Nel mio “Bignami per assaggiatori nerd” immagino sempre la parte in cui mi si spiega come funziono (quando assaggio) con invidiabile imparzialità e straordinarie doti comunicative, così da farmi raggiungere vette inesplorate di conoscenza con la stessa facilità con cui mi scolo una pinta. Fortuna che non avete le mie stesse aspettative (…), perciò posso rilassarmi e iniziare anti-democraticamente con ciò che preferisco. Dunque, eccomi a parlare di olfatto e della stretta relazione che ci lega al mondo odoroso. Credo sia utile avere un’idea verosimile di com’è progettato lo strumento per usarlo meglio, a maggior ragione quando, come in questo caso, è così potente da guidare, spesso inconsciamente, le nostre scelte (non solo alimentari).
Com’è fatto e come funziona?
Se lo andassimo a chiedere ai ricercatori che ne stanno indagando i meccanismi, ci direbbero di averne compreso abbastanza chiaramente l’anatomia, ma di non avere ancora risolto alcuni enigmi su fisiologia e genetica. Ci direbbero che le cellule preposte all’individuazione degli odori sono veri e propri neuroni dotati di terminazioni specializzate dette ciglia (che compongono l’epitelio olfattivo) sulle cui sommità sono presenti le proteine a cui si legano le molecole odorose presenti nell’aria che inaliamo, e che proprio l’epitelio è l’avamposto nella percezione degli odori. Non è chiaro però come avvenga il meccanismo di interazione odore-neurone. La teoria più supportata pare essere quella della forma, in cui la molecola odorosa viene riconosciuta dal neurone in base appunto alla sua forma. Ogni molecola attiverebbe dunque il neurone che “le calza meglio”, un po’ come una chiave apre una specifica serratura e serrature simili. Non sono chiari nemmeno i meccanismi genetici in base ai quali viene “scelto” quale neurone esprimere e nemmeno come vengano attivati e combinati simultaneamente i diversi neuroni nell’istante in cui annusiamo le nostre amate, ovvero un insieme di svariate centinaia di molecole odorose. C’è uno schema prestabilito ma non è ancora stato codificato.
Ciascuna di queste “chiavi odorose”, i neuroni olfattivi, hanno prolungamenti che proseguono nei due bulbi olfattivi, a loro volta organizzati in strutture più complesse dette glomeruli, da qui lo stimolo odoroso raggiunge la corteccia olfattiva, ovvero l’area del nostro cervello che lo decodifica, trasformandolo in puzze e profumi. Come ciò accada è uno dei grandi quesiti delle neuroscienze (Kazzenger!).
Qui che succede? Lo stimolo odoroso diventa percetto e risposta. A volte siamo catapultati in un ricordo, magari ci emozioniamo pure e riviviamo così nitidamente alcune situazioni da contenere a fatica una smorfia (osservare le espressioni di chi annusa la qualunque è sempre divertente). E tutto avviene così velocemente da costringerci a berne un’altra per ritornare su quel naso (si chiama allenamento, no?). Ahinoi, tanto è veloce e potente la reazione allo stimolo, tanto può essere difficile trovare eguale acume descrittivo. Dare un nome ad un odore è spesso un esercizio frustrante: “mi ricorda qualcosa ma non riesco a dargli un nome” è tra le frasi che mi sento ripetere più spesso da quando mi occupo di formazione all’assaggio.
Sembra però che gli odori aiutino a memorizzare i ricordi, soprattutto quando sono legati ad esperienze in cui è coinvolta la sfera emotiva. Quindi risentire quegli stessi odori può riportarci in quel momento, facendoci rivivere spesso quelle stesse sensazioni. Questo meccanismo di ancoraggio, comune a tutti i sensi, sembra funzionare meglio proprio con l’olfatto, probabilmente per lo stretto legame tra odori e aree cerebrali che processano emozioni, stati umorali, ormonali e memoria (corteccia entorinale, amigdala, ipotalamo, ippoccampo). Talvolta è proprio questo legame, ovvero il modo in cui abbiamo sperimentato l’odore per la prima volta (contesto, stato d’animo,ecc) a stabilire se lo ameremo o meno, indipendentemente dal suo essere generalmente considerato puzza o profumo. Mi aiuto con un paio di aneddoti: “Oddio, questa pale ale sa di fiori, mia madre mi costringeva sempre a seguirla al cimitero da bambina…” o “Che schifo! In questo Barolo ci sento l’incenso, il funerale di mio nonno”; ma anche “Uh, che buono l’odore della puzzola, mi ricordo di quella gita con i miei genitori…”. Potremmo dire che non esistono puzze e profumi assoluti (quasi, dai), ma è piuttosto il modo in cui li sperimentiamo a farceli apprezzare o meno.
Perché è così difficile dare un nome a un odore?
L’informazione olfattiva è intimamente collegata a queste aree “antiche” del cervello ma non ha collegamenti diretti con la parte dove risiedono i centri del linguaggio. Si può dunque ipotizzare che, visti questi legami, l’odore sia fissato e rievochi uno stato d’animo, più in generale una sensazione difficile da descrivere a parole. Ma non è l’unico aspetto da considerare. Perché ad esempio uno stesso odore può generare risposte diverse, talvolta contrastanti? Il caso “coriandolo”, con cui immagino abbiate una certa confidenza, mi sembra calzante. Avrete di certo osservato o sperimentato in prima persona, il rapporto direi conflittuale con questa spezia, che ci vede divisi tra un “sa di sapone, odora di cimice, è fresco e fragrante”.
La risposta è nel DNA (come ci spiega Dario Bressanini in questo post), ovvero in quelle due “valigie genetiche” che ereditiamo e che in sintesi ci rendono unici. Variano di conseguenza il nostro modo di percepire gli odori, le nostre soglie di percezione e più in generale la nostra relazione con il mondo odoroso. A questo va aggiunta ciò che sinteticamente è riconducibile al concetto di cultura (esperienze pregresse, stile di vita, abitudini alimentari, attitudine) e non sono da escludere nemmeno gli eventuali disturbi dell’apparato (deviazioni del setto nasale, poliposi, infezioni virali, esposizioni ad agenti irritanti, ecc). Dobbiamo poi considerare la natura stessa degli odori inconsistente e fuggevole, priva di forme e colori che di certo non va d’accordo con il nostro essere mammiferi visivi, abituati a raccontare il mondo in base al suo aspetto. Dobbiamo vestirli questi odori, dargli forme e sapori, per poi descriverli spesso in modo confuso, prendendo in prestito il vocabolario di altri sensi – un odore può essere dolce? Acido? No, non direi.
Come diventare super nasi? Sfatando il mito dei nasi assoluti (fregnacce), credo non esista una ricetta standard. Tutto è utile, soprattutto quando nasce da un reale interesse, quello che ci porta ad esempio a non subire passivamente gli odori in cui siamo quotidianamente immersi, ma a chiederci cosa ci ricordino, cosa siano. Paradossalmente ciò che realmente tendiamo a dare per scontato è proprio il naso, che in ogni meccanico respiro veicola un mondo odoroso a prescindere dal nostro livello d’attenzione. Un’intima relazione (l’idea stessa che noi abbiamo della realtà), in cui trova spazio il concetto di soggettività, cui farò cenno ancora nel corso di questa rubrica. Ora però vi inviterei a fare un po’ di allenamento liquido, che m’è venuta sete.
Letture leggere (intendo digeribili) per approfondire:
Il Senso Perfetto: il blog odoroso di Anna D’Errico, neuroscienziata e ricercatrice al Max-Planck Institute of biophysics Una finestra autorevole sul mondo odoroso con notizie e curiosità.
Il Naso Intelligente: il libro di Rosalia Cavalieri offre uno sguardo interdisciplinare sul tema.
The Scent of Desire: Rachel Herz sceglie (anche) la strada dell’aneddotica per raccontare la psicologia dell’olfatto. Lettura che ho suggerito spesso.
Complimenti articolo molto interessante
Grazie Elio, sono contenta ti sia stato utile.
Mi piace il taglio dell’articolo, scientifico ma assolutamente non pesante. Vera la diversa reazione agli odori. Ho assistito spesso a cotte fatte nei brewpub. Per la maggior parte della gente l’odore sviluppatosi in cottura è attraente ed invoglia alla bevuta, a volte anche in modo irresistibile e poi arriva quello che come lo sente scappa in bagno a vomitare.
Grazie Giuseppe. Non mi è mai capitato di assistere a reazioni così ‘violente’ agli odori che si sviluppano durante una cotta (che io adoro). Però sì, alcuni odori ci dividono, a volte dipende da esperienze pregresse, altre da un’informazione ‘dormiente’ nel DNA, in quei retaggi culturali che ad esempio ci invitano alla fuga di fronte ad un potenziale pericolo (c’è chi odia tutto ciò che ha a che fare con i sentori propri della fermentazione). Di fatto è l’organo di senso più potente che entra in gioco durante l’assaggio (e non solo) ma tendiamo a sottovalutarlo. Soprattutto siamo poco consapevoli che la nostra idea del ‘cibo'(di quella birra..) sia frutto di questa personale (e mutevole) relazione tra noi e il prodotto xy.