Mentre in Italia è in pieno corso di svolgimento la quarta edizione della Settimana della Birra Artigianale, tanti neofiti forse si staranno domandando: “ok, ma cos’è la birra artigianale?“. Ognuno di noi può rispondere alla domanda in modo diverso – io sul sito dell’iniziativa l’ho fatto secondo la mia visione – ma sostanzialmente sappiamo tutti che nel nostro paese non esiste una definizione ufficiale, e forse è meglio così. La stessa cosa però non si può affermare per altre realtà: negli USA ad esempio la “craft beer” è regolamentata dal 2007 attraverso una serie di criteri definiti dalla Brewers Association. Proprio in questi giorni tale definizione ha subito alcune interessanti modifiche, richieste per adattarla alle evoluzioni di un fenomeno in straordinaria crescita. Analizzare tali modifiche significa capire che strada sta prendendo la birra artigianale americana e, probabilmente, anche quella delle nazioni emergenti nel settore, Italia compresa.
Qualcuno di voi saprà probabilmente che la definizione americana di craft beer (o meglio, di craft brewer) implica che siano rispettate tre semplici regole, che garantiscono che il birrificio sia piccolo, indipendente e tradizionale. Ovviamente questi vincoli sono più complessi di quanto possano apparire a una prima lettura, tanto ad esempio che il concetto di “piccolo” diventa molto relativo. Come riportato dal sito Beerpulse, recentemente la Brewers Association ha modificato leggermente ognuno dei tre punti, effettuando una revisione alla definizione senza precedenti. In passato, infatti, al massimo era stato rivisto al rialzo il limite produttivo annuo, mentre in questa occasione molti passaggi sono stati riscritti. Il succo del discorso non è cambiato – e questo è senza dubbio l’aspetto più importante – però alcune sfumature introdotte offrono parecchi spunti di riflessione.
Vediamo allora nell’ordine come sono cambiate le suddette tre regole. Secondo la nuova definizione un birrificio americano “craft” deve essere:
Piccolo: La produzione annuale non deve eccedere i 6 milioni di barili (circa il 3% di tutta la birra venduta negli USA). La produzione di birra è stabilita dalle norme di alternanza tra i produttori.
Qui la modifica più importante è tra parentesi. Il limite massimo produttivo è rimasto invariato, ma è stato contestualizzato rispetto al mercato complessivo della birra attraverso successivo dato tra parentesi. A mio modo di vedere si tratta di un tentativo di spiegare l’apparente contraddizione tra il concetto di “piccolo” e un limite massimo di ettolitri l’anno che sembra andare in direzione completamente opposta. Come a dire: “ok è alto, però in relazione al mercato generale della birra è una percentuale minima”. La spiegazione vi convince?
Passiamo al secondo criterio:
Indipendente: Un birrificio craft non può avere più del 25% delle sue quote di proprietà o sotto il controllo (o analoghi interessi economici) di una compagnia dell’industria del beverage, a meno che non sia essa stessa un birrificio craft.
Qui le modifiche sono minime e irrilevanti: servono solo a riformulare la norma in un linguaggio più appropriato.
Infine il terzo criterio, quello che propone le modifiche più significative:
Tradizionale: Un birrificio la cui parte principale di produzione è costituita di birre i cui aromi derivano da ingredienti brassicoli tradizionali o innovativi e dalla loro fermentazione. Le bevande di malto aromatizzate (FMBs) non sono considerate birre.
Questa parte della definizione è stata profondamente modificata. La versione precedente, infatti, obbligava il birrificio ad avere in gamma o una birra di punta prodotta con 100% malto, oppure un 50% della produzione composta di birre 100% malto o che impiegassero surrogati del malto per enfatizzare gli aromi piuttosto che per alleggerirli.
Nonostante l’idea di base della precedente revisione fosse quella di escludere birrifici che facessero ricorso agli stessi svilenti escamotage dell’industria – cioè utilizzare pessimi surrogati del malto d’orzo, come mais o riso, per abbattere i costi di produzione – il risultato era una norma arzigogolata e cervellotica. E soprattutto con una conseguenza piuttosto pesante: escludere quei birrifici a conduzione familiare che rimanevano strettamente legati al loro passato. In che senso? Ve lo spiego subito…
Se siete lettori assidui, ricorderete che del problema già vi parlai a gennaio 2013, quando negli Stati Uniti scoppiò una polemica proprio intorno alla vecchia definizione di birra craft. All’epoca la Brewers Association pubblicò un documento che riportava i marchi non considerabili craft e i motivi per cui erano esclusi. Il problema è che oltre ai brand delle multinazionali (estromessi per motivi ovvi), c’erano anche alcuni birrifici a conduzione familiare, colpevoli di non rispettare il terzo criterio, quello appena visto. In effetti per come era formulata, quella norma non considerava i produttori in buona fede, diciamo così, che continuavano a realizzare le loro birre come facevano in secoli passati.
Curiosamente è un aspetto che ho raccontato proprio lunedì scorso durante la mia lezione sulle basse fermentazioni per ADB Lazio: per lunghi tempi produrre birra negli USA è stata un’attività complicata, in primis a causa della difficoltà di reperire materie prime adeguate, cioè soprattutto malto d’orzo. Tanti birrai furono allora costretti a impiegare cereali diversi, come riso, mais, segale, se non addirittura a ricorrere a ingredienti completamente diversi, come le zucche. Lo stile delle American Lager, previsto dal BJCP, prevede proprio che queste birre siano brassate con un’alta percentuale di fermentabili alternativi al malto d’orzo. Quindi il voler rimanere legati alle proprie tradizioni paradossalmente portò alcuni birrifici a violare il criterio sulla “tradizione”.
Tutto questo per spiegare la riscrittura della terza norma della definizione, che ora potrà includere produttori come Yuengling, il più grande birrificio americano a conduzione familiare.
Parallelamente alla revisione della definizione, la Brewers Association ha anche rivisto alcuni passaggi del suo statuto, in particolare quelli riguardanti i propositi, la missione e i valori intrinseci dell’associazione. Ma per questi aspetti vi rimando a un interessante articolo di Thomas Cizauskas.
Cosa ne pensate della nuova definizione? Vi sembra giusto includere birrifici come Yuengling? E considerare 6 milioni di ettolitri un limite massimo ragionevole per un produttore craft? A ogni modo è importante che una definizione del genere sia formulata e modificata da un’associazione di categoria e non dalla classe politica. Ricordiamolo sempre…
Manca il punto più importante, che poi non c’è mai stato, che contraddistingue ad esempio lo statuto di UB…la NON PASTORIZZAZIONE della birra oltre alla filtrazione,
che in US viene fatta bella spinta…
Chiaramente solo alcuni birrifici possono permettersi filtri micron ed impianti di pastorizzazione e per fortuna è solo una piccola minoranza che utilizza anche quella “flash”.
La differenza è come mangiare una formaggio a latte crudo e un Babybel…
Almeno una buona parte dei birrifici italiani riporta sull’etichetta la dicitura NON PASTORIZZATO/NON FILTRATO che dovrebbe essere secondo il mio parere obbligatoria come rispetto verso il consumatore finale
Concordo con te Bilbo, troppo facile filtrare e pastorizzare, allora la differenza dov’è…nelle molte ricette?? Bhuah la vera birra artigianale è ancora solo quella italiana!!! E poi il limite 6 mln di barili??? Che dovrebbero corrispondere a 9 mln di Hl?? Artigianale???
Certo che un simile commento scritto da uno che ha un birrificio.
Arrivo un po’ tardi su questa discussione ma voglio lasciare ugualmente un commento. Prima di tutto rispondo a Bilbo e Padus’13…dico solamente che sminuire le tecniche di filtrazione e pastorizzazione con “troppo facile filtrare e pastorizzare” mi fa pensare che chi parla non capisce un accidente di birra e tantomeno di trasformazioni alimentari. Se la scelta di non pastorizzare e non filtrare (o meglio oserei dire non fare filtrazioni eccessive) viene fatta per un discorso di mantenimento degli aromi ci posso anche stare, ma far passare il concetto come una cosa facile mi sta meno bene.
Tornando alla revisione fatta sulla definizione “craft” mi sembra piu’ che giusto permettere a quei birrifici che utilizzano prodotti detti succedanei di rientrare a pieno titolo nel mondo “craft”. Bisogna smetterla di pensare che prodotti quali mais, riso, ecc siano di scarsa qualita’…anzi permettono a noi birrai di avere ancora piu’ ingredienti a disposizione ed ampliare lo spettro di gusti e sapori. Altrimenti bisognerebbe cestinare tutta una serie di ricette tipiche della cultura culinaria italiana solo perche’ fatte con ingredienti a basso costo, oggi considerati secondari. Oppure, rimanendo nel campo delle birre bisognerebbe repellere le birre che utilizzano luppoli a basso costo (come molti tedeschi o inglesi) e bere solo spremute di amarillo e citra. Basta, basta, basta di pensare che prodotti che costano poco non possano essere utilizzati in modo giusto e onorevole.
L’unica cosa che mi lascia perplesso e’ il dimensionamento…il termine artigianale in italiano vuol dire fatto a mano e autoctono…e l’espansione di un birrificio e’ solo mirata a raggiungere un piu’ altro numero di consumatori (in tutto il mondo) perdendo la naturale accezione di “fatto a mano” e tantomeno da “consumare in loco”. Io non ho mai visto un artigiano con le mani curate…quindi quando volete una prova se un birrificio e’ artigianale guardate le mani del birraio. Forse sarebbe meglio mettere questa come definizione di birra artigianale in italia.