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Conosci il tuo nemico: una panoramica dei birrifici industriali italiani

Leggendo qualche giorno fa l’annuario BirrItalia 2012-2013 (qui la mia recensione), mi sono imbattuto nel capitolo riguardante i produttori italiani di birra. Non sto parlando dei nostri amati microbirrifici, a cui è dedicata un’ampia sezione, bensì di quelle industrie brassicole operanti con propri impianti sul territorio nazionale. Nomi come Forst o Menabrea, che pur essendo birrifici industriali non rientrano nel novero delle multinazionali del settore, e quindi occupano una posizione intermedia tra queste ultime e le aziende artigianali – con una posizione ovviamente più vicina alle prime che alle seconde. Sono birrifici spesso ignorati dagli appassionati ed erroneamente considerati artigianali dai meno avvezzi, che solo raramente riescono a offrire prodotti interessanti. Con l’aiuto dei dati, oggi cercherò di fare un po’ di ordine sull’argomento.

Birra Forst Spa

Forst è un marchio storico in Italia, legato soprattutto alle regioni del Nord Italia, anche se non è difficile da trovare anche nel resto dello stivale. E’ un’azienda indipendente, nel senso che non è controllata da multinazionali straniere, ma appartiene alla famiglia Fuchs. Nel 2011 la produzione si è assestata all’incirca sui 700.000 hl. Le birre prodotte sono otto, tra cui segnalo la Vip Pils e la Sixtus, che nelle loro versioni non pastorizzate – disponibili se non sbaglio presso il locale della cittadina omonima – sono ottime birre. Forst controlla da diversi anni il marchio Birra Menabrea. E’ probabilmente il birrificio industriale italiano meno disprezzato dagli appassionati dei prodotti artigianali.

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Birra Menabrea

Birrificio storico di Biella, come detto è di proprietà della famiglia Fuchs (Forst), sebbene le redini siano ancora in mano alla famiglia Thedy (Franco Thedy ne è l’amministratore delegato). La produzione annuale è molto contenuta: siamo intorno ai 110.000 hl. Produce un’ampia gamma di birre (alcune su licenza), tra cui la linea Top Restaurant di cui parlai in un vecchissimo post. Per mia esperienza, è il birrificio industriale che riesce a “confondere” meglio i bevitori occasionali, che credono di bere birre artigianali. Penso che le cause del fenomeno dipendano da meri motivi di marketing (l’etichetta old style con la denominazione “G. Menabrea e figli”), anche perché a livello organolettico sono prodotti a dir poco trascurabili.

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Birra Poretti

Altro nome storico del settore nazionale, dal 1975 è sotto il controllo di Carlsberg Italia, che sembra voler puntare forte su questo marchio per attirare nuovi consumatori. Nonostante vengano prodotte birre chiaramente industriali, gli uffici del marketing hanno negli ultimi anni veicolato concetti tipici del segmento artigianale: esempio ultimo è la Poretti Non Filtrata ai 7 luppoli Summer Cascade, che riporta addirittura il nome della tipologia di luppolo utilizzata. Il risultato finale sembra aggiungere poco alle blandi caratteristiche di una birra industriale, tuttavia la strada intrapresa da Carlsberg con Poretti credo che non abbia eguali in Italia.

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Birra Castello

Il birrificio della provincia di Udine opera nello stabilimento che una volta era di Heineken e prima ancora di Birra Moretti. BirrItalia ne attesta la produzione a quasi un milione di hl annui – sebbene la Guida alle Birre d’Italia parli di poco meno di 700.000. Oltre a produrre le birre della gamma omonima, realizza anche quelle del marchio Birra Dolomiti e Pedavena, di cui ha acquistato il controllo in anni recenti.

Birra Pedavena

Come accennato, è ormai un marchio controllato da Birra Castello. La produzione annua si aggira sui 150.000 hl annui.

Theresianer

Altro marchio storico, ha i suoi impianti produttivi in provincia di Treviso. La produzione annua è di soli 19.000 hl annui, per capirci meno del doppio di Baladin e Birra del Borgo e appena sotto Amarcord, che invece è considerato artigianale. Chiaramente si tratta di una strana anomalia, sulla quale tornerò a fine post. E’ controllata dall’azienda italiana Hausbrandt, che opera nel settore della torrefazione del caffè – una situazione che ricorda quella di un giovane microbirrificio italiano 🙂 . Non lo sapevo, ma la sua gamma non è composta di sole basse fermentazioni: in catalogo troviamo anche una Coffee Stout, una Pale Ale, una Wit e una Strong Ale 😐 .

In definitiva, il gruppo composto da questi birrifici industriali è assai eterogeneo, per assetti aziendali, capacità produttiva, offerta e qualità. Il più grande birrificio indipendente è Forst, che è anche tra quelli meno disprezzabili dagli appassionati di birra artigianale. Curiosa la situazione di Theresianer, ritenuto industriale nonostante la produzione annua sia inferiore a quella di Amarcord, il più grande dei birrifici italiani considerati artigianali.

Quest’ultima considerazione rischia ovviamente di spingerci in una discussione senza uscita sul concetto stesso di birra artigianale. Curioso è che sia BirrItalia che la Guida alle Birre d’Italia presentino Theresianer tra i produttori industriali e Amarcord tra quelli artigianali. Segno che probabilmente non basta la produzione annua a definire un birrificio di un tipo da uno del tipo opposto.

Chiudo con una curiosità. Secondo la definizione di craft beer vigente negli Stati Uniti, rientrano in questa categoria i birrifici che producono non più di 6 milioni di barili l’anno, che corrispondono a poco più di 5 milioni di ettolitri. Ovvio che una tale definizione farebbe rientrare tutte le aziende fin qui citate nella categoria di birrificio artigianale, almeno per quanto riguarda le dimensioni produttive – ricordo infatti che ci sono altri criteri, legati ai concetti di indipendenza aziendale e di tecnologie tradizionali. In Italia non esiste una regola, sebbene qualcuno abbia proposto di fissare il limite a 10.000 hl annui (che per me è davvero troppo basso).

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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31 Commenti

  1. Post DAVVERO interessante e che forse chiarirà parecchie cose ai più.
    Personalmente non sono contro i produttori medi per partito preso. Anzi, come scritto nel commento alla recensione linkata, il giorno che questi birrifici riusciranno a produrre qualcosa di qualitativamente valido (similarmente alle pale ale/lager americane), il mercato potrebbe cambiare in modo sensibile.

    Amarcord e theresianer (mai provato nulla di quest’ultimo, ma è largamente distribuito anche sotto casa mia) hanno una gamma di tutto rispetto al di là della qualità. Padevana e Menabrea non le disprezzerei in assenza di meglio. Mentre castello e poretti (nonostante la versione cascade; che non ho provato) davvero sarebbero da offrire al proprio peggior nemico.

  2. Il punto è che secondo me ci si dovrebbe distinguere non in base ai termini “Industriale” e “Artigianale” ma bensi in base al fatto che la birra è “Morta” o “Viva”.

    Il volume di produzione può semmai identificare se si è micro oppure no.

    Il prodotto è pastorizzato dopo la fermentazione ed è microfiltrato oppure non lo è.
    E se non lo è allora può essere considerato “Birra Viva” e non solo “Birra Artigianale”.

    In fin dei conti il lievito è li, il prodotto continua ad evolvere.
    E’ qui la differenza!

    Allora si che si può fare informazione e si può dire: la birra industriale è un prodotto morto, da ben distinguere dalla birra viva, non tanto nel processo ma nella qualità delle materie prime e sopratutto dal fatto che matura nel tempo.

    Diverso il discorso qualità: una birra Viva può essere anche un prodotto scarso.
    Ma questo è un altra questione.

    Perchè fare il distinguo in base a quei termini?

    • Secondo questi parametri una buona parte dei birrifici craft americani non potrebbero essere considerati tali.

      Per me conta solo il risultato qualitativo.

      • Anche per me conta solo il risultato qualitativo, che è un buona logica da seguire per evitare pippe mentali e cose simili.

        Però una vocina da lontano mi insinua il dubbio che non sia la logica giusta

      • Certo che conta il risultato qualitativo.
        Era solo per parlare orientati al prodotto.
        Perchè di fatto l’artigianalità in un microbirrificio c’è fino ad un certo punto: la differenza è nella qualità del materiale usato, nelle caratteristiche organolettiche del prodotto e del fatto che sia vivo.

        Industriale e Artigianale, il volume di produzione… conta a cosa?

        Siamo d’accordo nel dire che è la qualità a fare la differenza: ma perchè idenficarla con il termine “craft” che da noi è “artigianale” quando di fatto non si birra a mano nè utilizzando ‘piccoli’ attrezzi…

        Un micro fa birra come un’industria, o no?
        Cambiano i volumi, ma non gli strumenti.

        Usiamo termini più appropriati, tutto qui 🙂

        • Sono da sempre contrario al termine “artigianale” che secondo me non vuol dire nulla. Ma analogamente una divisione tra birra “viva” o “morta” lascia il tempo che trova, visto che parecchi ottimi prodotti sono comunque morti e sepolti una volta usciti dal birrificio.

          • è indubbio che il termine “artigianale” è drammaticamente incongruo. non solo e non tanto per l’oggi, quanto per un domani prossimo.
            il fatto è che ormai da questo inghippo non se ne esce più già adesso, figurarsi nel futuro.

          • Per me rimane fondamentale la NON PASTORIZZAZIONE, LA MATURAZIONE IN BOTTIGLIA, LA RIFERMENTAZIONE IN BOTTIGLIA (chi la fa) e la NON FILTRAZIONE, anche se per quest’ultima posso chiudere un occhio…

            Qundi la distinzione fatta da Lipari tra birra viva e morta è FONDAMENTALE

            Poi nel concetto di artigianalità (termine che non condivido anche io) rientrano anche parmetri importanti che differenziano la birra da quella industriale come l’utilizzo di deteminati tipi di luppolo, il non utilizzo di estratti, conservanti, stabilizzanti, PVP per la filtrazione, aromi etc.

  3. cito:
    ” Secondo la definizione di craft beer vigente negli Stati Uniti, rientrano in questa categoria i birrifici che producono non più di 6 milioni di ettolitri l’anno, che corrispondono a poco più di 5 milioni di ettolitri. ”

    mmm non mi tornano i conti! 🙁

  4. Secondo me bisognerebbe fare grossa differenza tra aziende italiane (Forst) e marchi di proprietà di grosse multinazionali che vengono prodotti (anche) in Italia, come Poretti ma anche Peroni o Moretti per dirne due a caso.
    Nelle aziende italiane manca ad esempio Tarricone (quello della Drive beer e della Morena…)

    • Poretti l’ho inserita solo per la particolarità delle birre proposte recentemente.
      Su Birra Morena ho trovato poche info (in primis sugli hl annui) e ho preferito non metterla.

  5. premetto che dare per forza una definizione,sia artigianale che industriale,non sia un’esigenza così impotante visto anche la reale difficoltà di quantificare i vari parametri,viva o morta,ettolitri prodotti ecc,se poi consideriamo artigianale baladin ed il piccolo opificio del carrobiolo allo stesso modo beh…
    o non facciamo distinzioni o diventa un bel casino,alla fine se parliamo di qualità è soltanto dopo una bella bevuta che possiamo giudicarla non certo un etichetta

  6. Sottoscrivo in pieno quanto detto su Forst in termini di qualità dei prodotti, anche se definirlo italiano è quasi una forzatura. Siamo in pieno Sud tirolo e li si sentono tuttaltro che cittadini del bel paese. Buone birre la Sixtus e la Vip pils inoltre producono un’ottima birra di natale con bottiglie da 2 litri da collezionisti. Discreta la produzione di Theresianer (decisamente buone la Pale ale e la Vienna). Ho provato anche io sull’onda della curiosità la Summer cascade di Poretti ma, come già scritto, è solamente una ottima operazione di marketing.

  7. Quante volte quando parlo di birra “artigianale” (in mancanza di un termine migliore condiviso) la gente subito mi cita la Menabrea con gli occhi luccicanti; sto cercando di affinare una riposta per far capire con fermezza che si tratta di birra completamente industriale e molto mediocre senza risultare offensivo.
    Per quanto riguarda Theresianer di fronte a un barista che mi diceva “ah la conosci? Questa è birra artigianale!” (l’avevo ordinata, era comunque di gran lunga il meglio che ci fosse nel locale, e la Vienna è discreta) ho abbozzato un “hhmmm, diciamo che è una via di mezzo tra industriale e artigianale”, che non significa molto, ma non volevo essere troppo categorico e mortificante.

  8. Ma Birra Castello ha comprato la fabbrica di San Giorgio di Nogaro da Heineken così come la Pedavena nel 2006, non è una controllata di Heineken.

  9. Ciao!

    Volevo informare che il birrificio Castello non è più sotto il controllo dell’Heineken. E’ stato acquistato dall’Heineken dopo che questa ha rilevato il marchio Moretti (tutt’ora di proprietà della multinazionale olandese). Ora la proprietà è friulana/italiana.

  10. Sempre relativo al discorso Poretti/Carlsberg.. mi sembra che l’operazione richiami un po’ la linea “gourmet” o “di qualità” che la Carlsberg ha per il mercato danese. Si chiama “Semper Ardens”, assaggiai qualche tempo fa una poco memorabile Keller Pils, ma la gamma include anche una IPA e una pseudo abbazia.

    http://www.carlsberggroup.com/media/PressKits/brands/Pages/SemperArdensPressKit.aspx
    http://www.ratebeer.com/brewers/carlsberg-brewery/43/

  11. Io assaggiai una menabrea topo restaurant rossa un po’ di tempo fa. Na’ bella fetecchia! E manco andava giù, mi ricordo solo la botta alcolica dei 7° mi sembra. A sto punto meglio una baffo d’ oro!

  12. Bella questa descrizione, molto interessante. Secondo me Menabrea e Poretti, tra le industriali si salvano ed hanno un qualcosa in più, a livello di sensazioni olfattive. Menabrea in particolare. Completamente da escludere la Castello, al di là della quantità, per quanto riguarda la qualità è una fabbrica di birra.

    Buona la Pedavena, ma ho riscontrato una grande differenza, tra il berla a Feltre, nel suo birrificio /birreria e la classica bottiglia. Due gusti completamente differenti.

    La Theresianer la fanno 10 km da me, ma purtroppo non ci siamo proprio, anche nelle sue versioni più prestigiose non rende, siamo un scalino sotto ad altre birre artigianali.Ed è pure cara, soprattutto se la trovi in alcune birrerie. LA stessa San Gabriel la trovo superiore, di gran lunga.

    • Grazie dell’articolo, non lo sapevo. Non mi capita di acquistare le birre Coop ecc, però fa piacere sapere da dove vengono. Meglio sempre che lavori l’industria italiana che quella di altri Paesi.

      Fra l’altro lo stabilimento di San Giorgio di Nogaro, era quello della Moretti, che ha venduto per evidenti problemi con l’approvvigionamento di acqua.

  13. Per me le birre che debbono essere annoverate nella categoria artigianali sono quelle che suscitano emozioni, che sprigionano aromi, che dal punto di vista organolettico hanno un bouquet ricco e avvolgente. Su ciò farei la distinzione tra birra artigianale e industriale ( non solo si intenda) ma già sarebbe un passo in avanti dall’ uso troppo spesso deficitario che si fa della parola “artigianale” in campo brassicolo. Le birre industriali sono piatte, sterili,omologate,non suscitano emozioni, non si sente l’ amore del mastro birraio in una heineken o peroni,sono acque colorate al gusto (?) di birra (magari lo fossero !). Non importa se Baladin o Borgo stanno superando i 100.000 hl di birra annui, a me quelle birre emozionano e quindi a mio modestissimo parere si possono definire artigianali !

  14. Incuriosito dall’articolo ho comprato due bottiglie di Menabrea nel supermercato che frequento di solito. Nell’etichetta ho letto che è prodotta a Lagundo, dove fanno la Forst, quindi mi sembra che non sia più solo una situazione di controllo di Forst su Menabrea ma anche di cessata utilizzazione del birrificio di Biella.
    Qualcuno sa dirmi qualcosa in proposito?
    Tra gli ingredienti della Menabrea ho ritrovato il gritz di mais che leggevo sulle etichette Forst…

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