Per gli amanti delle Real Ales, birre tradizionali, non filtrate soggette alla rifermentazione secondaria in fusto o in bottiglia, l’Inghilterra rappresenta senza dubbio il luogo perfetto al quale approcciarsi. Da questo punto di vista non è difficile imbattersi casualmente in pub che offrono una scelta fuori dal comune. Londra non esula da questo discorso, con i vantaggi e gli svantaggi che presenta una metropoli: ampio mercato, ma anche necessità di selezionare i pub che fanno al caso del singolo bevitore. Un ruolo particolarmente importante lo ricopre quella che viene definita la nuova ondata della birra artigianale, iniziata grazie a marchi come Thornbridge (2005), Beavertown (2011), Wild Beer (2012), Magic Rock (2011), Siren (2012), The Kernel (2009). Di conseguenza la scena birraria londinese sta crescendo, e sono sempre più i pub in grado di fornire una selezione accurata di questi e altri birrifici, locali o esteri che siano. Uno dei pub che riesce a offrire una vastissima scelta, allo stesso tempo, di cask ales e kegs è il The Craft Beer Company di Clerkenwell, naturalmente a Londra.
The Craft Beer Company è una catena di pub nata nella capitale inglese nel 2011, che attualmente può vantare sei punti vendita, cinque nella City e uno nel Sussex, a Brighton. Il primo pub aperto da Martin Hayes e Peter Slezak fu proprio quello di Clerkenwell, situato nel quartiere (borough) di Islington, tappa di un mio recente viaggio nel Regno Unito. Nel locale storico di Leather Lane vengo accolto da Francesco Galgano, general manager del locale, che ha permesso a The Craft Beer Co. di Clerkenwell di vincere il titolo di miglior pub di Londra per il CAMRA; il risultato, giunto sotto la sua guida manageriale, è stato il coronamento del biennio londinese di Francesco. Ripercorriamo dunque questo cammino tra una selezione di birre di Fyne Ales, Siren, Stone, Cigar City e chi più ne ha più ne metta. Il meglio che c’è per un’intervista a tema birraio.
Ciao Francesco, racconta ai lettori di Cronache di Birra la tua storia professionale. Come sei arrivato a Craft e Co.? Qual’è stato il tuo cammino?
Inizierei dal mio primo impiego nel mondo dei locali. A 18 anni, finito il liceo mi sono iscritto a un corso da american bar tender, e per quattro anni ho esercitato la professione, che fosse in pianta stabile o nei weekend, in centro, zona Piazza Navona. A 22 anni mi viene proposta la gestione di un pub in una zona adiacente. Periodo durato circa un anno. All’Harris cafè, dopo aver ripreso l’università, inizio a vendere le mie prime birre artigianali: Tipopils di Birrificio Italiano e la linea di Croce di Malto. Nell’ottobre del 2010 inizio a lavorare da Baccano, una piccola enoteca in zona Pietralata. A seguito dell’ingrandimento del locale, il primo nucleo storico viene ripensato per ospitare una birreria artigianale, uno dei primi locali di birra craft a Roma esclusi chiaramente i mostri sacri. La mia lineup classica: Sveva speciale di Grado Plato, IPA di Orso verde e Reinhart Grand Cru d’inverno o un APA da inizio primavera.
Dopo aver avuto qualche divergenza d’opinioni, avendo 28 anni, ho deciso di fare un’esperienza all’estero per imparare il mestiere di birraio. Il 16 settembre 2013 mi sono trasferito a Londra e ho sostenuto subito un colloquio con la Portobello Brewing. Avrei voluto imparare a brassare nell’ottica di aprire un brewpub, non tanto per diventare birraio a tempo pieno – alla fine amo rivestire il ruolo di publican – quanto per essere ancora più produttivo e preparato in un settore fondamentale per il mio obiettivo finale. All’epoca non avevo l’esperienza e le conoscenze per poter lavorare in un birrificio e quindi sono stato scartato; tra le altre cose, adesso sarebbe tutto molto più semplice: nel frattempo ho acquisito un bagaglio di conoscenze che mi permetterebbe di intraprendere nuovamente questa carriera, ma ho scelto di non compiere questo passo. All’epoca sarei andato in capo al mondo per brassare. Ora, in effetti, non più.
La tua ricerca si è dunque spostata verso il lavoro in un pub. Mestiere che hai ricoperto a lungo nella capitale.
Esattamente. Ho cercato dunque nei pub. Due anni fa, all’epoca della mia ricerca, avevo già esperienza decennale nella vita notturna, e ho dunque selezionato dei locali che ritenevo di alto livello. A differenza dei birrifici, a cui ho chiesto in massa, per i pub non mi sono spinto oltre la decina. Dopo poco tempo ho fatto il colloquio per The Craft Beer Co., non lontano dal pub, a Islington; dopodiché sono subito andato a vedere il locale, nonostante non avessi la certezza che mi chiamassero. Mentre mi stavo bevendo una delle mie prime pinte al Craft mi è arrivata la chiamata del capo, Martin, che mi ha detto che il posto era mio.
Parlaci degli inizi, e della promozione a manager del locale.
All’inizio vengo assunto come bar tender, ma da subito chiedo di lavorare nella cella adibita ai cask. Mi sono detto: “Voglio imparare a lavorare i cask”. In Italia li lavorano in pochi, e quando ho iniziato al Craft mi è sembrato subito il campo ideale in cui specializzarmi; dunque ho iniziato letteralmente a chiudermi in cella. Ci ho messo sei mesi per imparare a sistemare correttamente il cask sul “rack”. To “still edge a cask” si dice qui. Sono quasi 60 chili di fusto, è un lavoraccio e alzarli a 120 cm di altezza è un compito non semplicissimo all’inizio. Però è molto divertente, soprattuto nel delivery day (giorno delle consegne), in cui li lanciamo nella botola e li facciamo atterrare sul materasso. Nei delivery day qui arrivano parecchie cose, avendo noi 37 vie divise quasi equamente tra kegs e casks. Possiamo scaricare tranquillamente una cinquantina di fusti, dunque ci si diverte, ma non ci si riposa molto.
Ero ancora in cerca di nuove esperienze, con la mente rivolta verso la Scandinavia, quando lo staff e i proprietari hanno concordato nell’offrirmi la posizione di manager del pub di Clerkenwell, cosa che mi ha spinto a restare.
Durante la tua gestione manageriale avete ricevuto un’onorificenza molto importante: quella di pub dell’anno per CAMRA. Parlaci delle tue sensazioni rispetto a questo traguardo raggiunto.
È stata assolutamente una sorpresa. Quella di The Craft Beer Co. è una compagnia abbastanza grande, quindi facciamo eventi ogni mese, e non abbiamo molto tempo per pensare ad altro. Non lavori per diventare pub dell’anno. Lo diventi se operi bene, e penso che sia stata questa la nostra forza. Qui lavorano tutti i pub, ma veramente tutti. La differenza sta in quel “bene”, che può veramente qualificarti come un locale di livello. Ai ragazzi dello staff, soprattutto ai neo assunti, lo dico sempre: “Questo è un lavoro duro, ma non è impossibile fare la differenza, poiché in molti lo fanno solo per necessità e non ci si impegnano troppo. Ragazzi se ci mettete un minimo di interesse potete fare la differenza”.
Il trofeo, soprattutto perché consegnato da CAMRA, è un traguardo importante e lo sento mio, essendo arrivato nel periodo in cui ho lavorato come manager del pub. In questo posto ho portato l’italianità di fare le cose come vanno fatte e soprattutto di farle con passione e dedizione, sempre. Quando c’è da lavare la via ogni fine fusto è “ogni fine fusto” e non ogni due perché magari è “busy”, impegnativo. Anche se hai trentasette birre in linea. Ottenere la qualifica di pub dell’anno è stato un bel riconoscimento. Significa tantissimo proprio per il modo in cui è maturato, cioè con la professionalità di chi pensa al singolo servizio e non al possibile traguardo da raggiungere. Quando vendiamo birra ci mettiamo la nostra faccia, quindi le cose devo andare bene, le birre devono stare in forma ed essere servite nel modo più appropriato.
Come vedi la scena birraria londinese?
La vedo molto giovane e frettolosa. Purtroppo anche un po’ “modaiola”, amante della luppolatura esagerata e delle birre acide, con acidità magari meno spiccata come quella di una Berliner Weisse. Cosa mi piace? Apprezzo la presenza di molti beer geeks (appassionati), ma è ancor più piacevole il fatto che allo stesso tempo non siano gli unici clienti della birra artigianale, quindi l’ampiezza del mercato è un punto a favore. Non mi piace che molti locali aprano senza arte né parte. Un altro problema che abbiamo a Londra è che, essendo il consumo molto alto, spesso si vendono birre “green”, giovani, soprattutto per quanto riguarda le cask ales. Dover vendere è un mantra qui, e purtroppo secondo questa logica la lavorazione del fusto non è sempre ottimale.
La cosa bella, che in Italia non so quanto sia fattibile è che i birrifici aprono al pubblico il sabato mattina. Da noi non credo sarebbe fattibile per un semplice discorso di pulizia: se stai birrificando il pub deve star tendenzialmente chiuso. Certo, neanche qui i birrifici brassano quando aperti al pubblico, ma in effetti l’ultima volta che sono andato ho pensato a tutta la gente che è entrata nell’impianto ha portato una carica batterica da far paura (ride, ndr). Non stai portando dentro l’impianto esattamente rose e fiori. Non vi è una divisione fisica tra il luogo in cui si trovano le persone e quello in cui stanno i fermentatori. Bello, ma in effetti un po’ strano. Nonostante la maggior parte dei birrifici che ho avuto il piacere di visitare siano estremamente puliti.
Cask ales e nuove generazioni di bevitori. Parlaci di questi due mondi. Si compenetrano o si ignorano?
Le nuove generazioni sono più restie ad avvicinarsi alle cask ales. Come prima cosa, per un fattore culturale: lo vedono come il drink del padre, del nonno; troppo old school. Il secondo motivo è prettamente sensoriale: la birra in keg ha un impatto più esplosivo rispetto a una in cask. La birra molto luppolata in cask non avrà mai la stessa intensità a livello olfattivo di una in keg. Questo incide sui clienti giovani. I cask cambiano profondamente texture (corpo) e naso. Le nuove generazioni tendenzialmente bevono birra molto fredda e frizzante, così un cask servito a 15 gradi per un avventore qualunque può sembrare piatto. Non vengono sempre colte le sfumature che fanno di quelle in cask delle birre complesse, senza parlare del fatto che sono in continua evoluzione all’interno del fusto. Una cask ale non è piatta, ha una diversa frizzantezza. In una cask ale ben fatta senti solo le bollicine poggiarsi sulla lingua, mentre nel keg senti un’esplosione in bocca che garantisce un impatto immediato.
Com’è percepita a Londra la birra craft italiana?
I clienti medi sono molto poco informati del mondo birrario della Penisola. Per chi fa il mestiere di publican è frequente sentire opinioni di tutti i colori del tipo “ah, perché in Italia non bevete solo vino?”, quindi è di base importante capire che la maggior parte delle persone con cui ci sia approccia non è a conoscenza della scena birraria locale, figuriamoci di quella internazionale. Non molti sono a conoscenza del fatto che in Italia vi sia una scena birraria florida. A Londra inoltre si vende un’enorme quantità di Peroni e Nastro Azzurro rispetto al resto del mondo. Questi sono due dei marchi che ci rendono famosi qui in Inghilterra, chiaramente molto lontani dalla scena della birra craft. Bisogna far sapere ai clienti che in Italia ci sono moltissimi microbirrifici. Tuttavia, anche molti dei clienti esperti non si capacitano di come in Italia si possano fare Bitter, IPA o Tripel. A me piace spiegare che, appunto, non avendo da noi una cultura brassicola di antica tradizione, ci ispiriamo a qualsiasi cosa, che poi è quello che sta succedendo anche in Inghilterra.
Parlando con tanti beer geeks, riconoscono che in Italia si stanno facendo ottime cose. Nonostante le IPA italiane siano diverse da quelle inglesi, anche di nuova generazione come quelle di Beavertown e The Kernel. Per molti facciamo birre più complesse, ogni cotta viene studiata con cura. In Inghilterra hanno a che fare con un pubblico diverso, abituato a bere cose differenti, dunque si brassa seguendo altri criteri. Secondo me a livello di complessità aromatica e sensoriale sono leggermente più povere, dipende ovviamente da birrificio a birrificio. Comunque uno dei punti dolenti – mi ripeterò – è sicuramente quello della birra giovane: va bene bere super fresco, per alcuni stili è anche consigliabile e consigliato, ma per alcuni di essi seguire troppo questa tendenza è dannoso. Due settimane dall’imbottigliamento o un mese e mezzo, per particolari stili, fa una differenza enorme; consumando quella di due settimane rischia di passare inosservata la complessità del prodotto.
Francesco, quali sono i tuoi progetti futuri? Lancia un appello finale ai lettori di Cronache di Birra e ai bevitori italiani.
Potrei tornare presto in Italia per lanciarmi in nuovi progetti tra mondo della craft beer e il vecchio amore del bar tending. Non escludo collaborazioni con scuole di formazione per professionisti del settore.
Più che un appello, vorrei spiegare il mio stile d’approccio con il cliente, che è stata una forza nel corso del mio periodo al The Craft Beer Co. Non bisogna chiudersi in un mondo inaccessibile ai più. Non facciamo la fine del vino, dei sommelier, che impongono la conoscenza davanti a un cliente che non sa di cosa si sta parlando, perché non è il suo lavoro, perché avrà pensieri molto più importanti di quello che vuol dire “doppio malto” (ride di nuovo, ndr): questo compito che spetta soprattutto ai publican. Se arriva il cliente che non ne sa, non bisogna essere stronzi. A te gestore di un bar, deve interessare che il cliente ritorni: se entra qualcuno che non ne sa tu publican hai terreno fertile, una persona che ti puoi far cliente e che puoi educare. Se la accogli insultandolo perché ti chiede una doppio malto, intimandolo di andarsi a bere una birraccia, chiunque esso sia andrà sicuramente bere la birraccia. Perché un cliente non si può prendere gli insulti quando stacca da lavoro per ordinare una birra, da solo, con gli amici, con la ragazza. Andrà al bar, chiederà due birre industriali – sette euro – e penserà di essere stato trattato decisamente meglio rispetto alla situazione che ha dovuto subire al pub. Questo è molto importante. In questo lavoro ho capito una cosa: puoi avere le miglior birre al mondo, puoi essere il miglior barman del mondo, puoi avere le migliori bottiglie e la miglior attrezzatura, ma se non sai trattare il cliente in un modo consono, il cliente non tornerà mai, e gli farai odiare il prodotto che stai vendendo, qualunque esso sia. Mi sono momentamente allontanato dal mondo del bar tending per questo. Era andato troppo oltre. Il cliente va educato, gli va dato lo stimolo a imparare, ma con rispetto. C’è un detto giapponese che recita: “non avrai mai una seconda occasione di fare una buona prima impressione”. Quando lavoro mi ispiro a questo.
complimenti veria Francersco Galgano, in particolar modo per il suo modo di intendere quello che deve essere il rapporto tra publican e cliente. così si fa!