Felicemente sorpresi dalla quantità di interazioni generata dall’articolo dedicato al quinto quarto della tradizione italiana, abbiamo pensato di indagare cosa accade sul tema anche in alcune cucine nel mondo. Del resto, prima della diffusione dell’attuale modello valoriale basato sulla velocità e sullo spreco, bisognava conoscere e utilizzare in maniera intelligente le (poche) risorse a disposizione. Questo riguardava anche e soprattutto la cucina: l’animale che si sacrifica per noi va sfruttato in tutte le sue possibilità, senza buttare via praticamente nulla. Sta in questa essenziale premessa il successo, nell’ambito alimentare, di quello che abbiamo definito “il quarto che non c’è”. Così ci siamo così fatti il consueto giro in cinque piatti, andando ad attingere a numerose culture gastronomiche, con risultati a nostro parere allettanti. Mettetevi comodi, dunque, gambe sotto il tavolo e birra in mano. E allontanate dallo schermo eventuali lettori facilmente impressionabili e abituati a commenti avventati. Potete tranquillizzarli: finché non capiranno, godranno comunque del nostro perdono.
Rabo encendido (Cuba)
La coda è un piatto rinomato anche in Italia, ma nella versione cubana si usa quella del toro. È probabile che l’abitudine a cucinare le parti edibili di questo imponente animale sia di origine spagnola: la tradizione della corrida, infatti, permetteva di disporre di molta carne pronta per la macellazione. Si stufa lungamente e lentamente assieme a sugo di pomodoro, peperoni e, come intuibile dal nome, peperoncino: come tutte le pietanze a cottura low and slow, terminata l’esposizione al fuoco, “il riposo” a fornello spento diventa parte essenziale della preparazione, armonizzando il tutto e permettendo l’esplosione aromatica. Generalmente, viene servita in un grande piatto con riso e si mangia rigorosamente con le mani: al di là delle dispute tra cultori del bon ton e “pratici” della tavola, senza l’utilizzo delle nostre appendici prensili sarebbe complicato stanare tutti i pezzi di carne intrappolati tra le vertebre.
In abbinamento abbiamo optato per una Oud Bruin, da scegliere tra quelle più alcoliche e meno acide, perfettamente adeguata per un cibo complesso, speziato, saporito e piccante: si innesca un gioco tra le (lievi) acidità lattiche e la parte maltata. Quest’ultima diventa un promettente elemento d’incontro necessario per un cibo così deciso e permette il connubio tra gli apporti di tostature e caramello con le multiformi e persistenti sensazioni aromatiche rilasciate dal rabo.
Rognone allo Sherry (Spagna)
Altro nobile taglio tra le povere frattaglie, con il termine rognone, in cucina, si indicano i reni degli animali macellati (preferibilmente giovani, poiché più morbidi, delicati e meno “vissuti”). In alcuni Paesi si utilizza anche la parte grassa che lo circonda (in UK, per esempio, nel Christmas pudding); altre culture alimentari non la considerano cibo (quella ebraica, per cui non è kasher); attualmente, viene utilizzato soprattutto per la produzione del sego. Esistono diverse ricette di rognone, noi abbiamo scelto la versione andalusa, che prevede polpa di pomodoro, sottili fette di lardo o strutto (che fungeranno da grasso di cottura), pepe, noce moscata, prezzemolo, eventuale pane duro a fette (che farà da “appoggio assorbente” e ulteriore consistenza aggiunta) e, ovviamente, sfumatura con lo Sherry; qualcuno lo accompagna anche con salse piccanti. Qualunque sia la versione culinaria, si prevede una breve cottura previo taglio a fette, per evitare indurimenti e favorire la scottatura esterna, lasciando rosata/morbida la parte interna.
Per l’abbinamento ci indirizziamo su una classicissima Dubbel trappista: abbiamo infatti bisogno di corpo, ripulente CO₂, malti che aggiungano tostature e fruttato e siano in grado di accogliere la nuance vinoso-ossidativa, chiusura con amaro lieve (per evitare stridori con la parte meno cotta). Se si aggiunge un condimento piccante, si può anche elevare il livello con una Quadrupel.
Andouillette (Francia)
Orgogliosa tipicità della cittadina francese di Troyes, ancora oggi tradizionalmente prodotta in famiglia, è una salsiccia di interiora che si fa con lo stomaco e l’intestino crasso del maiale, tagliati al coltello e addizionati con senape, vino bianco, prezzemolo, sale di Guérande e pepe. Ha un procedimento di insaccamento particolare, all’interno di un budello cieco (robe), tramite cordicella: una volta chiusa viene scottata in un insaporente brodo, il “segreto della casa”. Si cuoce alla brace o in padella, facendo formare una piccola crosticina; alcuni panano e friggono, nascondendo una parte della tipica aromaticità.
In abbinamento si può optare per una Rauch Märzen: la solida base maltata e la buona gasatura affrontano corpo e untuoso, mentre tostature, caramellizzazioni e affumicato incontrano e si aggiungono all’umami. Il risultato finale è ricco e coinvolgente, ideale per chi ama i sapori decisi.
Testicoli di agnello fritti (USA)
Le ghiandole riproduttive maschili vengono trasformate in piatto in numerose culture gastronomiche (in Spagna si parla di huevos de toro, nel mondo anglosassone di “ostriche della prateria”, nella nostra tradizione regionale di granelli). Probabilmente l’idea sarà venuta a quegli allevatori che, per ragioni commerciali e di gestione delle greggi, erano costretti a castrare i maschi, ritrovandosi un enorme quantitativo di testicoli e pensando che, per evitare lo spreco, si potesse tentare la via gastronomica. Negli Stati Uniti vengono cucinati quelli di agnello e di montone: panati e fritti, la cottura più golosa e camuffante, oppure cotti sulla brace: quest’ultima modalità sottolinea il carattere più rustico della ghiandola in questione, di per sé dal sapore piuttosto neutro, con un vago sentore ferroso. Consigliato l’accompagnamento con la gravy cream, una sorta di besciamella cotta con grasso animale.
In abbinamento ci vuole qualcosa di corposo, gasato e privo di tendenze amare (che rappresenterebbero un serio inconveniente per il ferroso): è l’identikit perfetto di una Dunkel Bock, adattabile a entrambe le versioni di cottura. Nel caso in cui se ne riesca a reperire una versione ben carbonata, un’alternativa valida è rappresentata da una maltata e morbida Scotch Ale.
Asado (Argentina)
In Argentina saper stare alla brace è obbligo morale di ogni cittadino che voglia essere considerato rispettabile: come il tango e il calcio, l’asado, fa parte degli elementi identitari del paese sudamericano. La sapienza nella cottura alla parrilla (griglia) si è costruita nell’era epica dei gauchos, gli addomesticatori-commercianti che radunavano enormi mandrie di animali bradi delle sterminate pampas per venderle nelle città: in questa vita selvaggia ed errante, lontani da tutto, gli unici cibi possibili erano le erbe spontanee e la carne, straordinaria perché da animali liberi. Oltre ai tagli nobili, come bistecche e filetto, gli asador più esperti e capaci sono bravi a cuocere anche quelli del quinto quarto, come la morcilla, insaccato fatto col sangue del maiale, e le frattaglie bovine: anchulin (intestino tenue), tripa gorda (intestino crasso) e matabre (muscoli dell’addome). La stuzzicante salsa di condimento si chiama chimichurri ed è composta da olio, aceto di vino, aglio, origano, prezzemolo, alloro e pepe.
Difficile abbinare una sola birra a una così generosa varietà di carni, ma indirizzandosi su una British Strong Ale ambrata difficilmente si sbaglierà: pur con tutte le possibili varianti di questo stile/non stile, disporremo di corpo, componente maltata, dote etilica, discreta carbonazione e vaghe suggestioni caramellate-fruttate, una compagna ideale per approfittare della convivialità di una grigliata. Alternativa interessante può essere un American Barley Wine, scelto tra quelli ambrati e con meno eccessi luppolati.