A giugno 2017 pubblicai su Cronache di Birra un articolo in cui illustravo come la moda internazionale per la frutta esotica si fosse diffusa anche tra i birrai italiani. Era un periodo in cui si susseguivano con una certa regolarità produzioni con mango, passion fruit, papaya, cocomero, melograno e persino frutti sudamericani poco conosciuti alle nostre latitudini. A distanza di quasi un anno e mezzo possiamo affermare che quella tendenza non si è certo raffreddata: gli esperimenti dei nostri birrifici sono continuati, indagando di volta in volta l’impiego di determinate varietà . In questo momento specifico il cocco sembra essere molto quotato e non è un caso che al recente Ballo delle Debuttanti fossero presenti ben 2 creazioni (su 15) caratterizzate dall’uso di questo ingrediente. Rispetto ad altri frutti esotici, abbiamo una certa familiarità con il cocco, sia perché ha un gusto assolutamente peculiare, sia perché è ampiamente adottato dall’industria alimentare. Inoltre, il suo utilizzo nella produzione brassicola può entrare in gioco in fasi e modi diversi, con alcune conseguenze non sempre desiderabili. Ecco perché il suo impiego merita un approfondimento ad hoc.
Per capire come il cocco può essere impiegato in una ricetta birraria, partiamo proprio dalle due debuttanti dell’evento inaugurale della Settimana della Birra Artigianale. La Cocomoon (6,2%) del Birrificio Amerino è una Breakfast Stout che ricorre a una grande quantità di cocco in diverse fasi della produzione. Arriva persino a rappresentare il 15% delle materie prime totali e contraddistingue il profilo organolettico insieme ad altri due ingredienti speciali: la vaniglia Bourbon e il caffè Baba Budan. La seconda debuttante è invece La Ruzza (7,2%) del birrificio agricolo La Gramigna, che aggiunge il frutto su una base ispirata alle Robust Porter e solo in fermentazione. Per la cronaca, la ricetta prevede anche l’impiego di lattosio e fiocchi d’avena per conferire cremosità e rotondità al palato.
Quelle di Amerino e La Gramigna non solo però le sole birre italiane con cocco. A suo tempo riscosse parecchia curiosità la Bounty Killer (9,6%) di Extraomnes, un’Imperial Porter realizzata con l’aggiunta di fave di cacao e polpa di cocco essiccata: l’idea era di richiamare a livello olfattivo le caratteristiche aromatiche del Bounty, la barretta di cioccolato che avrà sicuramente scandito l’infanzia (o l’adolescenza) di molti di voi. Il Birrificio Pontino, non nuovo all’utilizzo di frutta tropicale nelle sue birre, ha lanciato a fine 2018 la sua Black Swan (9,5%): un’Imperial Stout al caffè, che tuttavia prevede anche l’aggiunta di cacao, vaniglia e, ovviamente, cocco. Interessante invece l’impiego che ne ha fatto il birrificio marchigiano Babylon, che in collaborazione con i brasiliani di Deoravida ha creato l’Aruake Malabar (4,8%): una Catharina Sour in cui il cocco gioca un ruolo complementare con l’altro frutto esotico impiegato, cioè la guaiava. Infine va segnalata quella che dovrebbe essere stata la prima birra italiana al cocco: la Sixheaven (7%) di Eastside, che aggiunge l’ingrediente speciale (tostato) a una base modellata sulle caratteristiche delle American IPA.
Come dimostrano le ultime due produzioni citate, il cocco non viene utilizzato per aromatizzare esclusivamente birre scure. Tuttavia la dolcezza e la forza rinfrescante del frutto ben si adatta a smorzare le asperità e la durezza dei malti scuri, riuscendo nel contempo a fornire ulteriore complessità aromatica e, in caso di birre forti, a nasconderne il contenuto alcolico. Come abbiamo visto però l’ingrediente trova legittima cittadinanza anche in birre acide o in IPA di stampo moderno, se non come aggiunta a stili totalmente diversi. Come racconta il sito Craft Beer, ad esempio, negli Stati Uniti esiste la Cononut Quad di Lickinghole Creek realizzata sul modello delle Quadrupel belghe e la Mash and Coconut di The Bruery, che innesta il cocco su un Barley Wine affinato in legno. Chiaramente non mancano le Coconut IPA, come quelle di Half Acre, Denver Beer Co., Almanac, Belching Beaver e altri. Secondo il magazine Draft, una delle prime birre al cocco comparse negli USA fu la R&R IPA di Stone, realizzata in collaborazione con gli homebrewer Robert Masterson e Ryan Reschan – quest’ultimo è oggi il birraio di Resident Brewing, per la quale produce una Coconut IPA chiamata Vacation e disponibile tutto l’anno.
Interessante è questo articolo comparso su Homebrew Talk che spiega come utilizzare il cocco durante il processo brassicolo, perché oltre a illustrare le modalità di impiego apre una finestra sui possibili effetti indesiderati di questo ingrediente. Innanzitutto occorre decidere quando impiegarlo: come abbiamo visto al Ballo delle Debuttanti ci si può concentrare su un momento specifico (per La Ruzza è impiegato solo “a freddo”) o su più fasi della produzione (cosa che avviene per la Cocomoon di Amerino). Il secondo elemento di variabilità è dato dalla “forma” con cui il cocco è impiegato. Fondamentalmente le possibilità sono tre: chips, estratto e latte. A loro volta le chips possono essere dolci o “neutre”, essiccate o naturali. La preferenza di Frank Lockwood, autore dell’articolo, è per l’uso di chips non dolci esclusivamente nella fase di fermentazione secondaria, ma chiaramente molto dipende dal tipo di birra che si vuole ottenere.
Come accennato, l’utilizzo di cocco nella produzione brassicola comporta alcune problematiche. La più importante riguarda gli oli contenuti nel frutto, che possono compromettere drasticamente la formazione della schiuma. Ancor più grave è una presenza eccessiva di oli, perché può trasformare rapidamente il profilo aromatico della birra rendendolo decisamente sgradevole. È dunque una brutta bestia da gestire, poiché bisogna trovare il giusto equilibrio – e le corrette modalità di impiego – affinché il cocco sia sufficientemente percepibile, ma senza rovinare la resa finale. Inoltre i residui di cocco possono essere molto difficili da rimuovere dai tini di produzione, rendendo la pulizia post cotta un’esperienza davvero impegnativa.
Al di là delle difficoltà tecniche che comporta l’utilizzo di questo frutto, è innegabile che una birra al cocco ben riuscita può rappresentare un prodotto davvero intrigante, capace di incuriosire e di rivelarsi un successo ben oltre le più rosee previsioni. In Italia siamo ancora in una fase sperimentale del suo utilizzo, però l’ottima riuscita di alcuni prodotti potrebbero spingere altri birrai a misurarsi con questa affascinante sfida.
Mi piacerebbe sapere quanto è rimasto di birra in certi prodotti e quanto è rimasto del brassare nel realizzarli? Ormai se a qualcuno viene un’idea malsana, tutti lo seguono, perché non hanno altre direzioni da prendere, direi che siamo alla frutta.