D’accordo, spieghiamo subito il titolo. Su segnalazione di Kuaska, ho letto un articolo del San Francisco Chronicle che analizza la scena birraria italiana. Il pezzo non scende nei particolari, ma offre comunque una valida visione d’insieme, dalla quale il nostro paese ne esce alla grande: è esaltata soprattutto la creatività dei nostri birrai e la capacità di reinventare gli stili tradizionali con ingredienti nuovi, spesso legati al territorio. Non mancano gli interventi di nostri concittadini: in primis lo stesso Lorenzo, ma anche Giovanni Campari del Birrificio del Ducato e Alex Liberati della Brasserie 4:20, uno dei locali fondamentali per la birra qui a Roma.
Quindi si tratta si un articolo esaltante, che quasi ovunque magnifica la nostra scena brassicola. Nel coro unanime di giudizi positivi, c’è la sola nota stonata dell’importatore Dan Shelton:
Queste birre sono molto appariscenti, poiché i birrai stanno cercando un modo per distinguersi. Ritengo che la cucina italiana sia assai migliore della loro birra; un bravo chef italiano raramente usa più di quattro ingredienti nei suoi piatti.
La metafora è ovvia: prima di buttarsi in produzioni originali e inusuali, i birrai italiani dovrebbero acquisire una totale esperienza nei metodi “classici” di brassaggio, concentrandosi quindi sui quattro ingredienti principali: malto, luppolo, acqua e lieviti. Come a dire: in Italia non c’è una tradizione birraria, quindi prima imparate a fare le birre classiche e poi inventatevi le vostre variazioni sul tema.
Un’uscita che Kuaska ha sottolineato sin da subito, motivandola con la gelosia di Shelton per non avere birre italiane in catalogo, a parte la Panil Barriquée. Un commento poco felice, che tuttavia merita forse qualche riflessione in merito. Ovviamente non è il caso di criticare la scena italiana per la sua creatività, anzi; tuttavia in qualche circostanza mi è sembrato di assistere a una corsa all’uso dell’ingrediente particolare fine a se stessa, perdendo di vista ciò che una birra dovrebbe rappresentare innanzitutto.
Non sono contro l’uso di ingredienti particolari, ci mancherebbe. Eppure – pur non volendo sostenere la tesi di Shelton – non vorrei assistere al proliferare della moda della birra “strana” a tutti i costi, a discapito magari di stili tradizionali. Un birrificio, secondo me, dovrebbe quantomeno suddividere numericamente la propria offerta in birre tradizionali e birre innovative. Quando invece le seconde superano le prime, allora c’è qualcosa che non va… Voi che ne pensate?
Ma hai visto i prezzi delle birre in fondo all’articolo?
Tornando a bomba: ci sono da fare dei distinguo. Se è vero che la scena italiana si caratterizza per la sua fantasia e per l’uso di ingredienti insoliti, c’è anche da dire che ci sono un sacco di birre “base” molto valide, vedi la Tipopils su tutte. A me, come consumatore, interessa la piacevolezza finale del prodotto, le emozioni che posso trarre da un’esperienza gustativa, non se il mastro birraio ha usato 2 ingredienti al posto di 99. Per dire: divento matto per due spaghetti al pomodoro fatti bene, ma ho goduto come un riccio anche con il merluzzo nero su purè di ceci con crosta di Patanegra di Heinz Beck, un piatto che non ha sicuramente nulla di semplice.
Il problema delle birre costruite per accattivare, non è nuovo. Il termine “gimmicky”, usato da Shelton rende bene l’idea. Incollo dal mio dizionario di fiducia: “pieno di ammenicoli, di trovate, per attirare l’attenzione”.
Non posso che essere d’accordo riguardo la necessità che i birrai nostrani producano birre “tradizionali” di alto livello prima di tuffarsi in spericolati esperimenti. Posizione fra l’altro riscontrata negli ultimi tempi anche parlando con persone che di birra ne bevono e ne capiscono un botto più di me, e da alcuni rese anche pubbliche attraverso articoli comparsi sia su Internet che su carta. E’ auspicabile la nascita in italia di un centro di formazione per birrai. Molti negli ultimi anni hanno fiutato il terreno fertile, pochi vengono da anni di homebrewing.
Credo inoltre che la produzione di birre di largo e facile consumo sia l’unica via per scardinare il mercato ed uscire dalla nicchia, con conseguente abbassamento dei prezzi. Ma anche questa non è una cosa che dico io qui per primo. Ciononostante penso che nessuno possa lamentarsi dell’estro italiano, dopo aver bevuto, che so, una birra con le carrube e le fave di cacao. Ma neppure la berrebbe tutti i giorni. E difatti credo che il parallelo con la cucina sia azzeccato: non penso che nessuno di noi sia cresciuto con la propria madre che gli presentava per esempio, dei “cilindri di grano duro del Salento con falde di pomodoro di Pachino e basilico del Ponente Ligure”, ma un bel piatto di spaghetti durante la settimana, e poi la domenica, festa. Lo stesso dovrebbe valere per la birra, con le specialità per le occasioni importanti, e delle sane birrazze per tutti i giorni.
Ma il problema non è così semplice, e sconfiggere i colossi con le loro stesse armi può sembrare un compito improbo a chi pensi di provarci.
Meno male, pensavo di essere tra i pochi a pensarla così 😉
In particolare condivido appieno le parole di Scauca quando dice “Credo inoltre che la produzione di birre di largo e facile consumo sia l’unica via per scardinare il mercato ed uscire dalla nicchia, con conseguente abbassamento dei prezzi”. Non so se si può arrivare addirittura a una riduzione dei prezzi, ma sicuramente per uscire dalla nicchia occorrono soprattutto birre “normali”. Finché domineranno (a livello di attenzione e visibilità) birre particolari, l’artigianalità resterà confinata a un fenomeno di culto: la birra artigianale sarà la birra particolare, l’eccezione di fronte alle “bionde” e alle “doppio malto” delle multinazionali.
Invece sappiamo benissimo che anche sugli stili tradizionali la birra artigianale è evidentemente superiore a quella industriale: purtroppo molti birrifici guardano più al breve termine e preferiscono puntare ai vantaggi immediati (di visibilità e interesse) di una birra creativa che a costruire una base solida di consumatori.
Ho riletto i vari commenti ma in particolare quello di Andrea, con il quale mi trovo abbastanza d’accordo… A parte alcune eccezioni, (la TipoPils appartiene ad un altro pianeta nell’ambito delle birre artigianali italiane….) quello che vedo in giro è che sulla birra da “quotidiano” in Italia, nel settore artigianale, siamo lontani da avere un livello medio veramente soddisfacente.
Non vorrei risultare provocatorio, e mettendo da parte ovvie considerazioni sul rapporto Q/P, dovendo scegliere una birra da bere senza stare a farne “la degustazione” si potrebbe purtroppo guardare a molte birre tra quelle “industriali”…
Senza scadere nel “volgare”, una buona weizen (…mi viene in mente ad es. Paulaner…), una pils non necessariamente tra quelle scadenti,una bock o doppelbock (ancora Paulaner…adoro la Salvator…) rappresenta secondo me ancora un punto d’arrivo per parecchi birrifici che mancano di decenza proprio sui fondamentali…e questo dovrebbe far riflettere…
A volte mi capita di bere birra con amici appassionati ed anche produttori, a volte ci sono anche birre “del nemico”…a volte tra di noi il commento che si fa è… “avercene di birre così…”
Un saluto a tutti….
Concordo pienamente con Scauca e aggiungo che forse non tutti sanno che a “tirare la carretta” in un birrificio non sono certo le birre “strane”, ma quelle di più facile consumo. Il parallelo con la cucina di tutti giorni e quella delle feste rende perfettamente l’idea. Avere in gamma qualche birra “strana” desta sicuramente la curiosità dei media in primis e degli appassionati poi e dona un po’ di prestigio al birrificio ma non aiuta affatto a far quadrare i conti. Però sicuramente diverte il birraio che per qualche cotta all’anno esce dalla “routine brassicola” per fare spazio al suo estro creativo, così come fa uno chef al quale non si più chiedere di fare sempre e solo filetto alla griglia o spaghetti allo scoglio 🙂
Per quanto riguarda invece l’uscita delle birre artigianali dal mercato di nicchia per abbassare i prezzi non la vedo affatto così: le birre artigianali italiane per dimensione produttiva (ridotta) degli impianti e per i costi da sostenere in Italia (specie per chi deve ammortizzare l’acquisto dell’impianto stesso, ossia per almeno 5 anni di attività)portano necessariamente ad affidarsi ai mercati della ristorazione e alle enoteche/beershop, con rapporto diretto con i clienti, pena il ricarico eccessivo sul costo iniziale della birra, operato dai passaggi della distribuzione.
Non gestisco (peccato!) un birrificio – quindi sono pronto ad essere smentito – tuttavia ho i miei dubbi che le birre originali siano così poco redditizie in confronto a quelle classiche. A me sembra che, a parte i nomi storici del movimento italiano, all’estero si parli solo delle nostre birre “strane”. Se gli USA (o chi per loro) recepiscono l’Italia brassicola come la culla di birre originali, cercheranno quelle, c’è poco da fare. E la cosa non riguarda solo l’estero.
Caro Andrea, ti posso assicurare che ciò che ho detto è derivante dalla mia esperienza: mettere in bottiglia una birra che fai solo una volta all’anno comporta una registrazione nuova all’Agenzia delle Dogane, un lavoro del grafico sull’etichetta, la stampa della stessa in (non meno di) 5000 pezzi…e magari una bottiglia dedicata. Tutto questo per, diciamo, 1000 bottiglie/anno?Beh, prima di rientrare delle spese e fare un po’ di “utile” ci si mette qualche anno, anche se si esce con un costo non basso sulla birra finita…
Per cui, se non per motivi comprensibilissimi d’immagine e divertimento del birraio come dicevo nel precedente post, tale birra non può certo essere quella che contribuisce in modo concreto a pagare le rate delle banche. Gli americani più di altri consumatori sono attratti dalle creazioni brassicole italiane, ma sono pochi e non ne comprano a camionate dato che, una volta in USA, tali birre hanno prezzi elevati, anche quando, come accade alle mie, vengono vendute all’importatore americano a (poco meno) di quanto vengono vendute in Italia.
La risonanza che certi articoli molto positivi sulle nostre birre hanno sul panorama brassicolo italiano e mondiale (e meno male che ciò accade!!) non però deve trarre in inganno su chissà quali facili e corposi guadagni dei birrifici citati in tali recensioni
Io sono sempre dell’avviso che la varietà (sempre tenendo il timone fisso sull’alta qualità) è e deve essere la regola alla quale attenersi in Italia e fuori per tutti (nessuno escluso!!) i birrifici arigianali italiani.
Nicola non voglio mettere in dubbio ciò che dici – ci mancherebbe! – però a questo punto la domanda nasce spontanea (come diceva qualcuno): perché se una birra particolare è tanto svantaggiosa in termini economici, ne vengono prodotte così tante in Italia? E non solo in Italia, ormai all’estero è un susseguirsi di edizioni limitate, collaborazioni tra birrifici, versioni particolari di altre birre. Si stanno semplicemente tutti divertendo?
Posso parlare per mia esperienza personale, che non credo sia molto lontano da quella di altri birrai.
Le birre “particolari” sono una grande sfida: sono quelle birre con le quali e attraverso le quali un birraio si misura con se stesso e le sue aspirazioni, sia in termini di riuscita della ricetta, sia di gradimento del pubblico. Quindi, tali birre per quanto strane, devono essere vendute, altrimenti rimangono come prototipi da lasciare in cantina e degustare con gli amici di tanto in tanto, ma ciò diventerebbe un “hobby” un po’ troppo dispendioso per una piccola impresa come la mia. 🙁
Riconosco che un birrificio artigianale ha molti più gradi di libertà di un’industria: lo dimostra il fatto che gli artigiani possono “giocare” con una marea di materie prime, alcune delle quali tipiche del proprio territorio, cosa ovviamente impensabile per l’industria. Riconosco anche che mi diverto di più quando faccio una ricetta nuova e poi quando vedo che il mercato risponde bene: è un divertimento impagabile vedere che ciò che piace a te riesci anche a venderlo, anche perchè ti permette di mandare avanti la tua passione senza compromessi.
Ciò che dovrebbe contraddistinguere una produzione birraria artigianale da una industriale sta proprio lì, ossia nella caratterizzazione dei prodotti. Però tale personalizzazione non è, ripeto, ciò che fa pagare i conti, ma solo una minima parte.
Dovrebbe partecipare a questa piacevole e interessante discussione anche il mio carissimo amico “Riccardino” (Birrificio Montegioco)che fa una marea di birre fuori dai “soliti canoni birrari” ma che, per la maggior parte, rimangono in cantina opppure ne fa una cotta/anno. Se gli chiedi qual’è la birra che vende di più probabilmente risponderà Runa bianca o Demon Hunter o birre comunque “facili” da bere, come per me è la Friska, la Zàgara o la Toccadibò, non certo la BB10 🙂
Ciao, quello che mi chiedo io, ma le birre “quotidiane” o “semplici” sono solo Pils e Lager e al max Weisse?
E’ vero che facendo un censimento delle birre prodotte in Italia molte sono “particolari negli ingredienti”, ma esistono anche molte “quotidiane”.Cmq il discorso è ampio e poi secondo me dipende molto da nazione e nazione.
Ciao Mirco, ti rispondo poichè mi sento chiamato in causa visto il mio intervento. Io non intendevo che solo Pils o Lager o Weisse siano “semplici” e “quotidiane” ma rappresentano presso la gran parte dei bevitori, anche appassionati, la tipologia più ricercata. Per quanto mi riguarda una bitter ale oppure una dry stout sono assolutamente “semplici” e “quotidiane”. Il concetto che volevo esprimere io è che molti birrifici non riescono a proporre a buoni livelli, come ci si aspetterebbe da una birra artigianale, tipologie come queste e che quindi a volte può essere provocatoriamente meglio rivolgersi altrove. Ci sono birrai che propongono birre originalissime e stravaganti ma insieme a birre base di assoluta eccellenza…ci sono birrai che cercano di stupire senza avere birre base valide…e questo non mi torna. Spero di esere stato più chiaro.
Ma secondo voi, Jimi Hendrix sapeva suonare “La canzone del sole” con la chitarra? O Fra Martino Campanaro con lo xilofono?
Parlo per la mia esperienza diretta: se un birraio è stipendiato, fa la birra che gli viene commissionata. Chiedete a questi amici quali birre producono maggiormente per il brewpub o per i clienti che fanno fatturato (non chi compra 10 cartoni l’anno) e vi diranno Pilsner, Helles, Ales, Weizen o Blanche, Kolsh e poi qualche doppio malto, più o meno luppolata, chiara o rossa. I birrai imprenditori, a loro volta, creano ogni tanto delle birre più per se stessi che per gli altri, ma se vogliono sopravvivere attingono a piene mani dall’elenco sopra citato. Certo è difficile fare una Pils o una Helles che si distingua veramente dalle altre, che lasci il segno. E’ più facile fare una birra con ingredienti speciali per distinguersi in un mondo in cui i veri conoscitori sono un manipolo nei confronti di una moltitudine di gente che si ferma allo stand o lascia parlare il rappresentante solo se gli propone una birra diversa da quelle che ha già sugli scaffali. Da non trascurare poi che se promuovi un prodotto locale puoi contare su un battage pubblicitario degli enti locali, che per chi combatte con fornitori che vogliono essere pagati se va bene a 30 giorni e con clienti che vogliono pagare a 90 giorni anche in estate, è un bel supporto. Se poi o più stili di birra in produzione, riesco a fare più degustazioni, abbinamenti, presentazioni e questo mi aiuta nel trovare nuovi clienti, perchè purtroppo non tutti viviamo in posti dove ci sono migliaia di persone che amano la birra e sono disposte a spendere per passare le loro serate in birreria, c’è anche chi produce bottiglie per la vendita e deve trovare negozi, enoteche, faccendieri e distributori che gli consentano di pagare le rate. La mia etica è quella di dare un prodotto qualitativamente in buone condizioni, perchè è difficile emergere in questo mercato per la qualità, a meno che non hai santi in paradiso, ma è facilissimo scivolare sulla prima buccia di banana messa lì da un cliente che ha bevuto una tua birra mal trasportata o mal conservata e scrive su tutti i newsgroup che la tua birra non è buona.
Un altro aspetto è che quando beviamo birra tra amici “intenditori” (birrai, homebrewers, degustatori, conoscitori) cerchiamo nei locali la birra particolare, frutto dell’esperimento particolare. Il “famola strano” o assaggiamola strano è un pò la nostra caratteristica. Personalmente ci tengo a fare una buona Ale e lavoro costantemente sulle tecniche e sugli ingredienti per migliorare il prodotto, ma al tempo stesso vorrei fare una Lambic, una Faro… una Mumms! Non le faccio perchè non le venderei. faccio però la IPA, la miele e la torbata perchè la gente ama fare esperienze. Una Ales disseta, e pochi hanno un palato per rendersi conto, pur nella semplicità, delle note dominanti, dei sentori. Molto più semplice assaggiare una IPA e dire: questo aroma lo sento anch’io! Bella forza, ce n’è in quantità. Ma questo è quello che vuole un certo tipo di consumatore. Il consumatore italiano di un certo livello si sta orientando verso birre base, dissetanti industriali a minor prezzo e birre Artigianali ad alta gradazione o comunque complesse o “strane”. Che gli stranieri e gli italiani sparino le sentenze che più gli fanno comodo. Se non vuoi chiudere i battenti devi fare bene i fondamentali ed ogni tanto qualche birra speciale. Questo è il mercato attuale.
Si potrebbero raccontare aneddoti o fare considerazioni all’infinito. Mi fermo invece sentenziando la mia personale idea per migliorare le cose: i birrifici e le birre crescono con un tasso più che doppio rispetto ai conoscitori e gli amanti delle birre. Formiamo le persone tramite Unionbirrai, tramite i bei circoli ed associazioni che ci sono, a riconoscere la buona Pilsner o Ale artigianali, a differenziarle dalle birre industriali, a trarre piacere dal bere questi stili, aumentiamo il consumo ed allora oltre oceano vedranno che in Italia siamo in grado di competere con i fondamentali. Comunque stasera sono a Roma e me ne vado dal mitico Colonna a bere una Oerbier della De Dolle, sperando che ce ne sia ancora e soprattutto…abbastanza!
Interessantissimo argomento.
Concordo pienamente con Claudio: il lavoro di formazione dei consumatori (ma anche dei birrai, degustatori etc) e l’aumento della qualità media delle produzioni sono le chiavi per fare entrare nei consumi quotidiani le nostre birre. Se non aumentiamo la quota delle birre artigianali all’interno dei ridicoli 30 litri pro capite di birra consumata, ogni considerazione è quasi inutile. Detto ciò e tornando più al centro dell’argomento proposto, io sono un pils-dipendente e vorrei avere in Italia tante ottime pils artigianali, che non ci sono…ma le vorrei al pub! Il canale enoteche, beer shop e ristorazione predilige ovviamente la bottiglia e una birra “normale” in questi contesti resta schiacciata e difficilmente vendibile per il prezzo alto: molto più semplice vendere la “strana”.
A presto. Simone