Tante volte su Cronache di Birra abbiamo parlato del mezzo fallimento della birra artigianale nei ristoranti. In Italia il flop è piuttosto evidente, soprattutto se consideriamo il modo in cui si è sviluppato il segmento brassicolo e il patrimonio culinario a nostra disposizione, ma anche all’estero non è che le cose vadano meglio. Come abbiamo spiegato le cause sono diverse, ma spesso derivano da una certa supponenza del mondo enogastronomico nei confronti della birra, che non permette una corretta diffusione delle conoscenze in materia. Il risultato è che tanti ristoranti, anche molto quotati, spesso ignorano totalmente la birra artigianale e quando non lo fanno è anche peggio: le carte si riempiono di prodotti crafty o dal dubbio gusto, che stonano totalmente con la ricerca effettuata in tutti gli altri aspetti della propria offerta. Un recente articolo pubblicato su BarBusiness sembrerebbe però offrire una possibilità di riscatto, almeno apparentemente.
La notizia in realtà risale a fine 2016 e racconta della prima stella Michelin assegnata a un brewpub. Siamo negli Stati Uniti, più precisamente a Chicago, e il birrificio in questione è Band of Bohemia, aperto da Michael Carroll e Craig Sindelar. I due oltre a vantare una passata esperienza presso lo stesso ristorante tristellato (l’Alinea), si definiscono grandi appassionati di birra: da qui l’idea di aprire un luogo che unisse la produzione a una cucina di alta qualità. Un sogno realizzato dopo tanto studio – e ingenti investimenti, aggiungerei – e che ha portato i suoi frutti, poiché qualche mese fa il locale è stato insignito della Stella Michelin, uno dei più importanti riconoscimenti che un ristorante può ottenere.
Fin qui tutto bene, la notizia fila via liscia e sembra aprire orizzonti ottimistici per il futuro della nostra bevanda nella ristorazione. Poi però ci si imbatte in un passaggio abbastanza inquietante, quando cioè si entra nel dettaglio dell’idea alla base del Band of Bohemia. Come riportato dall’articolo, l’obiettivo dei due soci era di:
Mettere a punto un progetto originale e innovativo: fondare un birrificio che producesse la birra culinaria.
Cosa? Che cavolo sarebbe ora la “birra culinaria”?
Prima ancora di lasciarci il tempo di ipotizzare una risposta, l’articolo si trasforma in un’intervista e rivolge la stessa domanda direttamente a Michael Carroll, che replica così:
Il grande divario tra l’una e l’altra (la birra artigianale ndR) sta proprio nell’utilizzo dei termini: nell’ultimo decennio la parola artigianale ha subito un abuso e ha perso il suo lustro. Artigianale dovrebbe significare che qualcosa è fatto con le mani e con il know-how, non con costosissimi macchinari comandati da un computer. Moltissimi birrifici artigianali hanno iniziato a produrre centinaia di migliaia di barili l’anno e hanno continuato ad auto-attribuirsi l’aggettivo artigianale. Per me non c’è più artigianalità in tutto questo.”
La birra culinaria è un termine che abbiamo coniato noi e che vogliamo rappresenti la vera birra artigianale, fatta con le mani, unita all’elemento culinario, ovvero al cucinare la birra. Tutte le nostre birre, hanno qualche elemento proveniente dalla cucina. É una sorta di procedimento inverso nell’abbinamento. La birra stessa viene creata in modo tale da essere facilmente abbinata con un piatto e andare a creare un perfetto matrimonio di sapori. Questa è quella che definiamo birra culinaria.
Se siete ancora perplessi e disorientati è del tutto comprensibile. Un esempio dello stesso Carroll chiarisce meglio il discorso:
Attualmente abbiamo in menù una Honey Porter alla Patata Dolce: arrostiamo le patate dolci con la buccia e poi aggiungiamo la buccia al mosto. L’idea sarebbe quella di distillare il sapore della buccia arrostita della patata ed unirlo alla base di malto. A questo punto possiamo iniziare le prove dei piatti fino ad arrivare all’abbinamento finale.
Con la Honey Porter alla Patata Dolce il mio abbinamento preferito è un dessert alla pastinaca e mela, con meringa al limone.
D’accordo, si comincia a comprendere un po’ meglio come funziona questa birra culinaria, ma l’idea appare decisamente strampalata. Che senso ha mettere in piedi tutto questo ambaradan per arrivare semplicemente a un abbinamento birra – cibo? Perché bisogna inventarsi un concetto nuovo e a mio parere orribile per giustificare la presenza della birra in cucina? Non è che alla base di tutto ci sia l’idea che la birra “normale”, quella craft presente sul mercato, non sia degna di accompagnare l’alta ristorazione, e debba essere sostituita da un suo surrogato?
Mi chiedo com’è possibile che non possa semplicemente esistere un ristorante di qualità, stellato o meno che sia, che proponga una valida lista di birre in bottiglia, senza dover per forza lanciarsi in risibili voli pindarici. Un ristorante nel quale il sommelier sappia suggerire abbinamenti ragionati non solo col vino, ma anche con la birra. Un ristorante nel quale si faccia ricerca sulla straordinaria varietà che ci mette a disposizione la cultura birraria mondiale, senza dover inventare qualcosa di nuovo.
E niente, ancora una volta si conferma la gigantesca distanza che esiste tra il mondo dell’enogastronomia e quello dei “birricoli”, cioè di noi appassionati – tanto per usare un termine caro a qualche critico. Pur con tutte le differenze di pensiero che ci sono nell’ambiente, noi conosciamo la birra. Loro la ignorano a priori, o al massimo se ne escono con splendide invenzioni come il concetto di birra culinaria. Che poi, a ben vedere, è proprio l’incarnazione di birra che tanto ridicolizzano. Bene così, io vado a farmi una pinta al mio pub di fiducia.