Cosa si può imparare sulla birra da un viaggio a tema in Slovenia? Apparentemente niente di più di quanto uno ha già appreso in tanti anni di “militanza”, oltre che di scorribande birrarie in giro per le nazioni che hanno scritto la storia della bevanda. Eppure visitare una piccola realtà come quella slovena può essere fonte di riflessioni interessanti, che partono da un movimento artigianale agli albori per poi allargarsi a ragionamenti che includono l’intera scena internazionale. Un movimento che sta compiendo i primi passi e che però già mostra evidenti contraddizioni, seppur accompagnate da elementi molto positivi.
Partiamo da alcuni dati per spiegare il contesto in cui si sta sviluppando la birra artigianale in Slovenia. Come già spiegato martedì scorso, il paese ex jugoslavo è poco più grande del Veneto e ai margini della Top 10 mondiale tra le nazioni col più alto indice di consumo pro capite di birra. È inoltre uno dei maggiori produttori di luppolo del pianeta, con alcune varietà autoctone largamente utilizzate (Aurora, Styrian Golding) e altre più moderne, nate in tempi recenti (su tutte lo Styrian Wolf). Ovviamente il mercato è dominato dai marchi dell’industria, principalmente Lasko e Union, entrambi di proprietà della multinazionale Heineken. È un paese dunque estremamente devoto alla birra, che – inutile specificarlo – è considerata la bevanda nazionale. Ciononostante, fino a qualche anno fa non c’era neanche l’ombra di veri birrifici artigianali. E questo è il primo punto da cui partire per la nostra analisi.
Un movimento in fase embrionale
Escludendo le beer firm, oggi i birrifici artigianali in Slovenia sono circa cinquanta, molti dei quali aperti in tempi recentissimi. Compiere un viaggio birrario in quelle terre significa dunque respirare un’atmosfera davvero pionieristica, che in Italia potevamo trovare una ventina di anni fa. È una sensazione ambigua, perché da una parte si percepisce l’entusiasmo proprio dei fenomeni appena partiti, dall’altra ci si confronta con realtà ancora acerbe – attenzione però, non sto parlando della qualità delle birre, che è indipendente da questo discorso. Prendiamo il primo birrificio che abbiamo visitato, Carniola: aprì nel 2013 quando in tutto il paese erano attivi solo altri quattro microbirrifici e il birraio, Rok Rutar, svolge ancora oggi la sua professione part time con un impianto che sembra giusto un upgrade delle tipiche attrezzature da homebrewing. I ragazzi di Hopsbrew operano in un contesto praticamente identico (ma non in regime di part time), mentre Maister Brewery è riuscita a imporsi pesantemente sul mercato senza doversi confrontare (almeno fino a oggi) con il limiti insiti nel suo stato di beer firm.
In realtà in Slovenia esistono realtà ben più evolute. Escludendo Bevog – non tanto perché situato in territorio austriaco, ma perché rappresenta un caso isolato in termini di “filosofia” e di investimenti – situazioni un po’ più strutturate sono rappresentate da Tektonik e Pelicon, che mostrano di aver già compiuto uno step evolutivo in più rispetto ai nomi snocciolati precedentemente. Nel complesso però la scena è davvero giovane e in veloce evoluzione, con caratteri talvolta in contrasto. Vediamo perché.
La birra costa poco, troppo poco
Una delle considerazioni che più mi sono rimaste impresse nei miei anni di esperienza nel mondo della birra artigianale fu quella dell’amico Evan Rail. Quando gli posi una domanda sul basso costo della birra in Repubblica Ceca – è lì che vive da anni, pur essendo americano – mi aspettavo che la considerasse un importante vantaggio per i consumatori. Invece mi rispose in maniera diametralmente opposta, sottolineando come la disponibilità di birra a basso costo la faceva percepire presso la popolazione come un bene scontato, non degno di particolare attenzione. Una premessa che ovviamente rende complicato intavolare qualsiasi discorso sulla qualità della bevanda e che compromette perciò la diffusione stessa della cultura birraria.
Ho percepito qualcosa di simile anche in Slovenia. I microbirrifici qui non devono cercare di avvicinare i consumatori a un prodotto trascurato (come può succedere in Italia con il predominio culturale del vino), piuttosto devono farsi strada cambiando aspettative e abitudini consolidatesi nei secoli. E chiaramente devono rimanere in linea con i prezzi: un boccale da mezzo litro alla tap room di Carniola costa 2 euro, qualche centesimo in più una bottiglia dello stesso formato da Hopsbrew. Per affrancarsi da certi meccanismi bisogna cambiare qualcosa: è il caso di Tektonik, che allo stesso prezzo esce con bottiglie da 33 cl, ma ha sede a Lubiana – dove trovi craft beer a ogni angolo – oppure di Maister e Bevog, che danno l’impressione di rivolgersi espressamente alla “nicchia” dei beer geek.
L’appiattimento negli stili proposti
Dovendo distinguersi da un concetto di birra profondamente radicato nella popolazione – cioè quello di una bevanda semplice e a buon mercato – i microbirrifici hanno la chiara necessità di rompere completamente gli schemi per non ritrovarsi a competere in un mercato nel quale non hanno possibilità di emergere. Un aspetto ovvio e che avevo messo in preventivo prima di partire, ma che mai avrei pensato concretizzarsi in un’evidente omologazione produttiva: tutti i birrifici visitati, senza alcuna eccezione, si concentrano quasi esclusivamente su tipologie americane, seguendo la moda delle luppolature generose e moderne. Tutto il viaggio è stato un trionfo di American Pale Ale, American Ipa, American Red Ale, Porter (ovviamente in chiave statunitense), Golden Ale. Di basse fermentazioni neanche l’ombra, per non parlare delle Weizen. Tantissimi luppoli americani, qualche varietà del Pacifico e quelli sloveni usati solo in amaro. Una monotonia che si è interrotta solo saltuariamente, come nel caso della splendida Witbier di Tektonik.
Sembra assurdo che in una nazione in cui le Lager sono ampiamente consumate, i birrifici artigianali decidano di intraprendere una rotta diametralmente opposta. Come capita in questi casi il paradosso è alle porte: possibile che per negare l’omologazione dell’industria si finisca ad alimentare un’altra omologazione, persino più stridente? A quanto pare in Slovenia le leggi del mercato contemporaneo della birra craft vengono prese seriamente in considerazione.
La preparazione dei birrai
Finora abbiamo parlato di un movimento giovane, con dei limiti evidenti nonostante le grandissime potenzialità. C’è però un dettaglio molto interessante, che in Italia dovremmo prendere seriamente in considerazione. Sebbene molti birrai siano partiti da esperienze di homebrewing, quasi tutti hanno compiuto un iter formativo specifico prima di aprire il proprio birrificio. L’impressione è che il mestiere del birraio sia considerato estremamente importante e quasi nessuno si immaginerebbe di cominciarlo senza aver prima conseguito un diploma in materia o un riconoscimento analogo. Questo non vuol dire saper automaticamente brassare buone birre, ma è un inizio. Un inizio che da noi viene quasi sempre trascurato.