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L’incredibile storia del proibizionismo islandese, che vietò la birra per oltre 70 anni

Se alla fine degli anni ’80 vi foste trovati in Islanda e aveste voluto bere una birra, semplicemente non avreste potuto. Nel paese scandinavo, infatti, era ancora in vigore il divieto di consumare la nostra amata bevanda, imposto più di settanta anni prima da una legge proibizionista. Il caso islandese ovviamente non fu unico nel suo genere, ma fu di gran lunga il più longevo (almeno relativamente alla birra) e uno dei pochi esempi in vigore in Europa nel XX secolo. Come tutte le forme di proibizionismo, influenzò la quotidianità dei cittadini e provocò effetti distorti non prevedibili in origine. Inoltre il ban islandese fu strettamente legato ai rapporti con gli altri paesi europei, sia per le sue origini che per la sua fine. La bevanda fu vietata dal primo gennaio del 1915 al primo marzo del 1989: immaginate una vita intera senza poter bere birra.

Per comprendere le ragioni del proibizionismo islandese occorre tornare alla seconda metà del XIX secolo, quando nel paese, all’epoca sotto il dominio danese, cominciò a svilupparsi un forte sentimento indipendentista. Tutto ciò che era associato alla Danimarca era visto in maniera negativa, compresi diversi aspetti dello stile di vita dei suoi cittadini: il consumo di birra era uno di questi. Così la bevanda nazionale danese subì in Islanda un durissimo colpo, che favorì la popolarità dei movimenti anti alcol. Il peso delle vicende politiche fu tale che nel 1908, quando i movimenti per l’indipendenza si rafforzarono, non fu difficile proporre un referendum per bandire dal paese tutte le bevande alcoliche. La mozione passò con circa il 60% dei voti favorevoli – alle donne ancora non era concesso l’accesso al voto – e l’Islanda si preparò a rivoluzionare il suo rapporto con l’alcol. Secondo il testo del referendum, il ban sarebbe partito il primo gennaio del 1915. E così fu.

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Come tutte le leggi proibizioniste, anche quella islandese favorì il contrabbando, la corruzione e la produzione domestica. Inoltre non mancarono alcune conseguenze al limite del comico. Come ricorda lo storico Stefan Palsson sul sito della BBC, ad esempio, i medici cominciarono a prescrivere grandi quantità di bevande alcoliche come medicinali: vino per problemi nervosi, cognac per difficoltà cardiache e via di seguito. Curiosamente però la birra non riuscì mai ad accreditarsi in tal senso, nonostante all’epoca fosse considerata una bevanda (anzi un alimento) nutriente. Durante il proibizionismo islandese i pittori aumentarono considerevolmente la quantità di alcol acquistato per pulire i loro pennelli, una coincidenza che non piacque ai sostenitori della legge.

Il proibizionismo islandese nacque per motivi politici legati alla Danimarca e iniziò a scricchiolare per quelli commerciali con la Spagna. Nel 1921 la nazione iberica minacciò di bloccare l’importazione del baccalà dall’Islanda – che all’epoca rappresentava il bene più redditizio per il paese scandinavo – se non fosse stato eliminato il veto sull’acquisto dei vini spagnoli e portoghesi. I politici cedettero alle pressioni del partner commerciale, assestando un primo duro colpo al proibizionismo locale. Passarono ancora quasi quindici anni e ai cittadini islandesi fu sottoposto un nuovo referendum, che questa volta ebbe esito opposto. Nel 1935 il ban islandese sulle bevande alcoliche terminò ufficialmente, ma non per la birra.

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Le lobby anti alcol riuscirono infatti a raggiungere un compromesso, escludendo dalla liberalizzazione le birre con tenore alcolico superiore al 2,25%. La loro tesi era che la birra, più economica del vino e dei distillati, sarebbe stata consumata in quantità maggiori e avrebbe favorito la dissolutezza della società islandese. Incredibilmente quella impostazione durò per decenni, escludendo un’intera generazione dal normale rapporto con la bevanda, sebbene il contrabbando continuò in maniera regolare: chi voleva bere birra, prima o poi trovava un modo per farlo. A partire dagli anni ’70, con l’aumento delle vacanze all’estero, gli islandesi scoprirono il fascino dei pub inglesi e delle birrerie europee, cambiando rapidamente opinione sulla bevanda.

I sondaggi condotti negli anni ’80 mostrarono che circa sei islandesi su dieci erano favorevoli alla legalizzazione della birra, mentre il governo cominciò a rendersi conto del potenziale gettito fiscale di una rinnovata industria brassicola nazionale. Dopo un lungo periodo di dibattiti pubblici, nel 1988 il parlamento islandese approvò la legalizzazione della birra, che divenne operativa dal marzo dell’anno successivo. Da allora ogni primo marzo in Islanda si festeggia il Beer Day (Bjórdagurinn) per celebrare la fine del ban sulla birra, con molti locali di Reykjavík che rimangono aperti fino alle quattro del mattino.

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Oggi la birra in Islanda è la bevanda alcolica più popolare, ma il lungo proibizionismo ha influenzato alcuni aspetti dell’approccio al consumo di alcol. Secondo i dati dell’OMS, gli islandesi consumano ogni anni 7,1 litri di alcol puro, una quantità decisamente inferiore a quella di Danimarca (11,4), Regno Unito (11,6), Francia (12,2) e Russia (15,1). Sebbene il binge drinking sia una piaga sociale analogamente ad altri paesi del Nord Europa, l’Islanda vanta una percentuale relativamente alta di astemi. Un aspetto che si ripercuote anche sul Beer Day, una ricorrenza che, nonostante sia citata da tutte le guide turistiche, è lontana dalle celebrazioni festose che ci si aspetterebbe. Insomma, se il prossimo primo marzo sarete in Islanda, non aspettatevi di sperimentare qualcosa di paragonabile a un Oktoberfest o un St. Patrick’s Day.

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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