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Il sistema gustativo: funzionamento, sensazioni e falsi miti

Dopo la lunga (e australiana per qualcuno) pausa di fine anno, rianimo l’attività sinaptica per aggiungere un altro tassello alla nostra rubrica sull’assaggio. Stavamo parlando di olfatto, ricordate? Bene, scendo appena più in basso, spalanco le fauci e vi racconto cosa succede qui. O meglio, ve ne racconto una parte. Sì perché la faccenda è un tantino ingarbugliata, cioè il risultato di svariati stimoli, percepiti con altrettanti recettori (termici e gustativi ad esempio), terminazioni nervose libere (tipo quelle sensibili al piccante) e sistemi misti. Insomma, qui lavorano in sinergia parecchi telescopi sensoriali e, data la loro moltitudine e complessità (e la mia attitudine alla confusione), raccontarne un pezzetto per volta dovrebbe semplificare le cose.

Protagonista oggi è il sistema gustativo, ciò che si attiva quando discutete dell’attenuazione di una Pilsner, l’acidità di una Oud Gueuze o l’amaro di una AIPA. L’organo di senso delle sbandierate geografie, quello che ha la retro(gusto) e lavora così in simbiosi con l’olfatto da sembrare un tutt’uno. Già, l’assaggio avviene in un contesto fortemente sinestesico ma ogni sistema sensoriale ha il proprio ruolo e risponde a specifiche stimolazioni. L’olfatto anticipa e descrive (ampiamente, senza quello le nostre amate sarebbero decisamente anonime) e il gusto rileva i sapori (nutrienti) nei secondi che precedono la deglutizione, a volte rispondendo intelligentemente a necessità alimentari, altre a ben diverse (e un filo coatte, spiegatemi in altro modo l’esistenza del Ciao Crem) variabili.

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È sempre bene ricordare che l’equipaggiamento di cui siamo dotati svolge innanzitutto la funzione primaria di garantire la sopravvivenza, individuando le qualità alimentari di quanto ingurgitiamo e facendoci eventualmente rifiutare ciò che reputiamo inadatto/tossico. Il cosa e il quanto sono frutto di moltissimi fattori. Alcuni dipendono dall’ambiente in cui siamo cresciuti e viviamo, ciò che si lega al concetto di educazione e cultura alimentare, altri sono più legati alla nostra sensorialità, quella che ci differenzia in base al sesso ad esempio (l’universo femminile mostra generalmente una maggiore sensibilità rispetto agli uomini per i sapori dolci e i salati e una minore sensibilità all’acido ad esempio) e, più in generale, che ci rende unici in relazione al nostro corredo genetico, che stabilirà quanti recettori gustativi avremo ad esempio, la loro forma e densità.

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Mi aiuto con un’infografia che mostra la suddivisione della popolazione in base al numero di recettori gustativi (si contano le papille fungiformi) e la loro vicinanza. Si ritiene infatti che il numero di papille e la doro densità influiscano sulla percezione dei sapori. Maggiore è la densità, maggiore dovrebbe essere la sensibilità ai gusti (a parità di altre caratteristiche). Sensibilità genetica largamente indagata anche per quanto concerne l’atavica e controversa risposta all’amaro, ad alcuni amari in particolare (PTC e PROP in gergo sono i test che indagano la sensibilità ai cosiddetti Tiocianati, sostanze dal sapore amaro presenti in molti ortaggi). Chi è in grado di percepire l’amaro indotto da queste sostanze mostra una maggiore sensibilità alle sensazioni percepite in bocca (quindi non solo amare) rispetto a chi non è in grado di farlo.

La risposta sensoriale a questo tipo di sostanze varia in modo considerevole da soggetto a soggetto, c’è chi non avverte affatto l’amaro, chi moderatamente e chi allontana immediatamente il campione con evidenti segnali di repulsione (la scala utilizzata per il test che indaga questa sensibilità, tende idealmente all’infinito come valore massimo, chi ha questo tipo di sensibilità genetica sperimenta infatti una risposta estrema, imparagonabile ad altro). Qualora ve lo steste chiedendo, no, non è lo stesso amaro degli alfa acidi. Sono sostanze diverse e generano risposte diverse. Si può essere super sensibili ad alcuni amari, ma amarne comunque altri (o almeno, la mia esperienza suggerisce questo).

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Ricapitolando, numero e vicinanza di recettori gustativi e sensibilità genetica all’amaro hanno un peso rilevante sull’intensità con cui sperimentiamo i sapori, variando di conseguenza le nostre soglie di percezione, accettabilità/rifiuto di un alimento. Sarebbero dunque molto più sensibili (pare fino a 3 volte di più) i cosiddetti super taster rispetto ai non taster. Alcuni studi utilizzano la sola sensibilità genetica all’amaro per stabilirlo, suddividendo la popolazione in base a questa caratteristica (25% supertaster, 25% non taster, il restante 50% nel mezzo), altri prendono in esame anche il numero di papille fungiformi. Le scienze sensoriali sono discipline relativamente recenti e in continuo aggiornamento. Sono ancora molti i tasselli da incasellare ma ciò che trova ulteriori conferme è sempre legato al concetto di soggettività. Non percepiamo i sapori nello stesso modo, non abbiamo la stessa idea di “quella birra”. L’assaggio è una faccenda parecchio personale (ed è poi quello il bello). Dovremmo sempre tenerlo a mente quando siamo chiamati a dare un giudizio.

Sapore di sale, sapore di grasso?

Sebbene la varietà di molecole dotate di sapore negli alimenti sia vastissima, sono poche le sensazioni gustative che abbiamo imparato a distingue con chiarezza. Gli zuccheri sono tutti uguali? E i sali? I nostri recettori rispondono nello stesso modo a diverse fonti di amaro? Decisamente no, piuttosto abitudini culturali ci hanno insegnato a semplificare il lessico, raggruppandoli nei gusti fondamentali che conosciamo, limitandoci a discriminare l’intensità di ogni sapore. Dolce, acido, salato e amaro si manifestano con chiarezza (non credo serva spiegarlo a voi, atleti della pinta) e tempi di latenza simili (attorno al secondo, con l’amaro un pochino di più). Non siamo così bravi a discriminare con precisione l’ormai sdoganata sapidità (umami), il gusto saporito del glutammato monosodico, il sale dell’acido glutammico, uno degli amminoacidi più importanti che costituiscono le proteine (di cui siamo fatti). È presente naturalmente in molti alimenti (latte, pomodori, funghi, salsa di soia, formaggi a lunga stagionatura) e sintetizzato è largamente utilizzato per la sua capacità di esaltare i sapori salati e dolci. Ne andiamo ghiotti ma individuarlo con precisione è complicato, vuoi perché la sua presenza è legata ad altri sapori, vuoi perché il suo manifestarsi genera uno stimolo non immediato. La risposta sensoriale al glutammato assaggiato in purezza sembra stare “nel mezzo” tra il salato e il dolce, forse proprio per questo ne abbiamo un’idea confusa.

Che sapore ha il grasso? Non mi è chiaro (però so come mi sento dopo aver spalmato del gorgonzola sul pane caldo), ma posso dirvi che potrebbe chiamarsi Oleogustus. Richard Mattes e il team di ricercatori della Purdue University hanno proposto questo nome per il descrittore che definirebbe la sensazione gustativa legata agli acidi grassi, al grasso insomma. Sembra infatti siano stati individuati specifici recettori gustativi in grado di individuare la presenza di grassi negli alimenti, stimolando quindi la nostra sensorialità non solo da tattile. Per dimostrarlo, Mattes e colleghi hanno selezionato un gruppo di volontari proponendo loro campioni contenenti sostanze riconducibili ai cinque sapori primari e ovviamente il presunto sesto, proposto in diverse forme (a corta e lunga catena, qui servirebbe un chimico). Semplificando, in alcuni casi il sapore di grasso (di alcuni grassi) è stato sovrapposto e confuso con altro, in altri ha generano sensazioni qualitativamente diverse, quindi distinte, rispetto agli altri sapori primari. Potrem(m)o avere un descrittore nuovo di zecca da aggiungere alle schede d’assaggio? Casomai imparassimo a riconoscerlo…

Supercazzole geografiche

Mi sa che abbiamo mal interpretato gli studi dell’esimio D.P. Hänig, lo scienziato che per primo misurò le soglie gustative basandosi sugli studi di E. B. Tichener, (allievo di W. Wundt, padre della psicologia sperimentale). Hänig dimostrò l’esistenza di una preferenza specifica dei singoli recettori rispetto ai sapori primari, cosa peraltro confermata, ma non affermò mai che quegli stessi recettori non erano in grado di percepire anche altri sapori. E con questa errata convinzione abbiamo scritto quintalate di materiale e indottrinato ambasciatori di ogni ordine e grado geografizzando la lingua.

Ma oggi (credo sia passato un ventennio in realtà) sappiamo che le papille gustative dotate di gemme gustative (o bottoni) non rispondono ad un unico sapore ma a più stimoli gustativi, seppur in modo diverso. Esiste una preferenza specifica dei recettori, ma non vi è una selettività assoluta. Potreste insomma percepire il dolce non solo sulla punta della lingua, o il salato solo ai lati e via discorrendo. La discriminazione dei sapori non è tanto una faccenda “territoriale”, ma dipende piuttosto dal tipo di recettore e dalla sua attività di confronto in relazione all’attività degli altri recettori del gusto. La percezione avviene a macchia di leopardo su quasi tutta la lingua, labbra e gran parte della cavità orale.

E ‘sto retrogusto?

L’unica sensazione propria dei recettori del gusto a lasciare un ricordo di sé dopo la deglutizione è l’amaro. Il resto è dato da aromi percepiti per via retrolfattiva e altre sensazioni (astringenza e viscosità ad esempio). Sarebbe quindi più corretto parlare di retrolfatto, più in generale descrivere le sensazioni in funzione dell’organo di senso a cui sono legate. La scuola anglofona all’assaggio non fa questo tipo di distinzione ma chiama flavour l’insieme di aromi e sapori percepiti mentre vi sollazzate con il vostro nettare preferito. Non li discrimina ma li unisce nelle descrizioni. E vi dirò, a me questa semplificazione non piace un granché perché genera confusione. Vallo a spiegare poi che non esiste il “gusto” di fruttato, cioccolato e vattelapesca, quelli sono odori. Qualcuno potrebbe dissentire pensando che la mia sia pignoleria (forse lo è). Probabilmente gli anni in aula mi hanno portato a credere che per districarsi meglio in questa complessa matassa sensoriale sia utile un po’ più di ordine. Dunque riordiniamo le idee e ripassando i fondamentali. Apriamocene una buona e facciamo esercizio.

Per approfondire:

Stefania Pompele
Stefania Pompele
Veronese, un diploma agroalimentare e una sete atavica che si ripresenta in maturità. Dopo una formazione nel mondo del vino (Onav e AIS), si specializza in meccanismi percettivi e analisi sensoriale al Centro Studi Assaggiatori. Panel leader, si occupa di formazione collaborando con istituti alberghieri ed enti privati. La birra? È colpa di quella sete atavica e di un amico birraio. Dice che le riesca bene berla, ma ogni tanto ne parla/scrive anche.

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