offre prodotti di scarsa qualità e te li fa pagare come oro colato.
Per non citare il fatto che al pari della peggiore industria, propaganda i prodotti con falsità. Mi viene in mente la birra degli Etrischi, mai esistita nella storia o birre prive di stile perché produrre in stile è difficle, stili dichiarati che evidentemente il birraio di turno non ha nemmeno mai assaggiato, le one shot, edizioni speciali per giustifare birre venute male, gli ingredienti X dove davvero abbiamo visto di tutto.
In considerazione del fatto che un litro di birra autoprodotto ha un costo di circa € 1,40 tutto compreso, pure l’accisa e te lo vendono a € 10,00 al litro, perché vogliono rientrare alla svelta dal loro investimento e perché tanto fan tutti così e ci sono gli appassionati che sono disposti a spendere.
Tutti che si arrabbattano per dividersi il 2% del mercato, perché per attaccare il restante 98% bisognerebbe cominciare davvero a fare prodotti, buoni, semplici, costanti al giusto prezzo, però è difficle.
Quindi secondo l’articolo, per bere una birra, dovremmo informarci sull’assetto societario del produttore, escludendo buone birre, proposte ad un prezzo inferiore, per proteggere chi ha fatto solo i propri interessi sino ad ora?
Quante volte abbiamo letto di birrifici neonati, che al primo assaggio avevano davvero poco di buono da proporre, commentati con: i prodotti lasciano ancora a desiderare, però ci sono tutti i pressupposti perché il birrificio cresca e migliori?
Cioè tu ti proponi come nuovo produttore è evidente che non sei capace, ma sono disposto a spendere i miei soldi, per acquistare prodotti buoni per il lavandino, per sostenere la tua crescita? Ma stiamo scherzando?
Tutto il ragionamento si regge sul presupposto che il birrificio non è una qualsiasi attività commerciale dedita al profitto, no, il birrificio è un luogo poetico, massima espressione della creatività di artisti venerati come rock stars, che si svegliano presto la mattina per andare nel bosco a raccogliere le rare erbe per le loro ricette segrete degli elisir di lunga vita che ci propongono.
Ma quando vi sveglierete? Le attività commerciali si creano con investimenti che devono rientrare alla svelta, i prodotti devono piacere e far innamorare i clienti per creare la cosidetta fidelizzazione e la qualità vera, è il presupposto imprescindibile per poter parlare di artigianato e chi ti vende un prodotto ricariocato del 700% non lo fa per un pensiero poetico.
La prossima proposta di cronache quale sarà? Mandare un SMS soldiale da 2 Euro ai birrifici colpiti dalla calamità industriale?
Niente, vedo che il senso dell’intero articolo non è stato compreso, allora ci riprovo da un altro punto di vista. Antonio (Vincenzo, Gino o Mariotto, dimmi come preferisci essere chiamato tra i tanti nick che usi) sembri conoscere bene l’ambiente della birra artigianale, quindi immagino tu avrai bevuto e magari bevi tuttora birre artigianali. Probabilmente bevi solo quelle di ottimo livello, perché di sicuro non ti vuoi far infinocchiare e punti solo i produttori meritevoli. Beh se 40 anni fa i birrifici indipendenti non avessero cominciato quella rivoluzione in atto tutt’oggi, col cavolo che potresti bere le birre che ti piacciono tanto. È assurdo non ricordare le origini di un fenomeno, la situazione che esisteva prima del suo avvento. Come quelli che si sono comprati l’attico a Trastevere e vogliono far chiudere i locali del quartiere, senza considerare che se non fosse per i locali che hanno aperto negli anni, Trastevere sarebbe ancora la brutta copia del Bronx alla romana e col cavolo che avrebbero l’attico lì. Quindi non può ridursi tutto a un concetto qualitativo, perché negare l’importanza dell’indipendenza significa negare la stessa birra di qualità. A ben vedere la Peroni Gran Riserva (Rossa) è una Vienna dignitosa: se il valore ultimo è la qualità potevi fermarti a 20 anni fa, quando rappresentava una valida alternativa alla Peroni normale e altre decine di Lager analoghe.
Detto questo sono convinto che nella scelte d’acquisto l’appagamento deve essere il criterio ultimo, che nel mio caso significa qualità. Ma l’articolo affronta un altro discorso e l’ho spiegato bene. Se poi parliamo di prezzo, personalmente credo che se il settore della birra artigianale morirà, sarà per l’incapacità dei birrifici di rendere i propri prodotti economicamente appetibili alla massa. Ma anche questo è un altro discorso.
Ti chiedi “Quindi alla buon ora arriva qualcuno che potrebbe elevare ulteriormente la qualità, abbattere sensibilmente e finalmente il prezzo, rendere più reperibile i prodotti e noi consumatori dovremmo esserne scontenti, perchè?”. La risposta è perché tutti questi vantaggi li percepiresti solo nel breve termine, mentre a lungo andare la qualità tenderebbe ad abbassarsi. O magari quei marchi scomparirebbero del tutto. Mi parli di ricarico, ma ti chiedo: chi margina di più? I microbirrifici con i prezzi attuali o le mega industrie con qualche decimo di euro in meno sul prezzo di listino?
Io ho cominciato a bere birra negli anni 80, allora l’offerta non era certo quella d’adesso. In quegli anni cominciavano ad arrivare in Italia dapprima le birre Inglesi ed a seguire le Belghe, che arricchivano l’offerta base, composta dalle industriali Italiane. Sinceramente bevevo bene anche allora e non rischiavo ad ogni nuovo assaggio di trovare birre piatte o che avessero problemi di gushing o altro e senza il rischio di buttare i soldi nel cesso e la birra nel lavandino. La tendenza dei locali di allora era l’ampiezza della gamma proposta. Bar che avevano centinaia di birre in bottiglia, che inevitabilmente invecchiavano, qualcuna migliorando e qualcun’altra no.
Negli anni 90 assaggiai la mia prima artigianale all’estero, restando profondamento colpito, era buonissima. Poi la birra artigianale arrivò anche in Italia, la mia prima alla centrale della birra di Cremona, tra l’altro dove nacque Union Birrai, una delusione, la birra era alquanto scarsa. E mi sono detto se comincia così….
La situazione odierna la conoscete meglio di me, un’offerta immensa tra la quale è davvero difficile orientarsi ed avere la fortuna di beccarne una davvero meritevole. Non che manchino le birre meritevoli, solo che se dovessi calcolarne una percentuale, questa risulterebbe davvero bassa.
Il discorso che fai, che oggi berremmo meglio grazie agli artigiani è relativo. Chiediti invece quanto male fanno gli artigiani incompetenti, che propongono birre di scarsa qualità ad un neofita, che per la prima volta assaggia una artigianale. Questo valutata la non qualità ed il prezzo, credi sia propenso a continuare a bere artigianale? Ci sono addirittura distributori, che al solo parlargli di birra artigianale fuggono a gambe levate. Perché hanno provato a distribuire birre artigianali, probabilmente rivolgendosi a birrifici scarsi e dopo aver dovuto ritirare fusti e bottiglie difettosi, col rischio di perdere di colpo, clienti acquisiti negli anni, non vogliono nemmeno più sentir parlare di birra artigianale. Fare, vendere, consegnare birra non è un gioco, è un lavoro. I rapporti commerciali sono regolati non dalla simpatia o dalla filosofia, ma dal profitto e funzionano fintanto che tu fai guadagnare me, ed io faccio guadagnare te, ma se tu mi fai perdere soldi, sei escluso per sempre.
Dalla risposta che dai sembra che la tua paura sia nel lungo termine e non hai torto, visto che la cosa è già successa nel secolo scorso. Moltissimi birrifici artigianali italiani sono stati acquisiti e poi chiusi dall’industria e ci sono voluti decenni perché il tutto ricominciasse. Solo che è ricominciato in modo peggiore, rispetto al passato.
Oggi credere che l’industria possa acquisire più di 1000 birrifici per riprendersi il 2% del mercato è utopia. Non ne varrebbe la pena. Il 2% perché dopo 21 anni è questa la quota di mercato. Basterebbe che i birrai, cominciassero ad interessarsi al restante 98% del mercato, ma non posso certo farlo come stanno lavorando ora. Quindi non sono i clienti a salvare i birrifici, nessuno può farlo, se non loro stessi. E se hai a cuore questo settore, come me, non devi demonizzare la normale evoluzione di mercato, ma stimolare i nostri birrai, con una sana e doverosa critica costruttiva, evidenziando molte delle cose strampalate che fanno, invece di fare Alice nel paese delle meraviglie e dire sempre che è tutto bello, buono e giusto. Sempre che tu voglia contribuire a mantenere in vita questo settore. Perché solo loro riusciranno a salvare se stessi e tu puoi aiutarli, non dando contro all’industria, come novello Davide contro Golia, ma contro chi intendi difendere, perché il problema dei birrai italiani sta nel modo di proporsi e solo loro possono cambiarlo, magari aiutati da chi ha voce in capitolo. Guardare i ricarichi è ininfluente, ciò che valuta qualsiasi acquirente è il rapporto prezzo qualità. Non penso sarai discorde se ti dico che oggi al supermercato, oltre alle ciofeche, trovi birre estere che offrono un rapporto qualità prezzo superiore a qualsiasi artigianale italiana e vai sul sicuro. Dopo vent’anni sei vuoi bere bene e spendere il giusto, non ti resta che acquistare quello che acquistavi vent’anni fa. Con l’eccezione che se trovi l’artigianale giusta godi a scapito del portafoglio, ma un tantum ci sta. Puoi esistere un mercato basato sull’una tantum, al netto delle mode del momento?
Certo che il mio discorso è nel lungo periodo, ma l’ho spiegato chiaramente.
Vedi io non faccio un discorso da salvatore della patria, né credo che il mio comportamento da consumatore possa cambiare il mondo. Tanto che, come detto, se in pizzeria o a un concerto trovo una ex artigianale, me la bevo con piacere – ammesso che sia buona, ovviamente. Che questo mondo presenti storture è normale, azzarderei fisiologico. Non faccio mai un ritratto da Alice nel Paese delle Meraviglie, trovami articoli in cui scrivo che è tutto bello e perfetto.
Un ultimo appunto. Se un distributore ha problemi perché si ritrova a distribuire birra pessima, credo che in primis il problema sia nella sua incapacità di orientarsi nel mercato e non nel birrificio pessimo di turno. È lavoro, come tu dici: che sia fatto con competenza a tutti i livelli, non solo da parte di chi produce.
tutto molto giusto, ma posso fare una domanda sotto forma di considerazione, io bevo e mi produco la birra da diversi anni in casa e seguo il mondo craft chiaramente bevendo birre artigianali, e forse non ne sono al corrente: ma non è che per salvare il mondo artigianale sarebbe il caso di unire i birrifici rimasti con un distributore che se prendesse cura della distribuzione dei prodotti così da farli lavorare non solo a livello nazionale ma anche oltre, naturalmente il distributore dovrebbe essere gestito o supervisionato dagli stessi birrifici.
I birrifici italiani non sono riusciti ad accordarsi neanche per comprare le materie prime insieme, figuriamoci per intavolare un discorso come il tuo. L’idea però non è male.
“Quindi alla buon ora arriva qualcuno che potrebbe elevare ulteriormente la qualità, abbattere sensibilmente e finalmente il prezzo, rendere più reperibile i prodotti e noi consumatori dovremmo esserne scontenti, perchè?”
Hai scritto veramente questa frase? Non ci credo, deve essere colpa del T9.
I birrifici passati all’industria hanno la forza di proporre lo stesso prodotto di prima (e forse, nel breve-medio termine, anche migliore) a un prezzo più basso e in luoghi prima raggiunti con difficoltà.
Questo è riportato nell’articolo di Andrea, ma l’hai letto?
Giuro che l’ho letto! E non solo, pensa, l’ho anche capito…io…
Cosa nella frase “breve-medio termine” non ti è chiaro? Pensi davvero che uno degli obiettivi dell’industria sia aumentare la qualità del prodotto?
Il fatto è che sarebbe opportuno criticare con cognizione di causa, non con cifre sparate a caso (1,40€ TUTTO COMPRESO) o classici luoghi comuni (ONE SHOT=birra venuta male).
Certo, questo mondo si può dividere in birre buone e non buone, ma non vi è dubbio che lo si debba dividere anche in birre artigianali e birre industriali. E’ una distinzione chiara e necessaria.
Nessuna cifra che riporto è sparata a caso, se ancora non l’hai capito sarei un operatore del settore e so cosa scrivo. Le one shot non devono per forza essere birre venute male, è proprio il concetto di one shot che è contro gli stessi interessi del birraio. Investire tempo, risorse e capacità per un’unica produzione è semplicemente antieconomico.
Scrivere che l’industria non è interessata alla qualità, vuol dire prendere ad esempio solo il peggio dell’industria. Ci sono industrie che producono ne più ne meno come gli artigiani, solo con qualche capacità in più. Questo è un vero luogo comune.
Per dividere le birre artigianali da quelle industriali bisognerebbe distinguerne i metodi produttivi e bisognerebbe conoscere questi metodi.
Differenziando i metodi, molte industrie rientrerebbero di diritto nella categoria artigianale. Il problema è che chi ha tracciato le caratteristiche della birra artigianale, l’ha fatto senza cognizione di causa, visto che vietano la pastorizzazione e non la diluizione.
Pertanto se domani un birraio volesse produrre coi costi dell’industria, utilizzando la diluizione come metodo, basterebbe non pastorizzare, perché quella rientri per legge nella categoria delle artigianali, anche se prodotta come nella peggiore industria. Altro risultato è che come artigiano posso utilizzare tranquillamente e legalmente metodi industriali, mentre se devo vendere lontano, perché ho una richiesta, non posso garantire una durata adeguata al prodotto, perché non posso pastorizzare e gli darò una birra a rischio, sia per me che la produco e sia per chi la consuma. Ti sembra avere senso una similie distinzione?
In effetti era davvero difficile capire che sei un operatore del settore.
Credo che un po’ di onestà intellettuale farebbe bene a tutti. Antonio, qua sopra, magari è stato un po’ “provocatorio”, ma se si vuole essere equilibrati, c’è del vero in ciò che scrive. Il rapporto qualità prezzo delle birre artigianali è, nella maggioranza dei casi, pessimo. Non è un caso che esista una schiera sempre più ampia di homebrewers che la birra se la fa in casa, e consuma arigiianale solo al pub, oppure compra solo bottiglie davvero meritevoli.
Siamo onesti, il movimento è partito e cresciuto con le migliori intenzioni, ma oggi siamo di fronte a una pletora di nullità a caro prezzo.
Solo chi lavora seriamente ha il diritto e il dovere di sopravvivere commercialmente e di continuare a contribuire alla crescita del segmento craft.
Il consumatore non è salvaguardato se si salvaguarda un circuito e un approccio alla vendita intrinsecamente marcio (per me una session IPA da 4% abv a 5 euro la bottiglietta da 33 cl è un furto, punto, qualunque sia la qualità contenuta nella bottiglia).
Credo che invece di piagnucolare sul latte versato, i produttori artigianali italiani dovrebbero cominciare a interrogarsi e a lavorare per riuscire a vendere le proprie birre a un prezzo concorrenziale, il resto è aria fritta.
Finalmente qualcuno guarda cose concrete, lasciando la filosofia ai poeti.
Antonio avrà anche calcato la mano, però sono d’accordo con lui quasi su tutto: oramai il primo che si sveglia la mattina si mette a fare birra, combinando per lo più dei veri disastri. Io, per non sbagliare, la birra me la faccio, secondo i miei gusti, spendendo cifre irrisorie rispetto all’artigianale che si trova in giro. Certo, sono attento a tutto il mondo craft e mi piace assaggiare le birre che mi capitano a tiro, ma i risultati sono spesso deludenti. I prezzi poi sono decisamente alti e non c’è nessun interesse ad abbassarli. W l’homebrewing.
Riprendo un commento sopra:
“Cosa nella frase “breve-medio termine” non ti è chiaro? Pensi davvero che uno degli obiettivi dell’industria sia aumentare la qualità del prodotto?”
E’ proprio questo il punto su cui avrei da fare delle precisazioni (premettendo che qualunque attività commerciale, che sia industriale o artigianale, ha come obiettivo il profitto). Proviamo a fare un po’ di ordine.
Il grandissimo e incontrovertibile merito del movimento craft (americano prima, e poi tutti gli altri) è stato quello di creare un pubblico di appassionati consapevoli attraverso, ovviamente, la produzione e la riproposizione sul mercato di prodotti ormai dimenticati e di proprietà organolettiche nettamente più varie e interessanti delle classiche lager da supermercato.
Ciò detto, ipotizzare che l’inserimento dell’industria nel mercato craft abbia come obiettivo la riduzione della qualità è davvero ingenuo, e vi prego qui di seguirmi con attenzione.
L’obiettivo di qualunque operatore economico è scegliere un target di mercato e vendere il più possibile in quel target. E nel fare questo, i produttori di televisori, smartphone, e birra… che fanno? seguono mode, creano mode… ci siamo?
Se fosse vero quello che state dicendo, non esisterebbero Apple, non esisterebbe Rolex, non esisterebbe lo champagne da 200 euro a bottiglia, ecc.
Il motivo per cui fino a 20 anni fa si beveva solo Heineken e Peroni era dovuto, banalmente, al fatto che quella era la moda, e punto a capo.
Oggi esiste un segmento di mercato nuovo, e l’industria vuole fare profitto pure lì. E ne ha i mezzi, economici e tecnologici. E per farlo sa benissimo che deve puntare a standard di qualità e di gusto completamente diversi dalla Peroni da supermercato.
Non dimentichiamoci che per l’industria il malto e il luppolo non costano NULLA!
Se vogliono fare birra di qualità, indistinguibile dalle nostre amatissime artigianali, la fanno, e basta.
E infatti in italia esistono centinaia di etichettiedi vino da grande distribuzione di qualità ottima, pur non essendo bottiglie introvabili da 100 euro l’una.
Questo è possibile perchè il pubblico del vino è evoluto nel tempo, e l’industria enologica con lui.
Il malto all’industria non costa nulla? Allora chiediti perché ricorre spesso e volentieri a succedanei più economici per tutta la parte di base fermentescibile che può coprire.
E’ ovvio che su un prodotto di qualità ultra basic, da bere dopo quattro ore di turno sui ponteggi, si risparmia su tutto, lo vendi a nulla, e ti costa nulla.
Ma se incrementi il costo del prodotto di poco, e con questo raddoppi il prezzo, stai tranquillo che ci rientri. Altrimenti Paulaner, HB, Duvel, Chouffe ecc ecc come sopravviverebbero?
Ultima cosa: il riso in USA fu introdotto non per risparmiare (costa ben più dell’orzo) ma per ammorbidire il gusto del malto 6-rows americano, di qualità nettamete inferiore al 2-rows europeo. Fu una scelta qualitativa, non di risparmio.
Sul mais della Peroni stendo un velo pietoso.
Ciao,
il punto non è cosa l’industria voglia fare oggi di un birrificio acquisito (credo sia intelligente mantenerne per qualche tempo le caratteristiche che aveva in passato) ma cosa è potenzialmente in grado di farne.
Domani decidere di usare un altro tipo di malto perchè gli costa meno, dopodomani utilizzare estratto di luppolo perchè si conserva meglio ed ha caratteristiche più stabili, dopodomani pastorizzare perchè altrimenti parte della produzione subisce dei cambiamenti organolettici nei passaggi dal birrificio allo scaffale del supermercato o ristorante o altro.
Questo va tenuto ben a mente.
Se non ricordo male Pierre Celis, a cui si deve la sopravvivenza dello stile blanche, lavorò (o era proprietario, non ricordo) presso quello che era allora l’indipendente birrificio che produceva la “sua” Hoegarden; questo venne poi ceduto in parte ad una multinazionale, ed a distanza di anni venne ceduta la totalità alla multinazionale per differenza di vedute (cioè la multinazionale voleva sostituire gli ingredienti utilizzati per la produzione con ingredienti più economici).
Detto questo, io non balzo dalla sedia per quello che succede, da una parte è normale che avvenga e come tutti dicevamo già da tempo, prima o poi arriverà la resa dei conti e di 1000 microbirrifici ne resteranno qualche centinaio (e forse poi qualche decina).
Ciao
Carlo
Ciao Marco, è chiaro che abbassare la qualità del prodotto NON sia un obiettivo dell’industria, è semplicemente una logica conseguenza della metodologia di lavoro.
Esattamente
Infatti trovi birre industriali fantastiche, oltre a moltissime porcherie. Il punto è che la metodologia di lavoro cambia da industria, ad industria, come cambia da artigiano, ad artigiano. Ci sono artigiani che eseguono lavorazioni come nelle peggiori delle industrie. Generalizzare in questi casi è il peggiore degli errori.
Leggo spesso ma non ho mai commentato, quindi inanzitutto complimenti!
Condivido in parte le riflessioni sull’importanza dell’indipendenza dei birrifici, ma non credo che anche se domani i prezzi delle controllate delle multinazionali crollassero mantenendo la qualità attuale significherebbe la morte del movimento artigianale. Credo che segnerebbe una sorta di nuovo livello, in cui per rimanere indipendente e sul mercato devi necessariamente fare delle birre straordinarie (e possibilmente una gamma di birre, sinceramente se un birrificio azzecca 1-2 birre straordinarie su una linea di 10 mediocri credo si possa parlare di botta di fortuna), a cui io consumatore riconosca un valore maggiore.
Chiuderebbero un sacco di birrifici, senza ombra di dubbio, ma un po’ di brutale selezione credo che possa far bene al movimento a questo punto
“Scrivere che l’industria non è interessata alla qualità, vuol dire prendere ad esempio solo il peggio dell’industria. Ci sono industrie che producono ne più ne meno come gli artigiani, solo con qualche capacità in più. Questo è un vero luogo comune.”
ESATTO! ti straquoto
Provate a bervi una Schneider Weiss Tap 7, e trovatemi una Weiss artigianale che possa anche solo lontanamente avvicinarsi a una birra del genere.
E si trova in bottiglia da mezzo litro a 2 euro.
Alla spina poi è una roba da lacrime….
Il problema non è l’industria, ma ciò che la gente è abituata a bere.
Bisogna puntare sulla qualità, a prescindere da chi la propone, e parallelamente impegnarsi a formare i consumatori interessati (e a interessarne altri).
Siamo in Italia, produciamo tra i migliori vini al mondo, eppure esiste anche il Tavernello.
Io dico solo una cosa: Andrea hai ragione, e l’ho detto anche prima, quando parli dei meriti del movimento artigianale. Nessuno li nega. Ora però si deve avere il coraggio di fermarsi un attimo, guardarsi intorno, e ammettere che la situazione non è proprio idilliaca. Lavorare su questo può solo che migliorare e andare nella direzione che tutti auspichiamo.
Ehm, Schneider è un birrificio indipendente. Grosso, ma indipendente.
Ehm… l’indipendenza è esclusivamente uno dei parametri della legge italiana per definire una birra “artigianale”.
A cosa vorresti alludere? Vorresti suggerire che Schneider sarebbe “artigianale” per invalidare un esempio invece perfettamente calzante?
Non facciamo sofismi per favore, non mi sembra contribuisca alla discussione, che mi sembra invece molto interessante e stimolante.
Lasciami dire che seguo questo blog da anni, e se sto scrivendo qui è perchè ne apprezzo la linea editoriale e trovo utile questo confronto. E non per fare polemica, che francamente trovo sterile in ogni situazione.
Il senso dei miei interventi è proprio quello di far riflettere sul fatto che
1) forse si sta facendo un po’ troppo allarmismo su queste acquisizioni
2) che si sta perdendo di vista il vero obiettivo e i veri interessi dei consumatori in nome di una demonizzazione assoluta dell’industria.
Tanto per dirla tutta, anche a me non piace l’industria (in generale, mica solo quella della birra), ma questo che c’entra con gli interessi dei consumatori?
Cordialità
Marco
Marco tutto il mio pezzo parla di indipendenza, non della definizione di birra artigianale. Quindi, se permetti, il fatto che Schneider sia indipendente non è né una polemica, né un sofismo, ma un aspetto fondamentale. Riassumo: per me l’obiettivo ultimo dei consumatori dovrebbe essere bere bene e meglio, indipendentemente da tutti gli altri discorsi. Poi se vogliamo analizzare queste acquisizioni nell’ottica delle future evoluzioni del mercato, secondo me non sono positive per la birra di qualità, almeno nel lungo termine. Ergo, considerarle irrilevanti finché non toccano il tuo birrificio preferito è un atteggiamento sbagliato per i motivi che ho espresso.
Schneider è un’industria. Produzione annua 300.000 ettolitri, vende in Germania ed in altri 27 paesi, Fonte Wikipedia. Potrei citarne qualche centiniaio nelle stesse condizioni: processi artigianali, su scala inustriale, qualità elevata e prezzi equiparabili ad altri prodotti pessimi industriali.
Mi scrivi in risposta, che non sei Alice nel paese delle meraviglie, mi potresti citare una tua critica ad un birrificio, ad una iniziativa, ad una birra, che non abbia a che fare o che non si presuma abbia a che fare con l’industria?
Ne gioverebbe la tua credibilità. Auspichi competenza da parte dei distributori e giustamente la pretendi. Sappi che di competenza vera in Italia ce n’è davvero poca, a tutti i livelli dai produttori, ai distributori, ai pubblican e non parliamo degli avventori. Criticare cose strampalate, ormai all’ordine del giorno, nel nostro settore sarebbe indice di professionalità.
Ho scritto più volte che i birrifici davvero meritevoli in Italia sono una minima percentuale. Ho scritto più volte che il problema del settore sono i prezzi per la massa. E possiamo andare avanti su tutte quelle che ritieni le storture del movimento.
Su Schneider leggi la risposta a Marco.
Sul resto credo di aver dato fin troppe risposte a un distributore che commenta come un troll cambiando nick a ogni commento.
Ciao.
PS. Se vuoi trovare vera competenza professionale, devi andare nelle industrie. Che poi non la mettano al servizio dell qualità è un altro discorso.
Qui si lamenta, se ho ben capito, un regime di concorrenza sleale. La stesa concorrenza sleale, che vige grazie ai birrifici agricoli. I presupposti per una birra di scarsa qualità, in questo caso sono immediati, invece che possibili nel lungo termine, ma evidentemente gli agricoltori sono più simpatici degli industriali.
Personalmente ho sempre sollevato il problema
Eccomi. Con grave ritardo, vedo.
Caro Turco, ti lamenti che ci sia gente che guarda solo il proprio birrificio di riferimento. Potrei “anche” essere d’accordo con te, il che è già un 3/4 di miracolo.
Poi però, affermi che: “grazie alla tecnologia e ai protocolli dell’industria, la qualità nel breve e medio termine può solo aumentare. L’effetto negativo è sul mercato in sé, perché è vero che può rendere la “birra buona” più economica e reperibile, ma a discapito di tanti produttori indipendenti”.
Scusa, io cosa dovrei fare? Pagare 2 volte il prezzo di una buona birra per far sopravvivere i “produttori indipendenti”? Chi sono? Babbo Natale?
La parola “mercato” o “concorrenza” ti suggeriscono nulla? Tanto più che TU stesso dici che la qualità può solo aumentare! No: io dovrei pagare di più una birra peggiore, solo per solidarietà agli “indipendenti”? Prova a fare questo ragionamento (fantascientifico, tanto per tenere la media) per qualsiasi altro settore, e prova a sentire cosa ti rispondono sia operatori che clienti. Il mercato è stato cambiato da Anchor e da Sierra Nevada che per prime hanno introdotto il Cascade (’75 e ’83 rispettivamente): non mi risulta siano stati gli italiani “indipendenti”. Magari sbaglio. Quello che vedo, con i miei occhi, è gente che da homebrewer si inventa imprenditore senza nessuna preparazione, pensando di rientrare negli investimenti 1 o 2 anni dall’apertura: a’ bbellloo, la vita (imprenditoriale) non è questa. Questa è fantascienza. La vita delle partite Iva NON è una passeggiata de salute, qui in Italia. Magari sbaglio.
Senza considerare tutte le ottime birre belghe, inglesi, tedesche, giapponesi ed americane importate a prezzi concorrenziali. Altro che “lager” d’antan.
Guarda che io cerco disperatamente di capire cosa dici: solo che non ci riesco. E’ una mia lacuna, sicuramente.
Forse non ci riesci perché parti da presupposti sbagliati, tipo questo:
“No: io dovrei pagare di più una birra peggiore, solo per solidarietà agli “indipendenti”?”
Quindi fammi capire, dai per scontato che la birra indipendente sia peggiore. Ottimo pregiudizio per avvicinarti alla lettura dell’articolo.
Nessun pregiudizio, Turco. I pregiudizi non mi appartengono. Le esperienze sì, invece, e ti garantisco che i birrifici “indipendenti” italiani validi ci sono, ma (per miei esclusivi gusti personali) sono quelli che sono sul mercato da almeno 10 anni, con rarissime eccezioni. Nessun pregiudizio come vedi, né do per scontato nulla.
Scusa Turco, ma quello che scrive: “grazie alla tecnologia e ai protocolli dell’industria, la qualità nel breve e medio termine può solo aumentare” sei tu, non io (anche se lo penso). Che la birra indipendente sia peggiore è in re ipsa nella tua affermazione.
La mia affermazione è invece così riassumibile: non sono io cliente a dover sopperire alle tue incapacità o deliri imprenditoriali, CARO “indipendente”. Prima semina, poi, poi raccogli se mercato e tempi ti daranno conferme, altro che “tutto e subito”. Il lavoro è una cosa, Wikipedia un’altra.
Come vedi non c’è alcun modo di capirci, ma ce ne faremo una ragione.
Continui a dare una lettura morale della birra artigianale, nei modi che sono ben chiari (non chiamarli pregiudizi se vuoi, ma il discorso non cambia).
Nella mia frase ho usato un “solo” di troppo, ci sono casi (come Ballast Point) che dimostrano che l’industria può far danni già nel breve termine. Ma il punto è ciò che succede nel lungo termine, ed è su quello che si spiega il senso dell’articolo. Tu invece sei più interessato a demonizzare la birra artigianale in quanto tale.