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Visita a Stella Artois, o di come le multinazionali concepiscono la birra

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Gli impianti di Stella Artois a Lovanio

Nel programma previsto dall’Ente del Turismo delle Fiandre per il mio recente viaggio in Belgio era inserita anche una visita agli impianti di Stella Artois. Vi assicuro che fino all’ultimo sono stato indeciso sul da farsi: in definitiva perché perdere un paio di ore di Zythos per girarmi in lungo e in largo un grande birrificio industriale? Poi ragionando sul tempo che avrei comunque speso al festival e sull’importanza che riveste Stella Artois per la città di Lovanio, ho deciso di seguire il programma. A posteriori devo ammettere che è stata una scelta vincente, perché ho potuto approfondire il mio rapporto con la birra delle multinazionali e scoprire aspetti sempre importanti. È così che la mattina sabato 27 mi sono ritrovato insieme a una decina di curiosi davanti ai cancelli dell’azienda, pronto a seguire con attenzione il tour guidato alla fabbrica. Nel post di oggi vi racconterò la mia gita e il modo spesso aberrante con il quale l’industria concepisce la birra.

A condurre la nostra visita c’era un simpatico dipendente dell’azienda, indubbiamente un po’ là con gli anni ma estremamente professionale. Prima ancora di entrare nei padiglioni della sede, ci ha raccontato la storia del marchio Stella Artois, in particolare di come è diventato – attraverso accordi e acquisizioni – il fautore del più grande gruppo birrario del mondo. Quella multinazionale si chiama oggi AB Inbev e la sua genesi è stata raccontata anche su queste pagine, almeno relativamente alle ultime tappe della sua evoluzione. Tutto partì secoli fa dal birrificio Den Horen (“il corno”) di Lovanio, il cui head brewer divenne nel 1708 Sebastian Artois. Il marchio cambiò nome in Stella Artois, con esplicito riferimento al prodotto più famoso del birrificio, realizzato per le festività natalizie. Dagli anni ’60 l’azienda iniziò una serie di acquisizioni, creando l’agglomerato Interbrew, che poi divenne InBev quando si fuse con la brasiliana AmBev.

La sala cotte
La sala cotte

Il resto della storia fa parte degli ultimissimi anni. La vicenda più importante fu l’acquisizione della statunitense Anheuser-Busch, che trasformò la multinazionale nel protagonista più importante del mercato birrario mondiale. Non senza un certo sarcasmo la nostra guida ci ha raccontato alcuni retroscena (più o meno veritieri) dell’accordo: gli americani cercarono di resistere alle pressioni dei belgi, ma poi cedettero di fronte a un’offerta di 52 miliardi di dollari. Tuttavia per giungere all’accordo finale Inbev dovette accettare la presenza dell’aquila nel logo della nuova società e la precedenza delle iniziali di Anheuser-Busch nella nuova denominazione sociale. Fu così che si arrivò al nome AB Inbev e all’attuale logo con il volatile simbolo degli USA. Era il 2008 e anche Cronache di Birra riportò la notizia della fusione, così come la successiva acquisizione del gigante messicano Modelo (quelli della Corona).

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Questa storia serve anche per offrirvi un indizio sulle dimensioni degli impianti di Stella Artois, situati non lontano dalla stazione centrale di Lovanio (e dunque dal centro della città). Considerate che ogni giorno vengono realizzati la bellezza di 20.000 ettolitri di birra, praticamente il doppio di quanto producono in un anno i maggiori birrifici artigianali italiani.  Ogni cosa all’interno del birrificio è dunque enorme, a partire dalla sala cotte, davvero impressionante. Tuttavia non sono tanto le dimensioni a colpire – beh, chiaramente anche quelle – quanto piuttosto il modo in cui si concepisce la birra. Affermare che tutto il processo è paragonabile a quello di una fabbrica automatizzata è facile e anche un po’ fuorviante. Non perché non lo sia, ma perché si perdono alcuni aspetti fondamentali legati al concetto di birra.

Uno dei filtri, impressionante
Uno dei filtri, impressionante

Rimanendo ad esempio nella suddetta sala, su una delle pareti sono presenti alcune illustrazioni che schematizzano l’iter della produzione brassicola. Ebbene, il primo passaggio riguarda l’ammostamento del mais. Non del malto d’orzo, badate bene, ma del mais, cioè di uno di quei surrogati ai quali l’industria è solita ricorrere per abbassare i costi produttivi. Che questo stratagemma venga ritenuto fondamentale nel processo brassicolo è già di per sé allucinante, ma questo è niente rispetto alla naturalezza con la quale la nostra guida ci ha spiegato le meraviglie organolettiche che il mais è in grado di regalare ai nostri palati. E non sto scherzando…

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Dopo essere passati per una stanza che ospita i filtri di Stella Artois – come ho scritto su Twitter ognuno di essi poteva tranquillamente essere confuso con l’acceleratore a particelle del Cern 😛 – abbiamo fatto capolino nella sala di fermentazione, ancora più sconvolgente della precedente. Si tratta di un padiglione intero nel quale scorre un’infinità di tubi (sembrava di essere in un sommergibile) e dove dominano la scena dei giganteschi fermentatori. Come fossero degli iceberg invertiti, di questi ultimi apparecchi erano visibili solo le parti finali, a forma di cono rovesciato. Il resto dei fermentatori si innalza infatti per altri 70 metri, quindi ben oltre l’altezza della sala stessa.

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La sala di fermentazione

Ma se parliamo di dimensioni, la parte più impressionante è quella destinata al confezionamento, almeno in termini di superficie occupata. Questa zona (definirla “sala” è riduttivo) è davvero sconfinata e i limiti non erano minimamente visibili dalla nostra postazione rialzata. Siamo riusciti ad ammirare due delle linee di imbottigliamento di lattine e bottiglie, seguendo ipnotizzati il viaggio dei contenitori sui diversi nastri trasportatori. Interessante la parte relativa alla pastorizzazione del prodotto, decisamente più invasiva per le lattine che per le bottiglie.

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Il nostro tour si è concluso nella sala di mescita, dove ci è stato servito un bicchiere di Stella Artois – speravo in una versione non filtrata o non pastorizzata, ma mi sono dovuto ricredere. A quel punto aveva una tale voglia di correre allo Zythos che la birra mi è sembrata quasi gradevole, sentori di mais a parte.

La visita si è conclusa così, ma c’è un dettaglio abbastanza sconvolgente, che dovrebbe farvi comprendere cosa significa birra industriale. Su precisa domanda, a un certo punto la nostra guida ci ha rivelato che negli impianti di Lovanio vengono realizzate solo due ricette, a fronte però di un gran numero di diverse birre prodotte – ovviamente Stella Artois, ma anche diverse Leffe e via dicendo. Come si conciliano le due cose? Nel modo più incredibile: le due ricette prevedono un alto livello di gradi plato (quindi alcolico) e vengono diluite con acqua per ottenere la birra desiderata. Parallelamente sono aggiunti aromi vari per raggiungere il gusto ricercato. Traetene voi le conclusioni…

La gita è stata dunque molto preziosa per ribadire l’attenzione delle multinazionali per il concetto di qualità nella birra. I meccanismi che si instaurano a certi livelli sono così lontani da un’idea genuina di processo brassicolo che è impossibile non chiedersi cosa abbia a che fare il risultato finale con l’idea di birra. Tali aspetti vengono giustificati dagli industriali affermando che per volumi tanto grandi non esistono alternative. Ma è fin troppo evidente che si tratta di una semplice scusa, un modo per liquidare velocemente la faccenda.

Le multinazionali del settore sono quanto di più lontano dall’idea di birrificio artigianale. Il loro stesso concetto di birra è totalmente differente da una sua concezione naturale. Chiaramente ognuno è libero di intendere questo settore nel modo che preferisce, ma non si possono tacere le immense differenze che esistono tra birra artigianale e industriale. Non è e non sarà mai “la stessa identica bevanda”, così come l’industria non potrà mai capire le peculiarità dei microbirrifici e la passione che guida i relativi birrai. Quando ci ha provato, è perché voleva semplicemente spremere le risorse del movimento artigianale. Esattamente come ha dimostrato la storia birraria di Lovanio.

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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22 Commenti

  1. Magari sparo una cavolata, ma in fondo il concetto di diluizione successiva con acqua non è poi così lontano dal più antico metodo del “Parti-Gyle Brewing”, dove con una singola miscela di malti si producevano birre diverse. Certo, poi c’è da vedere quali “spezie” aggiungono in fabbrica, ma questo è un altro discorso.

    Trovo invece assurdo anche io l’elogio delle proprietà organolettiche del mais.

    • Il parti gyle e’ ben differente.. da un mash con tanto malto vengono fatte prima una birra forte (tipo barley wine) e poi una o più birre leggere (tipo bitter). Non viene diluito il mosto..

      • Esatto. Però, non so, tante cose mi scandalizzano nel racconto, ma il fatto che il mosto venga diluito con acqua mi pare la meno sconvolgente di tutte. Altra cosa se la birra venisse diluita con acqua.

    • No regà, ve prego, c’è una differenza abissale tra fare una “riscacquALE” dalle trebbie (poco sfruttate) di un Barley Wine e fare una cotta singola, fermentarla per poi diluirla e corregerla fino ad ottenere 10 “”””birre””””” differenti………………………………………

  2. Sembra più un viaggio all’inferno che la visita ad un sito produttivo di Birra. Il vero dramma è che tutte le grandi industrie alimentari (multinazionali e non) complici le normative europee e internazionali, produco cibi alterati e/o pericolosi per la salute. Provate a fare un giro su internet e scoprire come vengono realizzati i wurstel di pollo….
    Il mercato delle birre artigianali rappresenta l’ 1/2 % del volume totale di consumi italiani; cerchiamo di fare proselitismo perchè c’è ancora il 99% del mercato da conquistare!!!

    • Parole Sante, caro Francesco!
      Io, da parte mia, ci sto mettendo l’anima per coinvolgere quante più persone possibile in questo grande “movimento” che si chiama birra artigianale, e devo dire che parecchie di loro non mostrano grandi tentennamenti a riconoscere che stiamo parlando di prodotti totalmente diversi, e che nelle birre artigianali ancora c’è un anima…

  3. Senza parole, capisco e sapevo che si vogliano (o si debbano per via della concorrenza) abbassare i costi, ma c’è un limite sia qualitativo che “etico”…ma forse a certi livelli l’etica non è vista di buon occhio…

  4. “le meraviglie organolettiche che il mais è in grado di regalare ai nostri palati”

    Gli piacerà il DMS, evidentemente.

      • Il mio commento era riferito a un’espressione usata da Bertinotti in “La tua birra fatta in casa”, che definisce l’odore del DMS come quello del mais in scatola. La mia ignoranza ha fatto il resto ;).

  5. La sovragradazione del mosto (ossia fare una birra ad elevata gradazione per poi diluirla in tempi successivi) non è utilizzata solo per creare una base unica per più ricette ma anche per ridurre gli spazi (e i costi) di stoccaggio, la usa anche Heineken nei suoi stabilimenti in Italia.

  6. Mi ricorda molto la visita che feci alla fabbrica dell’Ichnusa, anche là usavano il metodo della diluizione con acqua deareata, a partire da una birra “base” da circa 7% alc. per poi ottenere Ichnusa, Prinz, Moretti..
    Per non parlare poi dell’elogio del mais – che pare sia praticato di default in tutte le fabbriche – e della quantità di m**** spalata sulle birre artigianali..
    Interessante, comunque, conoscere anche questo tipo di realtà.

    • La diluizione del mosto per portarlo alla gravita` voluta (breaking down) da cui far partire la fermentazione e` una cosa abbastanza normale nei birrifici di grosse dimensioni,ma il caso citato da Andrea,detto “high gravity brewing”,e` diverso,praticamente si fa` un mosto molto concentrato da cui poi tramite diluizioni e aggiunte si ottengono

  7. […] Ancora più confusione genera l’indicazione birra d’abbazia. Una birra infatti, per essere definita tale, deve semplicemente prevedere l’esistenza di un legame con il monastero o l’abbazia che inizialmente la produceva. Non sono necessariamente i monaci ad occuparsi della produzione. Anzi, quasi sempre si tratta di licenze concesse a produttori di birra per l’utilizzo del nome, del marchio e/o della ricetta originaria. Basti pensare che il famoso marchio Leffe, che si vanta di produrre “birra d’abbazia” riconducibile all’abbazia Notre Dame de Leffe in Belgio, è oggi di proprietà della multinazionale birraria AB-InBev (del cui discutibile  metodo di produzione si parla su un articolo su Cronache di Birra). […]

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