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AB Inbev rinuncia anche a Pilsner Urquell: il futuro delle acquisizioni è solo craft?

Come per ogni grande acquisizione industriale, la vicenda della fusione tra AB Inbev e SabMiller ha da tempo assunto le fattezze della telenovela. D’altro canto era difficile immaginare il contrario, visto che stiamo parlando rispettivamente della prima e della seconda multinazionale del settore al mondo e di un’operazione da più di 100 miliardi di dollari. Per le forze coinvolte in campo, è stato evidente sin da subito che il gigante nato da queste nozze avrebbe raggiunto dimensioni inverosimili, operando in una condizione di quasi totale monopolio. Una situazione che non sarebbe sfuggita all’antitrust e che ha convinto SabMiller a cedere alcuni dei suoi assets: se negli scorsi giorni avete letto della cessione di Peroni ad Asahi, sappiate che il motivo della vendita è da ricercare proprio in analisi di questo tipo. Ma la mossa preventiva dei due colossi sembra non aver impietosito la Commissione europea, che piuttosto ha rilanciato imponendo ulteriori condizioni.

In particolare Bruxelles avrebbe imposto ad AB Inbev di vendere tutte le principali attività birrarie di SabMiller in Europa. Come riporta Repubblica, tra i tanti marchi maggiori che possiede la multinazionale sul nostro continente, ce n’è uno particolarmente importante, anche da un punto di vista storico: Pilsner Urquell. Quindi, come già successo con Peroni, anche la madre di tutte le Pils potrebbe cambiare a breve padrone, sebbene al momento ancora non siano state avanzate ipotesi sui nomi. Potrebbe tornare “europea”, finendo nella gamma di Heineken o Carlsberg – rispettivamente primo e secondo produttore del continente – oppure continuare a essere “extracomunitaria”, come lo è al momento con SabMiller (che è sudafricana).

Qualsiasi sarà il futuro di Pilsner Urquell e degli altri marchi europei di SabMiller, è indubbio che l’imposizione della Commissione europea rappresenta una batosta non indifferente nei confronti di AB Inbev. Le mosse precauzionali della multinazionale dimostrano che un certo osteggiamento era già stato messo in preventivo, ma forse neanche loro si aspettavano una risposta così decisa da parte dell’antitrust. Non è da escludere che le cessioni obbligate richieste da Bruxelles cambino totalmente il valore della fusione all’interno dei confini europei ed è automatico chiedersi se alla fine il gioco sia valso la candela. Se, in altre parola, la mega acquisizione avanzata da AB Inbev porterà i vantaggi effettivamente previsti in partenza.

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Per rispondere a una domanda del genere bisognerebbe essere esperti della materia, ma personalmente non lo sono nel modo più assoluto. La sensazione però è che questa corsa alla creazione di un unico polo brassicolo di dimensioni sempre maggiori – ricordo che la stessa AB Inbev nacque nel 2008 dall’acquisizione di Anheuser-Busch da parte di Inbev – sia giunta al capolinea, almeno in termini “globali”. Intendo cioè che la possibilità di concentrare marchi in un singolo soggetto abbia raggiunto una massa critica oltre la quale non è possibile andare per i criteri dell’antitrust.

Se un colosso come AB Inbev non può più ragionare in termini di espansione, quali alternative ha a disposizione per il futuro? Probabilmente di intensificare le acquisizioni nel mondo craft al fine di conquistare un mercato con un valore molto più elevato di quello mainstream. Una strategia che, come ben saprete, è già in atto da alcuni anni, ma che potrebbe accentuarsi nei mesi a venire. Nonostante simili operazioni riguardino ormai i movimenti artigianali di diversi paesi – non ultimo l’Italia – presumibilmente si concentreranno ancora sul mercato americano, che è di gran lunga il più maturo per mettere in atto certe strategie.

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I dati recentemente pubblicati da Draft dimostrano infatti che la birra craft statunitense ha ormai raggiunto una dimensione ragguardevole e che non rappresenta più la nicchia di qualche tempo fa. Tra le tante cifre esposte dalla testata, riassumo di seguito quelle più interessanti:

  • 12% è la percentuale di birra craft sul totale delle vendite di birra.
  • 21% è la quota di valore della birra craft sul totale del mercato della birra – notate la differenza tra la quantità di birra venduta (il dato precedente) e il valore di mercato della stessa (costa di più della birra mainstream).
  • 25% è la percentuale di birrifici che nel corso del 2015 hanno aumentato la loro produzione di più della metà.
  • 6.080 è il numero di aziende birrarie (birrifici + beer firm) attivi a dicembre 2015.
  • 620 è il numero di nuovi birrifici aperti nel 2015. Il dato è inferiore al record del 2014 (881), ma poco importa di fronte al numero molto ridotto di chiusure (appena 67).
  • 26,5% è la quota di mercato delle IPA nei supermercati. In altre parole più di una birra su quattro venduta nei supermercati è una IPA.
  • 45% è la percentuale delle persone sopra i 21 anni che affermano che nelle loro scelte d’acquisto è importante valorizzare i birrifici locali.

Numeri che solo in parte restituiscono la forza che sta acquisendo un mercato in forte ascesa. Facile dunque capire perché sta attirando le attenzione delle multinazionali, soprattutto di quelle che saranno costrette a cambiare le proprie strategie nei prossimi anni.

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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3 Commenti

  1. In genere mi sta altamente sulle palle quando l’antitrust europea si intromette nel mercato, perché a Bruxelles fanno tante di quelle puttanate in materia economica e finanziaria che la metà basta. Ma quando si parla di AB Inbev, faccio un’eccezione e dico che va bene così.

  2. Ma pilsner urquell in Italia è distribuita da Peroni (almeno così risulta in retro etichetta ) cioè da asahi. Perché Sab Miller? Grazie in anticipo per il chiarimento.

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