Ricordate il Winner Taco? Sì, proprio il gelato alla vaniglia e caramello avvolto in un taco croccante coperto di cioccolato e noccioline. Fu lanciato dall’Algida a fine anni ’90, ottenendo un discreto successo prima di essere tolto dal mercato. Tornò in auge nel 2014, quando l’azienda lo rilanciò sulla spinta di migliaia di fan che ne chiesero a gran voce il ritorno, anche attraverso una pagina Facebook creata ad hoc e seguita da 12.000 utenti. Quello del Winner Taco è passata alla storia come uno dei casi di maggior successo in Italia del cosiddetto marketing nostalgico, una strategia di comunicazione che punta a creare un legame emozionale con il consumatore, sfruttando richiami a ricordi specifici o a eventi del passato. E che ci crediate o no, è una soluzione che sta cominciando a diffondersi anche nell’ambiente della birra artigianale italiana, come dimostrano alcuni esempi apparsi negli ultimi mesi.
Per affidarsi al marketing nostalgico servono due elementi imprescindibili. Da una parte un pubblico abbastanza maturo, almeno in termini di “militanza”, che possa dunque risultare sensibile al ricordo di un consumo appartenente a un’altra epoca. Può non piacervi, ma ora quel pubblico esiste: siamo cresciuti e invecchiati a forza di bere birra artigianale, abbiamo vissuto in prima persona la crescita e l’evoluzione di tanti birrifici italiani. Il marketing nostalgico poi richiede che ci sia qualcosa da raccontare, che appartenga al passato e che sia in grado di rievocare momenti piacevoli e spensierati. Dopo quasi trent’anni di vita il settore ha accumulato sufficienti esperienze da poter attingere a un patrimonio di memorie e sensazioni suggestive, legate a una fase in cui l’approccio alla bevanda era sicuramente più scanzonato. Che non significa migliore di quello odierno, ma ha poca importanza: il passato è spesso percepito migliore del presente, secondo quell’effetto nostalgia che è proprio alla base dei meccanismi cognitivi su cui fa leva questo tipo di marketing.
Il ritorno delle luppolate vecchio stampo
Avete presente le American IPA e le American Pale Ale che venivano prodotte in Italia all’inizio degli anni 2000? Erano ambrate, con una componente maltata importante e un amaro persistente e spesso arrogante. Erano molto diverse dalle consuetudini produttive che poi hanno preso il sopravvento con le moderne West Coast IPA: birre chiare, con una trama maltata leggera, amare al punto giusto e decisamente secche. In generale ne abbiamo guadagnato in bevibilità e scorrevolezza, senza tuttavia perdere il contributo aromatico dei luppoli, che anzi è stato valorizzato ancora meglio. Quando pensavamo di esserci messi alle spalle quel controverso periodo delle IPA italiane – a parte qualche ottima eccezione, la qualità generale era piuttosto bassa anche per equivoci in termini produttivi – ci ha pensato il marketing nostalgico a riportarle in vita. Non che sia un male, sia chiaro, poiché i nomi coinvolti in queste operazioni sono di primissimo livello. Tuttavia è divertente sottolineare questo ritorno al passato che forse in pochi avevano previsto.
Ci sono due birre da cui cominciare questa rassegna per motivi simbolici. La prima è la Nostoi (6,4%) del birrificio MC-77 (sito web), prima creazione collaborativa della serie in programma nel corso del 2023 per celebrare i dieci anni dell’azienda. È presentata come “un ritorno alle Pale Ale che ci hanno fatto innamorare della birra” ed è brassata insieme a Leonardo Di Vincenzo, ex proprietario di Birra del Borgo. Troppo facile allora immaginare che l’ispirazione per questa birra sia la storica Reale, una delle primissime produzioni che fecero conoscere ai bevitori italiani le American Pale Ale prodotte con luppoli statunitensi (protagonista era il Cascade). Una birra straordinaria per l’epoca, ma esattamente in linea con l’identikit descritto poco sopra. Probabilmente saprete che la Reale fu creata da Leonardo sulle ceneri della Pioneer Pale Ale di Mike Murphy, l’attuale birraio di Lervig che all’inizio degli anni 2000 passò qualche anno a Roma, producendo le sue birre per il locale Starbess. Non dimenticate questo collegamento.
La seconda birra appartenente a questa categoria è Fernweh (7,6%) di Canediguerra (sito web), che il birraio Allessio Gatti ha prodotto in collaborazione con un birrificio norvegese. Indovinate quale? Proprio quel Lervig che abbiamo citato poco fa. Seguendo un’esplicita operazione nostalgia, la birra è definita una Retrofit IPA: difficile allora che non sia stata immaginata sul modello della Pioneer Pale Ale e delle altre luppolate vecchio stampo di Mike Murphy. Canediguerra specifica che il riferimento sono proprio le IPA di primi anni 2000, ma con versioni aggiornate degli ingredienti impiegati all’epoca.
Gli esempi non finiscono qui. Interessante è la scelta compiuta di recente da Busa dei Briganti (sito web) e Picobrew (pagina Facebook), che per la loro Sunset Boulevard (5%) si sono ispirati dichiaratamente alle American IPA del passato, ma declinandole in una chiave completamente diversa. La birra infatti è brassata partendo dalla ricetta di una Vienna Lager e poi aggiungendo luppoli Cascade e Chinook sia in bollitura che in dry hopping. Interessante poi notare come nella gamma con cui l’irlandese Rye River (sito web) ha fatto il suo debutto in Italia – è stato acquistato nel 2022 dal gruppo Warsteiner – compaia la Retro IPA (5,6%), presentata come una IPA tradizionale focalizzata sulle note di caramello dei malti.
Da notare che tutte queste birre si sono affacciate sul mercato italiano solo negli ultimi tre mesi, segno di una tendenza piuttosto evidente che sta prendendo piede in questo preciso momento storico.
Riesumare le ricette originali delle birre più famose
Un’altra tendenza in atto è la scelta di alcuni birrifici di riproporre le versioni originali dei loro cavalli di battaglia, talvolta addirittura legate al periodo dell’homebrewing. È infatti normale e fisiologico che una birra regolarmente disponibile nella gamma di un produttore cambi ricetta nel tempo, quasi sempre per adattarsi alle trasformazioni del mercato – fuori dall’Italia l’esempio più famoso è meglio documentato riguarda la Punk IPA di Brewdog. Ecco allora che un’ottima operazione nostalgia può essere la riesumazione dell’interpretazione autentica di quella amata birra, per ricordare il passato pioneristico e avventuroso di un piccolo birrificio al suo debutto, sostenuto dai primi, fedeli bevitori. Qui a smuovere le emozioni dei consumatori c’è il desiderio di rivivere una fase entusiasmante del passato o la curiosità di riscoprire una birra nella sua veste originale.
Una soluzione del genere fu adottata nell’estate del 2021 dal Birrificio Menaresta in occasione della manifestazione Verguenza Days. L’evento prende il nome da 22 La Verguenza (o semplicemente Verguenza) la celebre Double IPA della casa che fu prodotta da Marco Valeriani quando quest’ultimo, oggi birraio e proprietario di Alder, lavorava ancora per Menaresta. Tra le tre versioni speciali di Verguenza presentate durante l’evento ci fu la Vegia Verguenza (7,5%), realizzata proprio in collaborazione con Valeriani riproponendo la ricetta originale di quella gloriosa birra.
Esattamente due mesi fa, invece, il Birrificio Rurale (sito web) ha annunciato la Seta Original (5%), versione autentica di una delle Blanche più celebri d’Italia. Apripista del progetto Brewer’s Collection, la Seta Original è stata brassata sulla base della ricetta che i birrai Lorenzo Guarino e Beppe Serafini sperimentarono all’inizio della loro carriera da homebrewer: speziatura classica da Blanche con scorza d’arancia e coriandolo, grist composto da malto d’orzo, frumento non maltato e fiocchi d’avena, fermentazione ad opera di un ceppo di lievito Belgian Wit.
Altri esempi? Nel 2019, per il decennale dell’Open di Roma, il birrificio Baladin lanciò la G-Old, basata sulla ricetta della prima birra Open. All’inizio del 2022 il birrificio Foglie d’Erba lanciò la Babel Original, prodotta per i 50 anni del birraio Gino Perissutti. Fu riproposta la ricetta della primissima cotta dell’American Pale Ale della casa, utilizzando malto lavorato a terra con tecniche tradizionali e luppolo Cascade in fiore.
Conclusioni
Con l’invecchiamento del movimento e dei suoi bevitori, simili operazioni sono destinate ad aumentare, anche perché il marketing nostalgico, se ben sviluppato, garantisce ottimi risultati. Se però trovate un senso di inquietudine in tutto questo, non siete in errore: significa che noi tutti, birrai e bevitori, stiamo invecchiando. Un aspetto che non preclude, in parallelo, di raggiungere anche un target di consumatori più giovane. Insomma un ricambio generazionale è possibile, purché i birrifici siano capaci di attrarre nuovi bevitori. Quindi la morale è questa: va bene il marketing nostalgico, va bene utilizzare espedienti narrativi a cui ci siamo abituati nell’ambiente da anni. Ma occorre anche trovare strade per fidelizzare chi si sta avvicinando oggi alla birra artigianale, oppure che non possiede gli strumenti per comprendere quanto buone fossero le IPA dei primi anni 2000 nonostante quella componente maltata così invadente.
a mio modo di vedere poca nostalgia ma un po’ di lucida consapevolezza.
personalmente, per quel poco che vale, “detesto” le moderne IPA, gialle come le birre che volevamo cambiare decenni fa, e che direi poi di aromi, profumi e dolcezza da succo di frutta?
lunga vita alle VERE IPA, anzi, American IPA