Qualunque appassionato di birra è destinato prima o poi a scontrarsi con i siti e le app di rating, come Ratebeer e Beeradvocate o Untappd. In passato – molto in passato per la verità, perché poi l’argomento mi ha annoiato velocemente – ho espresso il mio parere su certi strumenti, che in teoria rappresentano delle risorse eccezionali ma che si riducono a espressione di abitudini spesso aberranti a causa di come vengono utilizzati dai loro utenti. Un articolo apparso negli scorsi giorni su All About Beer dovrebbe chiarire meglio questo concetto, perché riporta la vicenda dell’unica birra britannica presente nella sacra classifica Top 50 di Ratebeer. Sareste propensi a credere che sia un prodotto eccezionale, e forse è effettivamente così. Il problema è che sono pochissimi a conoscerla e ancor meno ad averla assaggiata.
La storia della Good King Henry Special Reserve del birrificio Old Chimneys contiene tutti gli ingredienti che rendono Ratebeer (e i suoi simili) dei mondi paralleli assurdi, ma capaci di influenzare pesantemente la realtà della birra artigianale mondiale. C’è l’effetto hype, la curiosità compulsiva di una comunità esclusiva, la rete dei festival frequentati dai raters e l’attività di un eccentrico opinion leader di settore. Nulla che ha a che fare con il giudizio su una birra, sia chiaro, almeno in senso stretto: già questo potrebbe spingerci a porci delle domande sul modo in cui certi strumenti vengono visti e usati.
Dicevamo della storia di questa misteriosa birra. La versione base, battezzata semplicemente Good King Henry, fu creata originariamente nel 2000. Il suo creatore, Alan Thomson, aveva deciso 5 anni prima di aprire il suo microbirrificio dopo una lunga carriera nell’industria brassicola del Regno Unito. La ricetta di partenza era non troppo lontana da quella di oggi, ma la versione Special Reserve nacque da un errore commesso nel 2002 in fase si produzione. Invece di buttare tutto, Thomson lasciò la birra a maturare per sei mesi aggiungendo delle chips di quercia, quindi imbottigliò e attese ancora. Quando la riassaggiò nel 2004, ecco il miracolo: la versione “sbagliata” della Good King Henry era a tal punto straordinaria che il birraio decise di metterla regolarmente in produzione.
Ora di birre straordinarie nate per errore ne abbiamo sentito parlare spesso, ma in questo caso sembra un elemento narrativo costruito apposta per preparare il campo al seguito della storia. E per il seguito della storia bisogna fare un salto avanti di un paio di anni, quando alcune bottiglie di GKHSR uscirono dal Suffolk (Old Chimneys è un piccolissimo birrificio con un mercato locale) per essere vendute all’East London Beer Festival del Camra. Qui cominciò il primo rapporto della birra col mondo dei raters, presenti in massa alla manifestazione, e iniziarono ad apparire le prime recensioni su Ratebeer.
Caso volle che in quella occasione alcune bottiglie finirono nelle mani del rater Chris Owen, il quale l’anno successivo le portò negli Stati Uniti al raduno estivo degli utenti di Ratebeer. All’evento non erano presenti molte Imperial Stout anglosassoni, così la birra attirò l’attenzione dei tanti visitatori presenti, provenienti da tutto il mondo. In base a meccanismi cognitivi non sempre facili da comprendere in casi del genere, la GKHSR acquisì velocemente un’aura leggendaria inversamente proporzionale agli sforzi profusi da Thomson per venderla. La difficoltà nel reperirla – virtualmente era possibile acquistarla solo dalle mani del suo birraio – fece il resto.
Ma la storia non si ferma qui, perché c’è un ulteriore elemento di disagio, se così vogliamo definirlo 🙂 . L’effetto hype non solo alimentò recensioni dai voti altissimi, ma attirò l’attenzione dell’appassionato scozzese Craig Garvie. Craig è a dir poco un personaggio: gira per gli eventi birrari con una bombetta di colore blu elettrico, una barba bicolore e uno stile dal gusto steampunk. Ma soprattutto è in grado di creare aspettative intorno a certe birre come pochi altri al mondo. Inutile dire che cominciò a fare incetta di GKHSR e a destinare le bottiglie sia per uso privato (regalandole per occasioni speciali) sia per il trading online con altri beer lovers.
Tutte queste evoluzioni, a tratti di difficile comprensione, hanno trasformato un prodotto nato per errore nell’unica birra britannica presente nella Top 50 di Ratebeer. Poco importa se merita o meno questo riconoscimento: indipendentemente dalla sua presunta qualità intrinseca, è chiaro che ciò che ha spinto la Good King Henry Special Reserve così in alto è stato l’effetto hype, non certo le sue caratteristiche organolettiche. Si tratta chiaramente di un fenomeno irrazionale, di cui lo stesso Thomson oggi si sente in parte vittima (o forse è solo un modo di stare al gioco):
Trovo che l’idea di avere un seguito mondiale sia un po’ strana e onestamente posso affermare che non è qualcosa che avevo preventivato. A volte vorrei che non fosse mai accaduto, soprattutto quando ogni autunno si scatena l’inferno con la gente che cerca di accaparrarsi la birra. Ricevo telefonate da ogni angolo del mondo, non solo dall’America. Mi chiedo: “Perché lo sto facendo?”.
A ben vedere qualcosa del genere accadde già diversi anni fa, quando Ratebeer contribuì alla creazione del mito di Westvleteren e alla decisione dei frati di ridurre la vendita della loro birra presso il proprio monastero. Ma all’epoca parlavamo di una birra unanimemente riconosciuta come una perla brassicola del Belgio, dove cioè la bontà della stessa non era minimamente messa in discussione. È chiaro che nel caso della Good King Henry Special Reserve siamo andati ben oltre certe considerazioni e ciò che ne deriva è di una inquietudine desolante. Il problema è che non si tratta di un caso isolato: sebbene con modalità e forza differenti, tutti i siti di rating sono soggetti allo stesso destino. Ed è un peccato, perché come accennato in apertura avrebbero delle potenzialità incredibili.
Anni addietro Ratebeer decretò il successo della Närke Kaggen Stormaktsporter, di cui in seguito non s’è sentito più parlare. Una sorta di meteora insomma, anche se per un certo periodo riuscì a strappare il primo posto della classifica proprio alla WV 12.
Vero, dinamiche molto simili a quelle di oggi, forse un po’ meno evidenti. Quella la assaggiai (grazie Colonna!) e devo dire che la fama era ampiamente meritata
Ratebeer è uno strumento, nulla di più. In quanto tale può essere utile o essere utilizzato male generando distorsioni.
Io lo trovo utile perché, viaggiando molto, mi permette di avere una fotografia su quella che è la realtà, dal punto di vista brassicolo, di una città verificando quanti pub e brewpub ci sono. Oppure permette di avere una idea di massima su quello che troverò nel bicchiere quando mi trovo di fronte a birre sconosciute e sono indeciso nella scelta (parto dal presupposto che se nell’ambito di una cinquantina di recensioni ce ne sono 45 che mi dicono che la birra ha note aromatiche che ricordano il limone… forse le troverò perché ci hanno messo del Liberty o del Soraci Ace).
Detto questo, però, i siti di rating non sono il vangelo.
In primo luogo perché francamente dubito che uno che su RB ha recensito 4785 birre nel solo 2015 (media di 13 al giorno) abbia davvero “capito” cosa aveva nel bicchiere (specie dal quarto assaggio in poi…).
Ma soprattutto perché le classifiche premiano fisiologicamente prodotti dotati di intensità molto marcate. Tanto per dire
– su RB le prime 50 birre sono 27 Imperial Stout e 8 Imperial IPA (con vario contorno di Imperial Porter, Sour, Lambic e Quadrupel);
– se prendiamo le top 50 Untappd abbiamo 24 IS e 13 I. IPA, per non parlare del fatto che 13 sono di Goose Island (birrificio che trovo molto valido ma da qui a dire che produca quasi 1/3 delle birre migliori del mondo…) e un buon 50% (a spanne) dei prodotti è rappresentato una birra barricata;
– su beeradvocate abbiamo una “top 250” con 20 Lambic, 87 I.S., 63 I. IPA con un buon contorno di Barley Wine, e Quadrupel.
Insomma: non si considerano (o quasi) birre che, nella loro semplicità, sono magnifiche. Perché siamo tutti d’accordo che una Mikkeller 1000 IBU abbia un sapore più intenso di una Timothy Taylor Landlord: ma da qui a dire che la prima sia meglio della seconda ne passa… (a titolo personale, anzi, penso che una bitter fatta bene resti una delle bevute più appaganti in assoluto mentre le birre “asfalta palato” non siano chissà quanto piacevoli da bere).
Pol la GKHSR sarà pure buona (ma non la ho bevuta e quindi non lo so): ma lo è più di una JW Lees Harvest Ale che ha la sfiga di generare poco hype perché è decisamente più facile da trovare ?
Opinione ampiamente condivisibile, soprattutto nell’analisi delle tipologie di birre premiate in contrapposizione agli stili ignorati. Purtroppo è un male atavico di questi strumenti e anche il loro limite. Non a caso in molti (te e me compresi) trovano che la loro utilità principale sia in caso di viaggi.
Sulla GKHSR, chi l’ha bevuta mi giura che è una fuoriclasse al top di ciò che può offrire l’arte brassicola mondiale.
Certi “strumenti” sono gli esatti antipodi della cultura birraria.i
I still maintain its a beer that lives up to its Hype. I still buy it every time i see it and it still impresses me every time, and i still share it at every opportunity with other. A trip to Edinburgh and a message is all it needs. Long Live Good King Henry
Ciao Craig, thank you for your comment. I haven’t had the chance to try that beer yet, but your enthusiasm for it is contagious! It’s interesting how certain beers can gain such hype on rating sites, creating high expectations. I’ll definitely keep an eye out for it and give it a try when I come across it. Cheers!