Ricordate quando nel 2015 AB Inbev sfruttò uno dei passaggi pubblicitari durante il Super Bowl per dileggiare la birra craft e i suoi bevitori? Quello è ormai un argomento chiuso: la strategia non ha avuto grande seguito e si è rivelata probabilmente controproducente per gli stessi obiettivi della multinazionale. Evidentemente però la finale della NFL deve creare strani effetti negli uomini del marketing di AB Inbev, se è vero che l’ultima edizione (tenutasi lo scorso febbraio) ha rappresentato il pretesto per una nuova polemica brassicola, che solo ora sta entrando nel vivo. Questa volta l’episodio riguarda solo l’industria e per questo motivo i toni sono subito saliti di livello, arrivando a coinvolgere gli uffici legali. E sarebbe poco interessante per noi appassionati di birra artigianale se tutta la vicenda non mettesse a nudo, non senza risvolti comici, il modo in cui le multinazionali intendono la nostra bevanda.
Partiamo dall’inizio e cioè dalla finale di football americano tenutasi il 3 febbraio 2019. Il Super Bowl è l’evento televisivo di sport più importante degli Stati Uniti e gli inserzionisti pagano cifre irreali per apparire nei passaggi pubblicitari previsti. Uno di quelli acquistati da AB Inbev è stato destinato alla promozione della sua Bud Light, grazie a uno spot battezzato “Special Delivery”. La pubblicità è ambientata in un mondo pseudo medievale, chiaramente ispirato alla saga di Game of Thrones. Un giorno la casata Budweiser riceve per sbaglio un carico di sciroppo di mais, ma il signore del castello specifica che la Bud Light non è prodotta con quell’ingrediente di bassa qualità. Così i cavalieri di Budweiser sono costretti ad accollarsi l’enorme botte di sciroppo e a trasportarla per lande desolate e selvagge, con l’obiettivo di portarla al reale destinatario. Che potrebbe essere uno tra i castelli Miller e Coors poiché – come afferma lo spot – le birre competitor Miller Lite e Coors Light sono invece prodotte proprio con sciroppo di mais. Vi risparmio il resto della storia, sappiate solo che alla fine il carico viene recapitato a uno dei due castelli.
La multinazionale MillerCoors, ovviamente produttrice delle due birre in questione, non si è divertita molto a guardare lo spot della rivale. Con il massimo della diplomazia possibile ha così deciso di fare immediatamente causa ad AB Inbev per aver insinuato che Miller Lite e Coors Light contengono sciroppo di mais. La questione è molto sottile: l’ingrediente è effettivamente usato da MillerCoors come coadiuvane in fase di fermentazione – lo so, vi si sta accapponando la pelle, su questo torneremo tra un istante – ma la pubblicità di AB Inbev veicolerebbe un messaggio ingannevole perché sembra affermare che nelle birre della concorrenza è “presente” lo sciroppo, come se fosse stato aggiunto in fase di confezionamento. Lo scorso maggio l’istanza di MillerCoors è stata accolta e il giudice ha obbligato AB Inbev a interrompere la trasmissione dello spot e a rimuovere la frase “senza sciroppo di masi” dalle sue confezioni di Bud Light.
Vicenda chiusa? Neanche per sogno. Come raccontato da Il Post, AB Inbev non ha gradito le mosse di MillerCoors e ha risposto spostando il confronto sul tema – ben più spinoso – dello spionaggio industriale. La multinazionale ha infatti accusato due dipendenti di MillerCoors di aver ottenuto illegalmente le ricette della Bud Light e della Michelob Ultra, un’altra sua birra. I responsabili sarebbero Martin David Brooks e Josh Edgar, precedentemente impiegati proprio presso AB Inbev. Grazie ai rapporti coltivati prima di cambiare casacca, i due sarebbero riusciti a ottenere da un dipendente di AB Inbev messaggi contenenti gli ingredienti, le miscele e le dosi delle birre. Il dipendente, di cui non è stata rivelata l’identità, per il momento è stato sospeso. In attesa che la vicenda prosegua, MillerCoors ha risposto che è strano che gli ingredienti della Bud Light siano così segreti se la concorrente spende tanti milioni per dire al mondo cosa contiene la sua ricetta.
Come avrete capito tutta la faccenda mostra passaggi grotteschi, a partire dal pacchianissimo spot di AB Inbev. Ma l’elemento più importante e imbarazzante allo stesso tempo è il tema della disputa: un birrificio che rivendica la qualità della sua birra, realizzata con surrogati, confrontandola con i surrogati usati per quelle dall’avversaria. Sia Bud Light da una parte, sia Miller Lite e Coors Light dall’altra, infatti, sono ben lontane da essere birre di puro malto. La prima utilizza riso in aggiunta al malto d’orzo, le altre due il famigerato mais in forma di sciroppo. Sappiamo però che in tutti i casi questi cereali sono largamente utilizzati dall’industria per abbattere i costi di produzione, ovviamente a discapito della qualità finale. Rivendicare l’uso di riso al posto dello sciroppo di mais è quindi abbastanza ridicolo: è come se una pessima pizzeria americana andasse fiera di usare per la sua pizza ananas fresca invece di quella surgelata della concorrenza. Il paragone è un po’ ardito e non proprio calzante, ma spero che il concetto generale sia chiaro.
Il cambio di paradigma subito dal mercato della birra nell’ultimo decennio ha fatto saltare le carte in tavola. È evidente che gli uffici di marketing dell’industria, per anni abituati a intendere i loro prodotti in maniera sempre uguale a sé stessa, oggi appaiono talvolta disorientati. Finché il gusto e la qualità della birra erano rimasti due elementi trascurabili, è stato facile nascondere le proprie magagne: è bastato abbinare ai prodotti altri concetti, come le feste con gli amici, le partite di pallone e al limite un paio di tette. Ma ora che la rivoluzione della birra artigianale ha ridato il giusto peso ai vari aspetti, alcuni marchi industriali si trovano in difficoltà. E così una multinazionale come AB Inbev sembra saltare da un messaggio imbarazzante all’altro. Prima cerca, senza successo, di affermare un approccio machista alla bevanda ridicolizzando i consumatori di quella craft; pochi anni dopo cambia rotta e tenta di giocarsi la carta della qualità, finendo però per forza di cose a veicolare messaggi al limite del grottesco.
Vedremo come andrà a finire la disputa tra AB Inbev e MillerCoors. Per il momento però già abbiamo un vincitore, e cioè quel modo diverso di concepire la birra che è al centro della rivoluzione craft internazionale e che si è sviluppata mettendo in luce i limiti dell’industria. Limiti che ormai sono intrinsechi a determinati prodotti e che le multinazionali difficilmente potranno superare, soprattutto se decideranno di giocare a livello di comunicazione sullo stesso campo della birra artigianale.
Anche la Nastro Azzurro se non sbaglio è uscita circa un anno fa con uno spot televisivo in cui si faceva vanto di usare solo mais 100% italiano. Come se un’azienda vinicola si vantasse di allungare le proprie bottiglie di vino con buonissima acqua di fonte: sarà buona finché vuoi ma rimane sempre un succedaneo che abbatte i costi e la qualità del prodotto.
Esatto, paragone molto più calzante del mio.