Quello appena concluso è stato per me un fine settimana bello e impegnativo, che ho passato totalmente a Milano. Il pretesto per la trasferta è stata ovviamente la festa organizzata dal Birrificio Lambrate per il suo ventesimo anniversario, ma ne ho anche approfittato per una visita ad alcuni luoghi simbolo della birra artigianale milanese. Scrivere un resoconto nudo e crudo sull’evento e su destinazioni che tutti conoscono sarebbe alquanto inutile, perciò l’idea è di impostare il pezzo di oggi in maniera diversa. In particolare mi piacerebbe analizzare un aspetto che secondo me lega molte delle realtà meneghine di successo, ben sapendo che da esterno la mia potrebbe essere una visione deformata o non del tutto corretta. In tal caso ribattete pure alle mie riflessioni nella sezione commenti.
Partire dalla festa del Lambrate è però d’obbligo e basta sciorinare qualche cifra per restituire la grandezza dell’iniziativa: in poco più di 12 ore, infatti, sono stati polverizzati la bellezza di duecentosessanta fusti di birra, che sarebbero stati sensibilmente di più se l’orario di apertura fosse stato prolungato come consuetudine. È stata una festa straordinaria, con gente arrivata da ogni angolo d’Italia (e non solo) e con via Adelchi piena di avventori fino all’inverosimile. Le foto che stanno circolando sui social sono più esplicative di qualsiasi parola. Personalmente ho contribuito nel mio piccolo al raggiungimento di certe cifre dal primo pomeriggio fino a chiusura, divertendomi con tanti amici come nelle migliori occasioni birrarie.
L’inverosimile record registrato nella giornata di sabato spiega solo in parte il successo di un brewpub che è da anni il simbolo di uno dei quartieri più distintivi di Milano. L’affetto e l’interesse ottenuto sono la conseguenza di quel rapporto intimo e informale che la “famiglia” del Birrificio Lambrate ha creato con i propri consumatori sin dagli esordi. E che lo ha reso un punto di riferimento in zona prima ancora che nel resto della città o d’Italia. Quando passeggi per Lambrate o parli con i suoi abitanti, ti accorgi che il birrificio è parte del sentire comune di quel quartiere. È un pezzo della comunità locale, un’istituzione che rimane viva nonostante la zona sia cambiata profondamente rispetto a 20 anni fa.
Questo stretto legame con la collettività locale è un aspetto davvero entusiasmante, che, pur con le doverose proporzioni, ho ritrovato in altri posti di Milano visitati in questi giorni. Credo sia tipico di un certo modo di vivere di alcune zone d’Italia: a Roma ad esempio non lo avverto quasi mai, nonostante l’attitudine dei suoi abitanti suggerirebbe il contrario. Evidentemente è un tipo di approccio presente in determinate società civili che ha poco a che fare – o solo in parte – con l’indole dei suoi cittadini. Ma soprattutto è una risorsa importantissima, perché permette di crescere con l’appoggio della comunità locale.
È qualcosa che ho ritrovato chiacchierando con Riccardo Berenato de La Ribalta, brewpub giovanissimo che ha aperto neanche un anno fa a due passi dal Politecnico. L’ho visitato appena arrivato a Milano, nell’unico momento utile prima del delirio lambratese, ed è stata un’esperienza molto interessante. I ragazzi hanno costruito da zero l’edificio che ospita il birrificio e il locale, riuscendo ad adottare alcune soluzioni tecniche e logistiche davvero ingegnose. La freschezza del progetto unito all’ottimo livello qualitativo delle birre ha permesso a La Ribalta di affermarsi velocemente nella zona, ma il bello è che ci sono enormi potenzialità di crescita ancora inesplorate. In questa ascesa il legame con la comunità di un quartiere in rapida trasformazione sta giocando un ruolo fondamentale, senza considerare l’immenso bacino di consumatori che potrà portare loro la vicina università.
Da un certo punto di vista qualcosa di simile sta accadendo anche con il Bere Buona Birra di via Adige. Si tratta di un beershop di concezione “moderna” che è riuscito a radicare in città un format che poco si adatta allo stile di vita dei milanesi – non per niente è l’unico che ci è riuscito realmente. Qui non si avverte lo stesso legame con il quartiere come nei due precedenti esempi, ma Filippo Garavaglia ha avuto comunque l’abilità di creare una piccola comunità intorno al suo negozio tale da decretarne il successo. L’atmosfera che si respira è unica: c’è un misto di cazzeggio, profonda competenza birraria, interesse per le forme d’arte underground e un tocco di sana follia. Al Bere Buona Birra non ci si va solo per bere bene, ma anche solo per fare due chiacchiere e passare qualche ora di svago. È il motivo per cui anche qui si è creata una “famiglia” intorno al locale, che è poi secondo me il segreto del suo successo.
Visitando tra sabato e domenica questi tre posti ho dunque avuto l’impressione che il legame con la collettività sia fondamentale in una città come Milano. Questo sembra tanto più vero in un contesto in cui la birra artigianale ha spesso stentato rispetto alle reali potenzialità del mercato. Ma in fin dei conti, è poi così assurdo? La birra è socializzazione, condivisione, legame tra publican e consumatore. Allora forse è meglio avere pochi posti birrari che si fondano su determinati valori che decine e decine di locali che non possono vantare lo stesso autentico rapporto con la propria clientela. E ogni riferimento è puramente casuale 😉 …
Ciao, lo spunto è interessante, ma a mia opinione, che vivo a Milano da più di undici anni, che ho visto nascere tante realtà birraie, un po’ forzato nelle conclusioni.
Per Lambrate il legame col quartiere è davvero tangibile, pur rivolgendosi ad una clientela ben precisa e niente affatto diversificata: secondo una teoria non priva di un certo fondo di verità, lo Skunky è stato paradossalmente la capostipite ma anche la carnefice dello sviluppo birraio milanese.
Ha creato in un popolo molto attento (succube) alle tendenze, un’identità fra mondo della birra artigianale ed certo immaginario pseudo alternativo, trasandato e fumosamente confusionario, che ha tenuto lontano a lungo una buona parte della potenziale clientela. Confesso che è l’impressione che ha dato anche a me le prime volte; forse era la ragione per cui mi piaceva. Ed in fondo, anche se le birre sono diventate troppe e spesso troppo poco longeve, ancora mi piace.
La Ribalta, di cui sono stato uno dei primissimi clienti, seconda sera di attività, è un esperimento, onestamente distante e poco affine alla storia del quartiere. Certo potrebbe diventare un punto di riferimento per lo stesso, considerando l’università ed il potenziale della Bovisa, ma fatico a vedere presente un legame con la comunità, attualmente.
Ancora meno reale, sinceramente, l’esempio di BBB, che ha si creato una piccola microcomunità, ma del tutto slegata dal quartiere, che è secondo me in continuo invecchiamento ed imborghesimento e poco c’entra con il simpatico locale di Filippo.
Altri numeri al momento, ed un po’ di strada da fare per il piccolo Birrificio Brioschi, che invece ha più le stigmate di birrificio di quartiere, forse perchè colma in parte un vuoto di presenze e convivialità in una zona dignitosa ma poco entusiasmante.
Coerente alla tua riflessione anche La Pazzeria, che ha saputo legare a sè la frequentazione di un quartiere in maniera assolutamente costante.
In generale ho un’altra teoria. Cosa che davvero differenzia Milano da Roma sono le dimensioni: Milano è una città piccola, da Sesto san Giovanni a Corsico, due paesi, belli o brutti che siano, con una propria struttura civica, piazze, centro, c’è la metà della distanza che corre fra Roma Nord e le Capannelle. Questo porta naturalmente il milanese ad essere più radicato nella sua fitta realtà di quartiere, a considerare un paio di chilometri come l’equivalente della cosiddetta casadiddio ed a prediligere la propria zona come principale spazio vitale. Se si lavora decentemente si ha molta più facilità di fidelizzare un cliente, tanto che a Milano c’è un’affezione per i propri posti di fiducia che non ho mai riscontrato in città che di natura vivono in maniera più randagia, Roma così come l’immensa provincia italiana, in generale. Per cui ben vengano nuovi birrifici che sappiano offrire una bella proposta: a Milano c’è ancora spazio e clientela che cerca il suo posto.
Interessante la tua riflessione sul tipo di influenza che ha avuto il Lambrate/Skunky sulle evoluzioni della birra artigianale milanese. Forse è un pelino esagerata, però conferma quanto mi è capitato di ascoltare in altre situazioni. Ma se davvero c’è stata una “ghettizzazione” del cliente tipico del Lambrate non è certo per colpa del birrificio, quanto di uno dei limiti di Milano che fa da contraltare alla virtù che ho sostenuto nell’articolo.
Riguardo al BBB ho sostenuto proprio ciò che tu dici: ha creato una comunità, ma non legata al quartiere
Chiedo venia anche per il mio affermare che questo blog è troppo Roma-oriented: un’altra Poretti n-luppoli per me. 😉
Eheh, occhio a un consumo eccessivo di Poretti!
Ci sono posti così anche a Roma… L’Hopificio è un locale frequentatissimo dalla gente dell’alberone e zone limitrofe, un vero pub di quartiere.
Idem il Barley Wine, frequentato da moltissimi locals… A San Giovanni Johnny’s off License è un’istituzione, ormai ci conosciamo tutti e abitiamo tutti in zona ed vi si ritrovano persone di ogni età…
E’ normale che se ci avventuriamo in zone più “turistiche” questa identità si perde, ma ti assicuro che i posti citati l’anima del quartiere ce l’hanno eccome.
Riccardo non parlo della clientela stabile, che chiaramente finisce per creare una piccola comunità. Il legame con il quartiere è qualcosa di più profondo e trasversale rispetto alla (più o meno) stretta cerchia dei regulars. Essere un’istituzione significa rappresentare un simbolo non solo per i clienti affezionati, ma anche per tutti gli altri abitanti della zona che magari non hanno messo mai piede in quel luogo. È un meccanismo che si innesca solo se esistono determinate condizioni: secondo me conta ad esempio la durata dell’attività, ma anche le caratteristiche del quartiere.
Mai stato a Milano.