Negli scorsi giorni qualcuno di voi avrà notato “misteriosi” post sui canali social del sito, con riferimenti alla così detta Belgian Beer Battle. Beh, eccovi finalmente un po’ di dovuti chiarimenti. L’Ente del turismo delle Fiandre (Visit Flanders) ha invitato Cronache di Birra, assieme ad altri cinque blog, a partecipare ad un tour promozionale del Belgio. I blogger sono arrivati da Danimarca, Francia, Germania, Olanda, Stati Uniti e ovviamente Italia: oltre a me, nel gruppo c’erano un altro birrofilo, due fotografi e due scrittrici specializzate in life style e design.
Se il titolo “battle” vi fa pensare ad una competizione, vi posso confermare che avete ragione: il tutto infatti ruotava attorno ad alcune piccole sfide giornaliere tra noi blogger; alla fine di ogni giornata veniva eletto un vincitore a cui era poi assegnato un premio. Piuttosto che le gare in sé, tuttavia, sono state le altre attività giornaliere a riscuotere un grande interesse: workshop di abbinamenti cibo-birra, degustazioni, visite a birrifici, ecc. Di conseguenza non mi dilungherò molto sulla competizione, potendovi assicurare comunque che il vostro “ambasciatore” se l’è cavata egregiamente (se avete curiosità non esitate a chiedere!). Il tour è stato diviso in sei tappe: Fiandre Occidentali, Fiandre Orientali, Anversa, Bruxelles, Lovanio e Mechelen. Quindi partiamo con la prima tappa del nostro viaggio, incentrata sulle Fiandre Occidentali.
Il primo giorno siamo partiti dalla capitale Bruxelles per ritrovarci in un’altra, per così dire, capitale… quella del luppolo: Poperinge. Il paesino di Poperinge è infatti da secoli legato alla coltivazione del luppolo. Per decenni, nel periodo della raccolta, la sua popolazione raddoppiava, ospitando migliaia di lavoratori temporanei giunti dai paesi vicini. Un tempo le piantagioni di luppolo si estendevano a perdita d’occhio, oggi invece non sono tanti i coltivatori in Belgio – solo 23 – e molti di questi li potete trovare proprio attorno alla zona di Poperinge. Il mercato belga è dominato dalla varietà Target, e in misura leggermente minore da altre varietà che si trovano anche nel resto dell’Europa, come il Magnum o l’East Kent Goldings.
Da qualche anno alcuni produttori hanno cominciato a sperimentare varietà dal nuovo continente, tra cui il Cascade, che ho potuto annusare col mio stesso naso. Quest’ultimo pare abbia preso bene, ma ovviamente l’aroma è diverso dall’equivalente americano, per via del differente terreno e condizioni climatiche. Non per niente tra i coltivatori si sta diffondendo una parola generalmente associata al vino: terroir, un concetto che racchiude tutto ciò che va ad influenzare il prodotto finale, sia questo suolo, clima, esposizione al sole, ecc. Il governo delle Fiandre sta da qualche anno correndo ai ripari per limitare la continua diminuzione di piantagioni di luppolo in Belgio.Una delle campagne più riuscite è stata quella legata al logo “Belgian Hops”, che può essere stampato su qualsiasi bottiglia di birra belga a patto che la ricetta preveda l’utilizzo di almeno il 50% di luppolo belga.
Ma le piantagioni non sono l’unica cosa da visitare a Poperinge. Il paese ospita anche un eccellente museo tutto dedicato al magico ingrediente che sta trainando la rivoluzione birraria mondiale. È diviso in quattro aree, ognuna delle quali dedicata a diversi aspetti della produzione: storia, metodi di coltivazione, metodi di raccolta e utilizzo, inclusi usi alternativi alla birra (infusi, medicine, cuscini!). Una delle sfide più interessanti a cui sono stato sottoposto è avvenuta proprio al museo. Ci sono state spiegate rapidamente le caratteristiche di alcune varietà di luppolo (Target, Golding, Magnum, Cascade) che abbiamo poi dovuto riconoscere tramite “assaggio”. A mio parere è un’ottima attività didattica, e credo proprio la replicherò durante i miei corsi.
Se vi considerate amanti del luppolo non vi potete far mancare, prima o poi, una visita a Poperinge e dintorni. E se ancora non vi ho convinto, vi basti sapere che a pochi minuti di macchina si trovano la “leggendaria” abbazia trappista di Westvleteren e l’ottimo birrificio St. Bernardus. Non solo i due birrifici sono geograficamente vicini, ma condividono anche buona parte della loro storia. Per essere precisi, condividono una ricetta, quella della celeberrima Westvleteren 12, considerata da molti “la birra migliore al mondo” (su questo torneremo dopo).
Mi sono trovato a parlare con Marco Passarella, marketing manager di St. Bernardus, che mi ha raccontato dei rapporti tra St. Bernardus e Westvleteren. L’abbazia di St. Bernardus fu fondata nel 1904 dai monaci trappisti di Mont des Cats, arrivati in Belgio dalla vicina Francia. Al tempo vi si produceva formaggio. L’abbazia fu poi venduta a Evarist De Koninck nel 1934, che continuò a far formaggio. Nello stesso periodo però cominciò anche una collaborazione con l’abbazia di St. Sixtus (Westvleteren). Dal 1946 questa collaborazione prevedeva che St. Bernardus si occupasse della birrificazione per Westvleteren. Ad occuparsi della produzione era uno dei monaci di Westvleteren – Mathieu Szafranski – il quale portò a St. Bernardus un ingrediente cruciale, il lievito di Westvleteren!
Nel 1992, quando il contratto di collaborazione tra St Sixtus e St. Bernardus scadde, i monaci di Westvleteren ricominciarono a birrificare per conto loro… ma con un lievito diverso. A St. Bernardus, invece, continuarono a produrre con lo stesso lievito, ma sotto diverso nome, come d’altronde fanno tutt’oggi. E c’è di più: ogni mille bottiglie di St Bernardus Abt 12 il monaco ritratto sull’etichetta fa l’occhiolino. Siete intrepidi collezionisti? Non aspettate altro che un frate ubriaco vi ammicchi? Allora è caccia aperta.
Dunque eccoci qui: due ottime birre dalla stessa ricetta, la St Bernardus Abt 12 e la Westvleteren 12. La prima sostiene essere “l’originale Westvleteren”, mentre la seconda “la birra migliore del mondo”. Perché la migliore? Innanzitutto per il fattore “frutto proibito”, poiché la difficile reperibilità di un prodotto è direttamente proporzionale all’aumento della sua aurea leggendaria. Inoltre va detto che la Westvletern 12 è davvero ottima, per tutti i palati, e ne ho le prove. Un’altra delle sfide cui siamo stati sottoposti è stata una degustazione alla cieca di quattro birre, tra le quali dovevamo riconoscere proprio la Westvleteren 12, presente insieme a St Bernardus Apt 12, St Bernardus Prior 8 e Grottenbier (sempre di St Bernardus). A chi non avesse mai provato la Westvleteren è stato dato un suggerimento: «scegli quella che secondo te è la birra migliore al mondo». Su sei persone, di cui quattro sapevano poco o nulla di birra, tutti hanno riconosciuto la Westvleteren! – per la cronaca io ho la coscienza pulita: riconosciute tutte e quattro, ergo bandiera di Cronache onorata a dovere 🙂 .
Il principale punto di forza, a mio parere, sta nel suo carattere suadente e morbido, senza alcuno spigolo, e soprattutto nell’incredibile capacità di nascondere l’alcol, in particolar modo se paragonata alla St. Bernardus 12. Detto ciò, non so se la posso considerare la migliore birra al mondo. Voi?
Anche le altre birre, Prior 8 e Grotten, sono ottimi prodotti. La Grottenbier, per esempio, con i suoi caratteri erbacei su ricetta del leggendario Pierre Celis, è davvero una birra dalle mille sorprese. Alla fin dei conti vi posso assicurare che la zona merita davvero una visita. La campagna è stupenda e se proprio vi volete trattare bene, potete alloggiare al B&B del birrificio St Bernardus: è un posto stupendo, le camere sono incantevoli, ma il punto di forza è sicuramente il salotto, ammobiliato per farvi sentire a casa <mia? DSC06595>. D’altronde non c’è niente di meglio che attingere senza soluzione di continuità alla riserva di St Bernardus nella credenza. E non c’è niente di peggio che svegliarsi la mattina dopo alle 6,00 per raggiungere la tappa successiva, soprattutto se si è attinto un po’ troppo, come è capitato al sottoscritto.
Alla prossima puntata…
Io (gusti personali, ovvio) ho sempre preferito la Rochefort 10 alla WV 12. Note di cioccolato più marcate e warming etilico più presente, giusto per citare i primi 2 aspetti che mi vengono in mente. A questo aggiungi poi il discorso del prezzo: la menata “la vendiamo solo al monastero, prenotatevi ecc.” è senza senso (in Belgio tra un po’ la vendono pure nei negozi di souvenir) e serve solo a creare i presupposti per una catena di distribuzione ultra-speculativa.
Ciao Enrico, grazie per il tuo messaggio.
Concordo, la Rochefort 10 è un’ottima birra, e io personalmente la adoro 🙂
In quanto alla West12: è vero, si trova un po’ ovunque, soprattutto nei negozi del centro di Bruxelles a prezzi stratosferici. C’è da dire però che i monaci su quelle non ci guadagnano nulla. Anzi, in realtà sarebbe illegale rivendere le loro bottiglie, ma purtroppo tutti chiudono un occhio…o anche due.
D’accordissimo ! E’ proprio il fatto che i Monaci non ci guadagnano che mi porta a dire che è senza senso mantenere una linea di vendita che legittima pratiche speculative (almeno ci guadagnassero potrei capire la logica…).
Bel post, Jacopo 😉 Ti seguirò anche nel resoconto delle tappe successive.
Cmq la WV 12 l’ho bevuta solo una volta (per questioni di prezzo) e a sorprendermi fu proprio la sua notevole morbidezza, che la Rochefort 10 non ha. Ma al di là di questo, non saprei dire quale sia migliore. A dividerle ci saranno pochi decimi o centesimi di punto.
Grazie mille Michele! 😉