La cultura brassicola del Regno Unito vanta una lunga tradizione di birre “stale”, che affonda le proprie radici nei secoli passati. Sintetizzando erano birre da invecchiamento, spesso appannaggio dei ceti sociali più ricchi, che si contrapponevano alle birre “mild”, quelle da consumare giovani alle spine dei pub – oggi il termine Mild indica invece un preciso stile birrario, ma questa è un’altra storia. Dall’usanza di produrre birre “stale” derivano tipologie specifiche odierne, come i Barley Wine e le Old Ale, ma soprattutto alcune creazioni che nel tempo sono assurte allo status di vere e proprie leggende brassicole. Probabilmente la più famosa è la Thomas Hardy’s Ale, realizzata per la prima volta nel 1968 dal birrificio Eldridge Pope e poi passata di mano in mano, fino a quando, nel 2013, la licenza non fu acquistata dall’italiana Interbrau. Accanto alla Thomas Hardy’s Ale meritano menzione la Harvest Ale di JW Lees, la Old Tom di Robinson’s e la Prize Old Ale di Gale & Co. In particolare quest’ultima birra è oggi poco conosciuta, ma fino a un paio di decenni fa (e anche meno) era considerata una pietra miliare dell’arte brassicola britannica, nonché una chicca per gli amanti delle birre invecchiate. Di recente è tornata in vita, ma il suo futuro è già in discussione.
Come racconta Marty Cornell su Pellicle, il merito del ritorno della Prize Old Ale è da ascrivere a due persone: John Keeling, esperto ex direttore di produzione di Fuller’s, e Henry Kirk, birraio del birrificio Dark Star. Cosa c’entrano in questa storia? Per capirlo dobbiamo partire dal 2006, quando il birrificio Fuller’s acquisì la Gale’s Brewery determinando la chiusura dell’impianto produttivo di Horndean, nell’Hampshire. Keeling però fu abbastanza avveduto da decidere di trasferire alcune botti in cui ancora riposavano vecchie cotte di Prize Old Ale nel nuovo polo produttivo di Chiswick, a Londra, preservando dunque un grande patrimonio brassicolo inglese. Lo stesso Keeling convinse la proprietà a brassare ancora qualche batch di Prize Old Ale, non riuscendo tuttavia a garantire continuità produttiva a quella birra leggendaria.
Facciamo un salto in avanti di dodici anni per arrivare al 2018, quando, non senza un certo clamore, Fuller’s acquisì il birrificio Dark Star. Di Dark Star abbiamo scritto proprio in questi giorni, perché la nuova proprietà – il colosso giapponese Asahi – ha deciso di dismettere l’impianto produttivo e spostare tutto presso Meantime. Secondo molti analisti l’inizio della fine per Dark Star cominciò proprio con il passaggio sotto il controllo di Fuller’s, eppure quell’operazione permise di tornare a bere la Prize Old Ale. È qui che infatti entra in gioco Henry Kirk, birraio di Dark Star e amante di quella storica birra, il quale ottenne da Fuller’s le botti di Prize Old Ale. Lo scorso ottobre la leggendaria Old Ale è tornata in commercio, prodotta seguendo l’antica ricetta di Gale’s e miscelando piccole quantità delle precedenti cotte, fino a quelle risalenti al regno di Giorgio V.
Se questo ultimo passaggio vi sembra poco chiaro sappiate che la Prize Old Ale è realizzata applicando il metodo solera, che in genere è associato alla produzione di vini fortificati. Per chi non lo sapesse il metodo solera può essere considerato una sorta di invecchiamento “piramidale” a ciclo continuo, in cui ogni imbottigliamento è il frutto di una miscelazione delle precedenti annate dello stesso prodotto, in percentuali differenti. Secondo quanto riporta Una birra al giorno, la ricetta originale probabilmente prevedeva malto Maris Otter e un pizzico di Black, luppoli Fuggle e East Kent Goldings e l’aggiunta di lievito al momento del confezionamento per la rifermentazione in bottiglia. La fermentazione (e la susseguente maturazione) avveniva in vasche di legno per un periodo compreso tra i sei e i dodici mesi, con un’inevitabile contaminazione da parte di lieviti selvaggi e batteri che permaneva anche dopo, quando la birra veniva trasferita in tini d’acciaio. Il suo carattere era dunque funky e delicatamente acido, due elementi che chiaramente si fondevano con il profilo riccamente maltato e con il supporto aromatico dei luppoli nobili.
Chiaramente il mito della Prize Old Ale risiede anche nel suo complesso processo produttivo, che per alcuni tratti ricorda quello delle fermentazioni non convenzionali del Belgio – la birra è spesso definita “il Lambic dell’Inghilterra”, sebbene abbia punti di contatto più con le antiche produzioni brune delle Fiandre (Flemish Red Ale e Oud Bruin) piuttosto che con la specialità del Pajottenland. Tuttavia all’inizio degli anni 2000 la qualità della Prize Old Ale scemò vertiginosamente. A spiegarlo è ancora Marty Cornell:
A partire dall’inizio del ventunesimo secolo le cose iniziarono a peggiorare. Le bottiglie erano completamente piatte, la rifermentazione non era mai partita ed erano stucchevolmente dolci. Sembra che alla Gale’s imbottigliassero senza aggiungere zucchero o lievito, facendo affidamento solo sulle cellule di lievito che erano presenti della birra e sugli zuccheri rimasti dopo la fermentazione primaria. Evidentemente non funzionava, ma per anni nessuno alla Gale’s sembrò interessarsi al problema e continuarono in quel modo.
L’acquisto di Fuller’s avrebbe quindi potuto rilanciare la Prize Old Ale, ma come abbiamo visto alle buone intenzioni non seguirono i risultati commerciali auspicati. Con il passaggio della produzione a Dark Star sembrava finalmente cominciata una fase di rinascita per quella mitica birra, eppure le recenti notizie hanno nuovamente messo in dubbio la sopravvivenza della Prize Old Ale. Ora tutto dipende dalle scelte che compirà Asahi: se la multinazionale giapponese mostrerà interesse a preservare le tradizioni brassicole inglesi, allora forse sarà possibile evitare la scomparsa di un pezzo importante di cultura birraria britannica. Anche fosse, però, è lecito chiedersi quanto la nuova Prize Old Ale rispecchierà la sua ricetta originale.