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La minaccia di Poretti a Luppolo Station: per il vostro pub non potete usare la parola “luppolo”

Nonostante il ponte coinciso con la festa dell’Immacolata, credo che a pochi di voi sia sfuggita l’ultima puntata – tutta italiana – della guerra tra birra artigianale e multinazionali del settore. La vicenda ha dell’incredibile: il birrificio Angelo Poretti, di proprietà del colosso Carlsberg, ha diffidato il pub romano Luppolo Station dalla registrazione del proprio nome, perché l’uso del termine “luppolo” comporterebbe una violazione dell’esclusività sull’uso dei marchi “Tre Luppoli” e “3 luppoli” (una delle birre di Poretti). Anche in assenza di una conoscenza della materia, la pretesa dell’industria appare quantomeno improponibile ed è quindi normale che la notizia abbia attirato le ire degli appassionati. Come sempre su Cronache di Birra, cerchiamo di fare ordine analizzando quanto accaduto in maniera oggettiva e imparziale.

Partiamo dalle richieste che Carlsberg ha avanzato nei confronti di Luppolo Station, che appaiono molto dure e perentorie. Nella lettera inviata al locale capitolino si legge quanto segue:

Al fine di una composizione stragiudiziale della questione Vi invitiamo ad espletare senza indugio i seguenti adempimenti:

  1. ritirare la domanda di registrazione italiana No. 302015902349552 (RM2015C002560) “LUPPOLO STATION”, dandocene prova;

  2. cessare l’uso del marchio “LUPPOLO STATION”, se già iniziato;

  3. sottoscrivere una dichiarazione d’impegno a non chiedere la registrazione, né utilizzare, in futuro marchi, nomi a dominio, denominazioni sociali, altri segni identici o simili a “IL LUPPOLO”.

La pretesa è assolutamente inconcepibile e a tratti grottesca, perché fa riferimento a un termine che non solo è usato ampiamente nel settore, ma è anche uno degli ingredienti base della birra. Quanti pub italiani ne fanno ricorso? Quanti birrifici, non solo artigianali? E più in generale, quanti operatori? È come se nel mondo del vino il termine “uva” fosse ad appannaggio di una sola azienda.

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Se il pretesto appare dunque infondato da un punto di vista di mera logica, lo è ancora di più da un punto di vista squisitamente legale. I termini generici non possono infatti essere oggetto di registrazione e men che meno di rivalse di questo tipo. Ecco cosa si può leggere al riguardo:

L’Art. 12.1 c.p.i. esclude la validità dei marchi che “consistano esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio”. Allo stesso modo, l’Art. 13.1. c.p.i. dispone che non possono costituire oggetto di registrazione come marchio “i segni privi di carattere distintivo e in particolare quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi”.
Per esempio, se la vostra impresa cercasse di registrare il marchio SEDIE per vendere delle sedie, la sua domanda verrebbe sicuramente rigettata in quanto tale termine è generico del prodotto.

Se “Tre Luppoli” non rientra nella fattispecie prevista dall’estratto, lo è sicuramente la parola “luppolo”. Dunque alla base dell’arrogante pretesa di Angelo Poretti c’è evidentemente un errore di fondo di dimensioni colossali, che rischia di diventare un boomerang clamoroso per l’azienda controllata da Carlsberg. E noi, di fronte al reiterarsi di certi atteggiamenti dispotici da parte dell’industria, non possiamo augurarci qualcosa di diverso. Anche considerando che la stessa proprietà di Luppolo Station possiede un altro pub di nome Luppolo 12, nato ben prima dell’esaltazione a suon di luppoli di Poretti: se proprio vogliamo trovare un tentativo di sfruttare un marchio concorrente, credo che bisognerebbe rovesciare la questione.

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Di conseguenza è normale chiedersi come possa una multinazionale del genere incorrere in un errore di siffatte proporzioni. Da questo punto di vista è evidente una pesantissima responsabilità da parte dello studio legale che sta seguendo la questione per Carlsberg e che ha inviato la lettera di diffida a Luppolo Station. Le possibilità infatti sono due. La prima è che lo studio non abbia consultato il cliente prima di procedere (sebbene nella missiva affermi il contrario), esponendolo a un autogol inenarrabile. Se invece lo spunto è arrivato direttamente da Poretti (o da Carlsberg), l’imperdonabile errore dello studio legale sarebbe stato nel non aver avvertito il cliente che la pretesa non ha alcun fondamento legale. Curioso corollario: stiamo parlando di uno studio che recentemente si propose a molti microbirrifici italiani per curare i diritti sui loro marchi.

Al di là di queste considerazioni, ancora una volta emerge con evidenza il modo in cui le multinazionali vivono il loro rapporto con la birra. Un rapporto che è scandito non da quanto accade all’interno delle sale cotte, ma da ciò che decidono gli uffici marketing e gli studi legali. E così un errore di dimensioni pacchiane – come fai ad avanzare pretese sul nome di uno degli ingredienti base della bevanda? – rivela tutto l’affanno che l’industria sta incontrando per cercare di rispondere all’ascesa dei microbirrifici: con un semplice gesto, che nessun appassionato avrebbe mai concepito, finiscono in fumo investimenti milionari impiegati fino a oggi per cercare di accreditarsi presso un nuovo target di consumatori. Dopo questa vicenda spiegatemi infatti chi avrà ancora voglia di ascoltare le storielle del vecchio che in tv impersona la buonanima del signor Angelo Poretti.

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La risposta di Luppolo Station a Carlsberg è già arrivata e merita di essere letta almeno per farsi due risate, ma chiaramente l’episodio non si concluderà così. Aspettatevi evoluzioni clamorose, perché l’impressione è che questa volta l’industria abbia davvero esagerato e che nessuno abbia voglia di sottostare ancora una volta all’atteggiamento arrogante di chi crede di essere sempre dalla parte della ragione, anche di fronte all’evidenza dei fatti.

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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7 Commenti

  1. Perché non chiediamo al Poretti di togliere lui la parola luppolo dalle sue bevande in quanto confonde ignari acquirenti sulla vera natura delle bevande stesse (cioè piscio di gatto)?Boicottiamo le birre industriali!

  2. Su questa vicenda ci sono alcune cose da dire per avere un quadro un po più chiaro della situazione marchi in Italia.
    Il primo è che la Calsberg in prima istanza sta intimando a Luppolo Station di non registrare la parola Luppolo, e questo potrebbe essere anche condivisibile in quanto registrare un nome comune in europa non è possibile ma poi avviene regolarmente basta pensare a Divani & Divani, o Divani & sofà, la Poretti si vuole in prima di tutto difendere da una ipotetica causa da parte di Luppolo Station.
    La Seconda che si richiede di non usare la parola Luppolo e questo è il vero aspetto della faccenda, siamo di fronte ad un nome comune di cosa che per di più è un ingrediente del prodotto in esame.
    La Caslberg sicuramente sta cercando di far paura alla società Luppolo Station, perchè il solo affrontare una causa significa mettere a correre 7-8.000 euro e non è detto che chi ha ragione la spunti, perchè può capitare che il giudice sia un bevitore di vino, non conosca la birra e consideri chiamare la birra “3 luppoli” come chiamare un vino “il Grappolo” quindi qualcosa di vicino al prodotto ma registrabile, è già successo.
    Purtroppo questi casi capitano più spesso di quanto si possa immaginare e non solo con le multinazionali, noi abbiamo un problema simile con una birra che ha un nome comune ma in lingua Sarda “Bresca”.

    Dal nostro punto di vista in caso la Calsberg abbia registrato la parola “x luppoli” nella birra la Union Birrai dovrebbe fare causa per far cancellare il marchio e fare una bella campagna denigratoria del modo in cui le multinazionali trattano i soggetti più deboli.

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