Per la birra artigianale italiana ogni inizio di nuovo anno rappresenta un momento di grande attesa, principalmente per alcuni verdetti che si concentrano nei primissimi mesi. Tra questi i più importanti e autorevoli sono quelli che emergono da Birra dell’Anno, concorso a tema che l’associazione Unionbirrai organizza da quasi quindici anni. Per quei pochi che non lo conoscessero, il contest è basato su un meccanismo comune ad altre iniziative analoghe: prevede l’iscrizione di centinaia di birre (lo scorso anno circa 1.300) che vengono suddivise in categorie e valutate “alla cieca” da decine di giudici. Alla fine si stila un podio per ogni categoria e si assegna un premio generale al birrificio che ha ottenuto il punteggio più alto, calcolato in base ai vari piazzamenti delle proprie birre. A differenza di tanti altri concorsi, Birra dell’Anno ha un’impostazione nazionale e non internazionale: sono cioè ammesse solo birre prodotte sul territorio italiano. Può sembrare un elemento penalizzante, invece è uno dei suoi punti di forza perché lo rende unico e in grado di restituire una buona fotografia del movimento brassicolo nazionale.
Come in ogni edizione le novità non mancheranno. La più importante riguarda sicuramente l’ampia riforma che ha investito le categorie del concorso, aspetto che si nota già a livello numerico: dalle 29 dello scorso anno (all’epoca già un record) si è passati alle 41 dell’edizione 2018, con un incremento davvero impressionante. Questa parcellizzazione ha permesso di isolare molti stili birrari, che fino allo scorso anno condividevano lo stesso gruppo di birre pur presentando alcune sostanziali differenze. Così ad esempio le Pils sono state distinte dalle Helles e dalle Keller, le Stout e le Porter di stampo anglosassone diversificate da quelle di stampo americano, le White IPA e le Black IPA estratte dal calderone Specialty IPA e utilizzate per formare due distinte categorie. La ratio alla base dell’ultima scelta si ritrova anche nella categoria delle birre con spezie, nella quale non rientrano più sia le birre con caffè e cacao, sia quelle con cereali alternativi (ora coincidono rispettivamente con le categorie 30 e 31).
Ulteriori modifiche hanno permesso di attribuire giusta dignità a diverse tipologie. Ora è prevista una categoria dedicata a Berliner Weisse e Gose, una alle Hoppy Lager, una alle Session IPA e una – udite udite! – alle New England IPA. Sulla prima niente da dire: Berliner Weisse e Gose sono sì stili di nicchia, ma in grande crescita e piuttosto peculiari, dunque degni di un gruppo a sé stante. La categoria delle Hoppy Lager è stata probabilmente intesa per tutte quelle basse fermentazioni di stampo moderno (luppolature americane in primis) che finivano penalizzate in un gruppo tradizionale come quello composto da Pils, Helles, Keller, ecc. Per quanto riguarda le Session IPA, questa definizione a me fa sempre accapponare la pelle, ma ormai sono così diffuse anche in Italia da rendere la scelta pienamente comprensibile – semmai il dubbio riguarda quanti dei nostri birrifici imbottigliano certe produzioni. Infine la categoria delle New England IPA dimostra che il concorso è al passo coi tempi, forse anche troppo: quanti produttori italiani realizzano NE IPA e le rendono disponibili in bottiglia?
Molto interessante è la suddivisione delle Italian Grape Ale in due categorie distinte, definite White IGA e Red IGA in base al tipo di uve utilizzate. Un tentativo apprezzabile di creare un po’ di ordine in una tipologia profondamente variegata, dove le variabili in gioco sono così ampie da richiedere un minimo di razionalizzazione. La parcellizzazione delle categorie non è riscontrabile ovunque: ad esempio rientrano ancora nella stessa categoria Kölsch, Altbier e California Common, che rappresentano stili molto diversi tra loro. In questi casi il problema risiede nel numero di birre iscritte effettivamente appartenenti a quelle tipologie: se sono poche, è inutile creare categorie ad hoc. Infine vale la pena spendere due parole per la categoria 41, l’ultima, intesa come residuale rispetto a tutte le altre:
Birre chiare, ambrate e scure, alta o bassa fermentazione, da basso ad alto grado alcolico di ispirazione libera e non rientranti in nessuna delle precedenti categoria (Extraordinary Ale / Extraordinary Lager).
Insomma, se non sapete che birra avete prodotto, potrete chiamarla Extraordinary Beer 🙂 .
L’aumento del numero delle categorie richiederà probabilmente un maggiore sforzo organizzativo, nonché un lavoro più impegnativo per i giudici, tra i quali avrò per l’ennesima volta la fortuna di comparire anche io. Tra le novità dobbiamo sicuramente segnalare l’assenza delle aziende che nel corso del 2017 hanno perso lo status di birrificio artigianale: non ci saranno quindi Birradamare, Birrificio del Ducato e Hibu (oltre ovviamente a Birra del Borgo). Come sempre le beerfirm saranno ammesse, a condizione di produrre presso birrifici artigianali italiani.
Le iscrizioni alla tredicesima edizione di Birra dell’Anno sono aperte da alcune settimane e rimarranno tali fino al 29 gennaio 2018. Se siete interessati a partecipare potete consultare il sito di Unionbirrai. La cerimonia di premiazione avverrà sabato 17 febbraio a Rimini Fiere, come sempre nell’ambito della manifestazione Beer Attraction. Il birrificio Baladin sarà chiamato a difendere il titolo di Birrificio dell’anno conquistato nel 2017, ma date le enormi modifiche al concorso mai come quest’anno i risultati saranno difficili da prevedere. Non resta che attendere qualche settimana e poi ci sarà da divertirsi. Secondo voi chi trionferà nell’edizione 2018 del concorso?